Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7554 del 23/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 23/03/2017, (ud. 09/02/2017, dep.23/03/2017),  n. 7554

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1024-2013 proposto da:

S.E., (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLA GIULIANA 44, presso lo studio dell’avvocato LUIGI ANTONANGELI,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROGETTO ABITARE DI E.A. SAS, P.I. (OMISSIS) IN PERSONA

DEL SUO LEGALE RAPP.TE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO VITOLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO FELACO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1096/2011 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 21/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2017 dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

udito l’Avvocato Antonangeli Luigi difensore della ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’avv. Felaco Francesco difensore della controricorrente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1 Con atto 26.4.2004 S.E., promissaria acquirente di un immobile da realizzare, convenne davanti al Tribunale di Pescara la promittente venditrice Progetto Abitare sas chiedendo che fosse dichiarata la legittimità del proprio recesso dal preliminare di vendita del (OMISSIS) e il trattenimento del doppio della caparra confirmatoria in precedenza versata, essendosi la società convenuta sottratta all’obbligo di ultimare i lavori e di concludere il contratto definitivo nel termine essenziale del 31.10.2003 fissato dalle parti.

La convenuta contestò la pretesa e in via riconvenzionale propose domanda di risoluzione del contratto e risarcimento danni per inadempimento della promissaria acquirente, chiedendo altresì di essere autorizzata alla ritenzione della caparra.

Il Tribunale accolse la domanda dell’attrice, ma la Corte d’Appello di L’Aquila, adita dalla soccombente società, con sentenza depositata il 21.11.2011 ribaltò l’esito del giudizio, accertando, in parziale riforma della sentenza di primo grado, l’illegittimità del recesso operato dalla promissaria acquirente e, per l’effetto, autorizzò la società appellante a trattenere i 200,000 Euro di caparra.

Per giungere a tale soluzione la Corte di merito ha rilevato, per quanto ancora interessa in questa sede:

– che il termine per l’adempimento del contratto non poteva essere ritenuto essenziale, nonostante le parti avessero contrattualmente stabilito che tutti i termini previsti dal contratto fossero da considerare perentori;

– che in ogni caso il ritardo non superava il ragionevole limite di tolleranza, mentre il comportamento della promissaria acquirente era in ogni caso sintomatico di una rinunzia implicita, avendo essa richiesto, fino a pochi giorni prima la proposizione della domanda, una serie di modifiche e migliorie alle unità immobiliari promesse in vendita;

– che appariva illegittimo il recesso della S. senza neppure la previa comunicazione del nome del notaio incaricato della stipula secondo la previsione dell’art. 7 del contratto preliminare;

– che pertanto si giustificava il rigetto della domanda dell’attrice, mentre andava affermato il diritto della società di incamerare definitivamente la caparra.

Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la S., sulla base di tre motivi a cui resiste con controricorso la società Progetto Abitare.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1 Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione perchè, contrariamente a quanto sostenuto dalla società controricorrente, al momento della notifica dello stesso avvenuta il 28.12.2012 (considerando la data della consegna del plico all’ufficio postale risultante da apposito timbro), il termine lungo di un anno e 46 giorni fissato dall’art. 327 c.p.c. (applicabile ratione temporis) non era ancora decorso, essendo il deposito della sentenza avvenuto il 21.11.2011. L’errore in cui mostra di incorrere la società controricorrente è duplice e consiste non solo nel far decorrere (per i fini che qui interesano) la notifica dell’impugnazione dalla data di ricezione piuttosto che da quella di avvio del procedimento notificatorio, ma anche -e soprattutto – nel ritenere applicabile alla fattispecie, ai fini del calcolo della tempestività dell’impugnazione, il termine lungo di “sei mesi” introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17 in base ad una non corretta lettura della norma transitoria (predetta L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1), perchè quando il legislatore del 2009 afferma che le disposizioni modificative del codice di procedura civile si applicano “ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore” è evidente che intende riferirsi alla data di proposizione della domanda introduttiva del giudizio, cioè alla data di notifica dell’atto di citazione (nel nostro caso 26.4.2004) e non certo a quella di proposizione dell’impugnazione, come erroneamente si assume nel controricorso (v. Sez. 2, Sentenza n. 6784 del 04/05/2012 Rv. 622149 – 01; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 14267 del 08/07/2015 Rv. 635879 – 01 non massimata; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 25792 del 2011 non massimata).

2.1 Ciò chiarito, e passando all’esame dei motivi di ricorso, con il primo di essi la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1385 e 1453 c.c. nonchè artt. 183, 345 e 112 c.p.c., rimproverando alla Corte d’Appello di avere omesso di pronunciarsi sull’eccezione, ritualmente riproposta in appello, di inammissibilità della domanda nuova di recesso e ritenzione della caparra avanzata dalla società in corso di causa, posto che in via riconvenzionale era stata domandata invece la risoluzione per inadempimento e il risarcimento dei danni. Ad avviso della ricorrente, anche qualora si volesse ravvisare un rigetto implicito dell’eccezione, sussisterebbe pur sempre la violazione di legge, sussistendo incompatibilità tra le due azioni e dunque novità della domanda.

2.2 Con il secondo motivo la S., lamentando violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e ss.) critica la decisione impugnata per avere escluso la natura essenziale del termine del 31.10.2003 fissato dalle parti per la stipula del definitivo e per avere erroneamente ravvisato, nel suo comportamento, una rinunzia al termine.

2.3 Con il terzo ed ultimo motivo si deduce omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio (le dichiarazioni di un teste che portavano ad escludere l’ipotesi di rinunzia al termine e le ragioni della mancata indicazione, a cura della promissaria acquirente, del nome del notaio incaricato della stipula).

3. Il primo motivo è fondato.

Dalla consultazione degli atti del processo – che la natura del vizio dedotto consente di compiere – risulta che con la comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado la società convenuta aveva proposto una domanda riconvenzionale di risoluzione e risarcimento danni. Risulta altresì che a tale richiesta risolutoria ne era stata affiancata altra, tendente al trattenimento della caparra ai sensi dell’art. 1385 c.c..

Nel giudizio di appello, la società aveva invece avanzato una domanda di recesso con trattenimento di caparra (v. atto di appello) e la S. ne aveva eccepito la novità (v. comparsa di costituzione in appello).

Ebbene, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in caso di pattuizione di caparra confirmatoria, ai sensi dell’art. 1385 c.c., la parte adempiente, per il risarcimento dei danni derivati dalli inadempimento della controparte, può scegliere tra due rimedi, alternativi e non cumulabili tra loro: o recedere dal contratto e trattenere la caparra ricevuta (o esigere il doppio di essa), avvalendosi della funzione tipica dell’istituto, che è quella di liquidare i danni preventivamente e convenzionalmente, così determinando l’estinzione ope legis di tutti gli effetti giuridici del contratto e dell’inadempimento ad esso; ovvero chiedere, con pronuncia costitutiva, la risoluzione giudiziale del contratto, ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c. ed il risarcimento dei conseguenti danni, da provare a norma dell’art. 1223 c.c. (v. Sez. 3, Sentenza n. 18850 del 20/09/2004 Rv. 577186 – 01).

Quanto alla ammissibilità in appello di una domanda di recesso, qualora in primo grado si sia agito per la risoluzione e i danni, le sezioni unite, nel dirimere un contrasto di giurisprudenza, hanno affermato il principio secondo cui, in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative. (tra le varie, v. Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009 Rv. 606608 – 01; v. anche più di recente, Sez. 2, Sentenza n. 4164 del 02/03/2015 Rv. 634463 – 01)).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello di Ancona avrebbe dovuto innanzitutto interpretare il contenuto della domanda riconvenzionale verificando esattamente il tipo di azione che la società convenuta aveva inteso proporre (alla luce del citato principio della alternatività e non cumulabilità tra i due rimedi) e, qualora avesse ritenuto proposta in primo grado una domanda di risoluzione e danni, avrebbe allora dovuto porsi il problema della ammissibilità della domanda di recesso in appello, dando in ogni caso, adeguata risposta, ma ciò non è accaduto perchè i giudici del gravame, investiti formalmente della specifica eccezione (e lo attesta la comparsa di costituzione in appello della S.), hanno sorvolando completamente sulla questione, concentrandosi direttamente sul tema della essenzialità del termine finale di conclusione del contratto definitivo e sulla individuazione della parte inadempiente nonchè su un altro profilo di inammissibilità del gravame che qui non rileva (proposizione in appello, da parte della società, di una domanda risarcitoria per inadempimento fondata su un titolo giuridico diverso – contratto di appalto – rispetto a quello dedotto in primo grado).

Il vizio di omessa pronuncia sull’eccezione di novità della domanda di recesso è palese e dunque, sussistendo la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio al giudice a quo che riesaminerà la vicenda attenendosi ai principi esposti.

4 Va invece respinto il secondo motivo.

Secondo un principio di diritto costantemente ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte, quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome “rationes decidendi” ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite “rationes”, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (tra le varie, v. Sez. 3, Sentenza n. 12372 del 24/05/2006 Rv. 590852 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012 Rv. 621882 – 01).

Nel caso in esame, la prima ed autonoma ratio è quella fondata sulla natura non essenziale del termine fissato per la stipula del definitivo (nonostante il richiamo alla perentorietà contenuto nel contratto) e al riguardo la Corte d’Appello ha dato una motivazione del tutto coerente laddove ha evidenziato che dal preliminare non emergeva alcuna specifica clausola indicativa della volontà dell’una o dell’altra parte a ritenere perduta l’utilità economica del contratto allo spirare del termine del 31.10.2003, anzi la possibilità – contrattualmente prevista – di apportare modifiche al progetto ancorchè comportante la necessità di varianti alla concessione edilizia comportava, secondo l’apprezzamento della Corte di merito, un chiaro sintomo della non essenzialità, essendo evidente in tal caso lo slittamento dei tempi di ultimazione delle opere.

L’infondatezza della censura su tale ratio, del tutto corretta sia sotto il profilo giuridico (v. Sez. 2, Sentenza n. 21587 del 15/10/2007 Rv. 60005901 circa l’ininfluenza delle mere clausole di stile circa la natura del termine e la necessità di indagare la volontà delle parti) che sotto quello logico interpretativo, rende pertanto priva di interesse la censura sulla seconda altra ratio utilizzata dalla Corte d’Appello (quella della rinunzia implicita al termine qualora lo si volesse intendere come essenziale).

5 Il terzo ed ultimo motivo, ove richiama il contenuto delle deposizioni dei testi sulla questione delle opere aggiuntive, si risolve ancora una volta in una censura alla seconda ratio (quella della rinunzia implicita al termine, in relazione alla quale si è rilevata la carenza di interesse) e dunque segue inevitabilmente la sorte del precedente; per il resto, laddove giustifica l’omessa comunicazione del nome del notaio prescelto per la stipula, si risolve in una alternativa ricostruzione di circostanze di fatto, e quindi non coglie nel segno, perchè il giudizio di legittimità non consente tale tipo di attività difensiva.

In conclusione, accolto solo il primo motivo, la sentenza va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di L’Aquila che provvederà, all’esito, alla regolamentazione anche delle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

la Corte accoglie il primo motivo e rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di L’Aquila in diversa composizione soggettiva.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2017

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