Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7555 del 29/03/2010

Cassazione civile sez. I, 29/03/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 29/03/2010), n.7555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 15203/2008 proposto da:

H.H., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VAL DI

NON 18, presso lo studio dell’avvocato MASSAFRA Gianfranco, che lo

rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PREFETTURA – UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO DI ROMA, in persona del

Prefetto pro tempore e MINISTERO DELL’INTERNO in persona del Ministro

pro-tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende, ope legis;

– controricorrenti –

avverso il decreto R.G. 1910/08 del TRIBUNALE di ROMA del 7/3/08,

depositato il 12/03/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

10/12/2009 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO DIDONE;

è presente il P.G. in persona del Dott. VINCENZO GAMBARDELLA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO

La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è del seguente tenore: ” H.H. chiede, per due motivi, la cassazione dei decreti 7 marzo 2008 e 18 marzo 2008 con cui il Tribunale di Roma ne ha respinto l’opposizione avverso il provvedimento di espulsione emesso in data 30 gennaio 2008 dal locale Prefetto.

Non resiste l’amministrazione intimata.

Osserva:

Con il primo motivo, denunziata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 13 e 13 bis e art. 737 c.p.c., il ricorrente deduce che sullo stesso ricorso in opposizione al decreto espulsivo sono stati emessi due distinti decreti; l’uno il 7 marzo 2008, e depositato il 12 marzo successivo, senza la previa fissazione di una udienza di discussione, e quindi in palese violazione del contraddittorio; l’altro il 18 marzo 2008, sempre di rigetto, nonostante il procedimento fosse stato già definito con il precedente provvedimento.

Con il secondo motivo, denunziando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, il ricorrente critica che in entrambe le decisioni il tribunale afferma di non poter mettere in discussione la provenienza del decreto, recando la firma di un funzionario delegato.

Al contrario, il provvedimento deve essere considerato inesistente, non essendo dimostrata la delega al funzionario sottoscrivente di data antecedente al provvedimento impugnato.

Con il terzo motivo, denunziando violazione della L. n. 241 del 1990, artt. 7 e 8, nonchè violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 6, e art. 7, violazione dell’art. 24 Cost., e del D.L. n. 241 del 2004, art. 13, n. 7, si critica il richiamo, da parte di entrambi i decreti, alle sentenze di questa Corte nn. 28858/2005 e 28884/2005, che, a dire del ricorrente, sarebbero state smentite dalla sentenza n. 7654/2008, secondo la quale è affetto da nullità il provvedimento di espulsione privo di traduzione nella lingua conosciuta dalla straniero.

In fine al ricorso è dato testualmente leggere:

Quesito sul motivo 1:

accerti la Corte se vi è stata violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, e segg., violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, artt. 13 e 13 bis nonchè dell’art. 737, e segg., ed enunci a norma dell’art. 363 c.p.c., il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

Quesito sul motivo 2:

accerti la Corte se vi è stata violazione della normativa attinente al potere di delega dei funzionari pubblici ed enunci a norma dell’art. 363 c.p.c., il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

Quesito sul motivo 3:

accerti la Corte se vi è stata violazione della L. n. 241 del 1990, artt. 7 e 8, nonchè violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 2, comma 6, e art. 7, violazione dell’art. 24 Cost., e del D.L. n. 241 del 2004, art. 13, n. 7, ed enunci a norma dell’art. 363 c.p.c., il principio di diritto al quale il Giudice di merito avrebbe dovuto attenersi.

Il ricorso appare palesemente inammissibile per mancanza di formulazione di quesiti di diritto, tali non potendosi di certo considerare quelli come sopra imbastiti.

Come questa Corte ha in più occasioni chiarito, i quesiti di diritto imposti dall’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, comma 1, secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di legittimità, rispondono all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente a una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, e al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di legittimità. Nella elaborazione dei canoni di redazione del quesito di diritto la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai chiaramente orientata a ritenere che ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera della Corte di cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso: ove tale articolazione logico – giuridica mancasse, il quesito si risolverebbe in un’astratta petizione di principio, inidonea sia ad evidenziare il nesso tra la fattispecie ed il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio ad opera della Corte, in funzione nomofilattica (vedi Cass. nn. 22640/2007, 14682/2007, 14385/2007, 13329/2007). Il quesito non può pertanto consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura. così come illustrata nello svolgimento dello stesso motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (cfr., e plurimis, sentt. 11535/2008, 3519/2008, 19892/2007, quest’ultima resa in una fattispecie omologa alla presente). Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare. In particolare, in caso di ricorso per motivi processuali deve da tale lettura poter intendere quale errore sia stato abbia compiuto dal giudice e quale corretta soluzione in diritto avrebbe dovuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata.

I quesiti sopra riportati non contengono gli enunciati requisiti, limitandosi con essi il ricorrente a chiedere a questa Corte di accertare la denunziata violazione di plurime norme di legge, peraltro citate in maniera generica, e il vizio di motivazione, senza individuare in alcun modo l’esistenza di una discrasia tra la (non indicata) ratio decidendi e il (non enunciato) principio di diritto che il ricorrente vorrebbe fosse posto a fondamento di una diversa decisione. Essi dunque si riducono alla semplice sollecitazione all’esercizio della funzione nomofilattica e cioè a quella generica istanza di decisione sulla esistenza della violazione denunziata nel motivo che costituiva l’incombente del difensore ricorrente nella previsione anteriore alla novella del 2006. La novità introdotta dalla riforma di cui al D.L. n. 40 del 2006, allo scopo di innestare un circolo selettivo e virtuoso nella preparazione delle impugnazioni in sede di legittimità, sta invece nella imposizione al patrocinante in cassazione dell’obbligo di sottoporre alla Corte la propria finale, conclusiva, valutazione della avvenuta violazione della legge processuale e sostanziale riconducendo ad una sintesi logico- giuridica le precedenti affermazioni bella lamentata violazione.

Nè potrebbe dirsi, quanto al primo quesito, che violazione della legge processuale e quesito siano un tutt’uno dal punto di vista logico-giuridico; di vero, anche l’ipotesi anomala di una trattazione della stessa domanda da parte di due magistrati appartenenti al medesimo ufficio giudiziario, come tali muniti di pari funzioni ed attribuzioni, implica problematiche, sintetizzabili per l’appunti in appositi quesiti, circa la sorte delle sentenze rese a conclusione dei relativi procedimenti e sulla natura del vizio che inficia l’una o l’altra o l’una e l’altra decisione e, specularmente, sull’oggetto della impugnazione.

In conclusione, ove si condividano i testè formulati rilievi, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendo i requisiti di cui all’art. 375 c.p.c.”.

2. – Il Collegio condivide il contenuto della relazione e le argomentazioni che la sorreggono, che conducono alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Va dato atto, peraltro, dell’avvenuta tardiva notificazione (9.7.2009) del controricorso da parte dell’Amministrazione intimata.

L’inammissibilità di tale atto difensivo, dunque, fa sì che nessuna pronuncia sulle spese debba essere emessa.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2010

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