Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7555 del 01/04/2011

Cassazione civile sez. III, 01/04/2011, (ud. 14/02/2011, dep. 01/04/2011), n.7555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETTI Giovanni Battista – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5296-2009 proposto da:

M.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DI TRASONE 12, presso lo studio dell’avvocato CIRIACO

FORGIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARRUZZO ETTORE giusta

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

e contro

B.D., ASSITALIA LE ASSITALIA D’ITALIA SPA;

– intimati –

nonchè da:

B.D., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso lo studio dell’avvocato DE

LUCA TAMAJO BOURSIER NIUTTA, rappresentato e difeso dall’avvocato

FONTANA GIORGIO giusta delega a margine del controricorso con ricorso

incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

M.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DI TRASONE 8, presso lo studio dell’avvocato FORGIONE

CIRIACO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARRUZZO BRUNO giusta

procura speciale in calce al ricorso;

– controricorrente all’incidentale –

e contro

ASSITALIA LE ASSITALIA D’ITALIA SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 742/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, 4^

SEZIONE CIVILE, emessa il 23/01/2008, depositata il 22/02/2008;

R.G.N. 6204/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/02/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI CARLEO;

udito l’Avvocato ETTORE MARRUZZO;

udito l’Avvocato MARCO FISCAL (per delega Avvocato GIORGIO prof.

FONTANA);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 30 aprile 1990 il sig. M.S. esponeva che, avendo avvertito disturbi alla vista, si era rivolto al dr. B.D., il quale, riscontratogli, una opacizzazione del cristallino per cataratta,, lo aveva sottoposto a cure omeopatiche con prodotti da lui preparati; che dopo alcuni mesi di cure, constatato l’aggravamento dei disturbi, si era recato alla clinica (OMISSIS) ove avevano escluso la cataratta, riscontrandogli invece un intorbidimento essudativo del vitreo con sinchisi scintillante; che il ritardo aveva determinato l’irreversibile patologia dell’occhio destro e la perdita dell’intero campo visivo.

Ciò premesso, conveniva in giudizio il B. chiedendone la condanna al risarcimento nella misura di L. 500 milioni. In esito al giudizio, in cui si costituivano il sanitario, che negava di aver mai avanzato ipotesi diagnostiche per disturbi oculari, e l’Assitalia da lui chiamata in garanzia, l’adito Tribunale di Avellino accertava la concorrente responsabilità in misura paritaria di medico e paziente e, in accoglimento della domanda di manleva, condannava l’Assitalia al pagamento di Euro 51.975,00 oltre accessori di legge e metà delle spese processuali.

Avverso tale decisione proponeva appello il M.. In esito al giudizio, in cui si costituivano sia il B. sia l’Assitalia proponendo a loro volta appello incidentale, la Corte di Appello di Napoli rigettava tutte le impugnazioni compensando le spese con sentenza depositata il 22 febbraio 2008. Avverso tale decisione il M. ha proposto ricorso per cassazione articolato in sette motivi. Resiste con controricorso il B. il quale ha proposto a sua volta ricorso incidentale. Il M. ha depositato controricorso. Il ricorrente incidentale ha infine depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

In via preliminare, vanno riuniti il ricorso principale e quello incidentale, in quanto proposti avverso la stessa sentenza.

Procedendo all’esame del ricorso principale, proposto dal M., si deve osservare che la prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p., si fonda sulla considerazione che la Corte territoriale avrebbe errato quando ha ritenuto di dover circoscrivere la decisione ai motivi ed alle conclusioni introdotte nell’atto di appello senza prendere in considerazione la comparsa di costituzione successivamente depositata a ministero di un ulteriore difensore in cui, secondo la erronea tesi della Corte, l’appellante avrebbe operato un’inammissibile mutatio libelli sia con riferimento alla causa petendi che con riferimento al petitum. Ed invero – così continua il ricorrente – le argomentazioni proposte dal secondo difensore, lungi dall’introdurre elementi di novità rispetto alla domanda e ai motivi spiegati nell’atto di appello, si limitavano a ribadire e a precisare i motivi ritualmente proposti dal primo difensore.

La censura è inammissibile. Ed invero, delle due, l’una. Se realmente le richieste avanzate nel corso del giudizio di impugnazione non contenevano nessun elemento di novità rispetto alla domanda e ai motivi spiegati nell’atto di appello, deve desumersi il difetto di interesse del ricorrente a far valere la doglianza de qua, in quanto la considerazione dei soli motivi spiegati nell’atto di appello, da parte della Corte, sarebbe stata di per sè sola esaustiva. Se al contrario contenevano elementi di diverso significato, suscettibili di rilievo officioso, come vorrebbe far ritenere il ricorrente, la doglianza è inammissibile per difetto di autosufficienza non avendo il ricorrente riportato nel ricorso per cassazione – previa integrale trascrizione – il contenuto delle richieste e delle conclusioni contenute nei due diversi atti. Ed infatti, anche in tema di un error in procedendo, per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale¯, il potere-dovere della Corte di esaminare” direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte riportarne il contenuto.

E ciò, in quanto deve essere consentito alla Corte il relativo controllo sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, senza necessità di indagini integrative.

Con la seconda doglianza per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, il ricorrente lamenta “l’illogicità e contraddittorietà di una motivazione che, se da una parte ritiene non del tutto provata la responsabilità del professionista, omettendo peraltro di chiarirne le ragioni, dall’altra (solo tre pagine dopo) la riconosce riconducendo all’imperizia del sanitario la rapida degenerazione della malattia” (cfr pag. 36 del ricorso).

La censura è infondata. Ed invero, mette conto di sottolineare a riguardo che la Corte territoriale, in definitiva, ha ritenuto sussistente nella specie il concorso di colpe tra le parti, ripartendo al 50% l’incidenza causale delle condotte tenute dal medico e dal paziente. Ne deriva che non è esatto affermare che la Corte avrebbe dapprima negato e quindi contraddittoriamente affermato la responsabilità del B., dovendosi invece intendere che, ad avviso dei giudici di seconde cure, non era stata raggiunta la prova che, durante il periodo di terapia condotta dal B., l’evoluzione della malattia avesse già raggiunto uno stadio di irreversibilità. E ciò, in quanto la successiva inerzia del paziente aveva concorso in maniera paritaria all’irreversibile degenerazione della patologia.

Passando all’esame della terza censura per violazione e falsa applicazione di norme di diritto, artt. 1227, 1176 e 2236 c.c., va rilevato che, ad avviso del ricorrente, la Corte di merito avrebbe confuso i diversi concetti di causalità materiale e giuridica, richiamati rispettivamente dal primo e dall’art. 1227 c.c., comma 2 invocando erroneamente il disposto del comma 1 inerente al rapporto tra condotta inadempitiva ed evento – inadempimento contrattuale, in luogo del comma 2. riguardante invece le conseguenze lesive dell’inadempimento. L’errore della Corte territoriale – così continua il ricorrente – sarebbe di non poco rilievo agli effetti pratici in quanto mentre l’ipotesi del concorso di colpa del danneggiato, di cui al comma 1, deve essere verificata dal giudice anche d’ufficio, la cd. esimente di responsabilità va esaminata solo su istanza del debitore-danneggiante, nella specie mai formulata.

Anche tale censura non merita accoglimento. Come ha già avuto modo di affermare la più recente giurisprudenza, la regola di cui all’art. 1227 c.c., comma 1, non va ritenuta espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile. Pertanto la colpa, cui fa riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato. (Cass. n. 1002/2013 in motivazione, conforme a Cass. n. 17152/02). In definitiva, si deve quindi affermare conclusivamente che, mentre l’art. 1227, comma 2 si riferisce all’ipotesi di danno eziologicamente imputabile al solo danneggiante, tale però da poter essere evitato o attenuato dal diligente intervento del danneggiato, il comma 1 della norma prevede invece l’ipotesi della cooperazione attiva del danneggiato nella produzione del danno, che risulta pertanto ascrivibile non solo al debitore ma anche allo stesso creditore.

Ciò premesso, deve ritenersi che la Corte di merito abbia applicato correttamente il disposto di cui all’art. 1227 c.c., avendo ravvisato nella produzione del danno il contributo causale concorrente, in pari misura, di entrambe le parti in lite, vale a dire del dr. B. per la sua parte e del M. per la sua, per cui la censura in esame non merita accoglimento.

Quanto alla quarta doglianza, va osservato che con tal motivo d:

impugnazione il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 1226 c.c., lamentando che la Corte territoriale avrebbe errato quando ha statuito che non sarebbe stata fornita, da parte del danneggiato, la prova della diminuzione del proprio reddito in conseguenza delle lesioni subite. Ed invero nel caso di specie, a parte il mancato ricorso ad una consulenza di ufficio che avrebbero dovuto ammettere al fine della determinazione del quantum, i giudici di seconde cure avrebbero dovuto rilevare che la prova emergeva dai documenti depositati in appello (CUD del 1998 fino al 2004, contratti collettivi di lavoro) senza negare inoltre, come invece hanno fatto, la connessione tra il decreto di dispensa dal servizio e l’evento dannoso provocato dalla colpa medica sulla base del lasso di tempo intercorso tra i due episodi.

La censura è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, per difetto di specificità, perchè il ricorrente ha solo formulato apodittiche asserzioni di pretese violazioni e/o false applicazioni di legge senza indicare in alcun modo le ragioni per cui la Corte territoriale avrebbe commesso tali violazioni. In secondo luogo, perchè la censura consiste essenzialmente in rilievi di merito. Ed invero, il ricorrente, pur lamentando formalmente pretese violazioni e false applicazioni di legge, nella sostanza delle cose, avanza una inammissibile richiesta di rivalutazione delle risultanze probatorie esaminate. Infatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo del vizio di legittimità dedotto, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze processuali così come accertate e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento.

Analoghe considerazioni vanno svolte relativamente al successivo motivo di impugnazione con cui il ricorrente ha lamentato che la Corte d’Appello, nel disattendere tutti gli esiti probatori cui si era approdati nel corso del giudizio, non ha addotto ragioni sufficienti a spiegare tale sua analisi, con ciò incorrendo nel vizio di cui all’art. 360, comma, n. 1 e n. 5. Ed infatti – così continua il ricorrente – malgrado l’abbondanza di prove raccolte sia in primo che in secondo grado, tutte inconfutabilmente volte ad attestare la facile diagnosi della malattia, la Corte di merito ha ritenuto di giungere a conclusioni opposte richiamando come unica fonte e/o giustificazione del suo convincimento il sito web Italiasalute.it.

Ed invero, anche con riferimento a tale doglianza, è di ovvia evidenza il fatto che il ricorrente, pur deducendo formalmente, un vizio di motivazione, tende in realtà ad una revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, in maniera conforme alla propria interpretazione delle risultanze probatorie e difforme da quella dei giudici di appello. Ma la valutazione degli elementi di prova e l’apprezzamento dei fatti – ripetesi – attengono al libero convincimento del giudice di merito nè può trovare ingresso nel giudizio di legittimità una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione.

Passando alle ultime due ragioni di doglianza, va osservato che con il sesto motivo il ricorrente ha lamentato che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di contraddittoria o insufficiente motivazione circa un punto controverso e decisivo per il giudizio nella parte in cui, al fine di individuare il momento di cessazione del rapporto medico-paziente, disattende le risultanze derivanti dalla fattura spedita a fine luglio dal professionista, per terapia completa, richiamando invece una prescrizione-ricetta del marzo precedente, senza nulla aggiungere; con l’ultimo motivo ha infine lamentato che i giudici di seconde cure avrebbero completamente omesso di motivare in ordine al comportamento processuale e stragiudiziale del B. benchè quest’ultimo si fosse reso autore di una condotta scorretta e sleale nel negare, almeno inizialmente, di aver mai curato il M. per problemi oculistici.

Entrambe le doglianze sono infondate. Quanto alla prima di esse, mette conto di osservare che la Corte ha ampiamente spiegato le ragioni del suo convincimento riguardo al momento di cessazione del rapporto professionale tra il medico ed il M., facendo leva innanzitutto sulle dichiarazioni rese dallo stesso paziente al perito medico incaricato dal Tribunale quando il M. riferiva che il rapporto si era interrotto nella primavera del (OMISSIS), quindi fondandosi sulla data dell’ultima ricetta del B., risalente al (OMISSIS) e contenente prescrizioni per la durata di due mesi o poco più, data coincidente con quella indicata dal M. al ctu del Tribunale. E ciò, senza considerare che, così come ha osservato la Corte di merito, il fatto che la fattura della prestazione del B. recasse la data del (OMISSIS) non significa affatto che il rapporto professionale fosse ancora in corso a tale data in quanto l’emissione delle fatture avviene normalmente dopo il compimento della prestazione.

Quanto alla seconda, vale la pena di evidenziare che il vizio di omessa motivazione assume rilievo solo nel caso in cui involga un profilo assolutamente determinante della controversia, tale da comportare con assoluta certezza, ove riconosciuto, una decisione completamente diversa da quella adottata. Nella specie, non è dato comprendere come una più approfondita considerazione della condotta processuale del B., peraltro tenuta solo inizialmente, avrebbe potuto orientare la decisione impugnata in senso più favorevole al ricorrente, così da presentare il carattere di decisività richiesto dalla norma.

Alla stregua di tutte le pregresse considerazioni ne consegue che il ricorso principale in esame, siccome infondato, deve essere rigettato.

Passando infine all’esame del ricorso incidentale, deve premettersi che il primo motivo di impugnazione, articolato sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c., comma 2 nonchè della motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, si fonda sulla considerazione che la sentenza impugnata sarebbe censurabile nella parte in cui ha ravvisato la responsabilità del B. prescindendo dalle specifiche caratteristiche dell’attività professionale espletata, quella di medico generico dedito alla medicina omeopatica, ed addebitando al B. la mancata prescrizione di indagini diagnostiche specialistiche, senza considerare che l’omeopatia persegue metodi diagnostici e terapeutici incompatibili con la prescrizione di accertamenti relativi ad uno specifico ed isolato organo del corpo umano.

La doglianza è infondata. L’omeopatia, come è noto, costituisce un sistema di medicina alternativa che, in quanto tale, mira pur sempre alla guarigione dei pazienti. Ora, se è vero che uno dei principi fondamentali dell’omeopatia è costituito dal fatto che diagnosi e terapia devono riguardare l’intero corpo, ciò non significa naturalmente che l’omeopata debba evitare gli accertamenti diagnostici specialistici riguardanti il singolo organo, affetto dalla patologia, ma vuoi dire soltanto che egli non potrebbe fermarsi alle indagini specifiche riguardanti il singolo organo, dovendo invece estendere le indagini all’intero corpo del paziente, al fine di avere una visione più approfondita della patologia onde poter individuare la terapia più efficace. Ne deriva l’infondatezza della doglianza.

Quanto al secondo motivo di impugnazione per insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, la censura deve essere ritenuta inammissibile. Ed invero, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, applicabile alle sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006, ove sia stato denunciato il vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360 c.p.c. n. 5, la censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008) .

Ciò premesso, considerato che nel caso di specie la doglianza non è accompagnata dal momento di sintesi, ritenuto che la norma di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. non può essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. n. 23153/07, ord. n. 4646/08 e n. 21979/08), deve ritenersi l’inammissibilità della doglianza in esame.

Il ricorso incidentale deve essere pertanto rigettato.

Il tenore dell’adottata decisione, che vede il rigetto di entrambi i ricorsi, giustifica la compensazione delle spese tra le parti costituite.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa tra le parti costituite le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 aprile 2011

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