Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7537 del 27/03/2018

Cassazione civile, sez. III, 27/03/2018, (ud. 29/01/2018, dep.27/03/2018),  n. 7537

Fatto

 

Il Tribunale di Salerno con sentenza 22.1.2008 riconosceva la responsabilità contrattuale del medico Mu.Lu. per lesione alla integrità psicofisica cagionata a M.P. nel corso dell’intervento chirurgico di appendicectomia, avendo il medico – di propria iniziativa – asportato una cisti sebacea inguinale, senza eseguire correttamente l’operazione dalla quale erano derivati esiti invalidanti permanenti incidenti sulla sfera dei rapporti di relazione e della vita sessuale, e condannava il convenuto, in solido alla Casa di cura (OMISSIS) s.p.a., al risarcimento dei danni, dichiarando tenuta Assitalia Le Assicurazioni d’Italia s.p.a. a tenere indenni i convenuti assicurati per la responsabilità civile professionale.

Su appello della M. che lamentava la inadeguata liquidazione risarcitoria non essendo stato risarcito autonomamente il danno da omessa acquisizione del consenso informato relativamente all’intervento di asportazione della cisti, la Corte d’appello di Salerno, con sentenza 27.8.2014 n. 463, rigettava il gravame rilevando che: a) la danneggiata nell’atto di citazione non aveva richiesto il risarcimento di danni diversi da quelli arrecati alla salute, essendo quindi inammissibile la domanda nuova di risarcimento da lesione della libertà di autodeterminazione, non avendo neppure allegato che, qualora fosse stata correttamente informata, avrebbe rifiutato tale intervento o prestato assenso ad un intervento diverso; b) alcuna contestazione era stata mossa alle indagini svolte dal collegio peritale nominato ufficio in primo grado che aveva riconosciuto una invalidità permanente parti al 4%, del tutto coerente con il grado del 5% indicato nella relazione del perito di parte, nè la danneggiata, con l’atto di appello, aveva allegato errori o lacune nelle indagini dei CC.TT.UU., od aggravamenti sopravvenuti dei postumi invalidanti; c) nessuna richiesta di risarcimento del danno psichico (attacchi di ansia e di panico) era stata formulata in primo grado, che comunque non trovava alcun riscontro nella documentazione clinica; d) la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal Tribunale con riferimento a ciascuna distinta voce di danno biologico, morale soggettivo ed esistenziale, alla stregua delle Tabelle del Tribunale di Milano 2007, portava ad importi notevolmente superiori di quelli riconoscibili in applicazione dei principi di diritto enunciati dalla sentenza n. 26972/2008 delle SS.UU. della Corte di cassazione, e ripresi nelle Tabelle del Tribunale di Milano 2013 che richiedevano di procedere a liquidazione unitaria di tale tipo di danno evitando duplicazioni, e dunque si palesava infondata il gravame sulla misura – asseritamente ridotta – del risarcimento liquidato dal primo giudice.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione con due motivi dalla M., con atti notificati a mezzo posta in data 31.3.2015 a Mu.Lu., presso di difensori in primo grado, ad Assitalia s.p.a. presso il procuratore domiciliatario.

Gli intimati non hanno svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va rilevato che dalle cartoline AR depositate in Cancelleria dal difensore della M. alla data della odierna adunanza, risulta: a) che la notifica a mezzo posta eseguita all’intimato Mu. è affetta da nullità, essendo stata tale parte contumace nel giudizio di appello e dunque essendo invalida, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., u.c., la notifica ai procuratori costituiti in primo grado; b) che non si è perfezionata la notifica a Casa di cura (OMISSIS) s.p.a., presso il difensore domiciliatario, in quanto la cartolina AR non risulta compilata in alcuna sua parte.

Tuttavia ritiene il Collegio di non dovere dare corso alla integrazione del contraddittorio disponendo il rinnovo delle notifiche del ricorso per cassazione, dovendo confermarsi l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o di una manifesta infondatezza dello stesso, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio (cfr. Corte cass. Sez. U, Ordinanza n. 6826 del 22/03/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 690 del 18/01/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 15106 del 17/06/2013).

Con il primo motivo la ricorrente impugna la sentenza nella parte in cui ha ritenuto irrilevante la mancanza di consenso informato incorrendo nel vizio di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione” e nel vizio di violazione degli artt. 3 (recte 2), 12 (recte 13) e 32 Cost..

Il motivo, quanto all’ipotizzato vizio di “error facti” è inammissibile, in quanto individua un parametro del sindacato di legittimità non previsto dalla attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, norma applicabile “ratione temporis”, nè assolve ai requisiti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, difettando nella esposizione qualsiasi riferimento a “fatti storici decisivi” la cui valutazione è stata omessa dal Giudice di merito; quanto al dedotto vizio di “error juris” il motivo è del pari inammissibile non cogliendo la “ratio decidendi” della sentenza impugnata.

Diversamente da quanto opinato dalla difesa della ricorrente – che nella esposizione del motivo individua il fondamento della decisione in una proposizione estrapolata dal contesto motivazionale e dalle compiute ragioni in diritto espresse nella sentenza di appello – la Corte distrettuale ha dichiarato inammissibile, per novità, il motivo di gravame con il quale la M. aveva lamentato il mancato risarcimento del danno derivante dalla omessa acquisizione da parte del medico del “consenso informato” in ordine alla asportazione della cisti sebacea, in quanto nell’atto di citazione introduttivo l’attrice aveva “chiesto di essere risarcita per i danni alla salute psicofisica conseguenti all’essere stata operata senza alcuna informazione circa l’intervento di asportazione della cisti” (sentenza appello, in motiv. pag. 7), sicchè non poteva, per la prima volta in grado di appello, mutare domanda ed invocare il risarcimento di una voce di danno diversa – e cioè nel pregiudizio derivante dalla lesione della propria libertà negoziale di autodeterminazione nell’assenso al trattamento terapeutico – rispetto al danno alla salute derivante dalla lesione del diritto alla integrità psicofisica.

La Corte territoriale ha – infatti – argomentato, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale del Giudice di legittimità, che la mera allegazione del mancato consenso non qualifica “ex se” il danno-conseguenza derivato dalla violazione della libertà negoziale, in quanto nella specie occorreva allegare e dimostrare che la carenza informativa (ossia la violazione del diritto alla autodeterminazione) fosse stata “causa” del danno – conseguenza alla integrità psicofisica (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847 del 09/02/2010), ed ha inoltre osservato come l’onere probatorio gravante sul paziente, volto a dimostrare che – se preventivamente informato- non avrebbe prestato il consenso all’atto terapeutico ovvero avrebbe scelto un diverso trattamento sanitario, non veniva in rilevo nel caso di specie, in quanto il danno alla salute non era residuato per complicanze (pur prevedibili) derivate dalla esecuzione di un intervento chirurgico “corretto e necessario”, ma era conseguenza dell’errore professionale ascrivibile ad imperizia (mancata escissione radicale della formazione cistica) sicchè “in ogni caso” risultava già accertato il nesso di causalità tra condotta medica e danno alla salute, non assumendo, pertanto, autonoma rilevanza ai fini risarcitori, la “concausa” costituita dalla omissione informativa.

Pertanto non viene in discussione, nel caso di specie, l’affermazione ormai pienamente condivisa dalla dottrina e dalla giurisprudenza- della autonoma risarcibilità dei danni derivati dalla violazione del diritto alla autodeterminazione, ma viene in rilevo la esatta individuazione della domanda risarcitoria – avuto riguardo al “petitum” ed alla “causa petendi” – formulata nell’atto introduttivo e che il Giudice di seconde cure ha qualificato come richiesta avente ad oggetto il risarcimento del “danno alla salute” e non anche di ulteriori voci di danno conseguenti alla violazione della libertà negoziale.

Tale “ratio decidendi”, fondata sulla qualificazione della pretesa risarcitoria come riferita esclusivamente al danno-conseguenza, consistito nei “postumi invalidanti” (danno alla salute) residuati dalla inesatta esecuzione della prestazione professionale medica, non è stata investita dal motivo di ricorso, non avendo la ricorrente in alcun modo criticato la errata rilevazione da parte della Corte d’appello del contenuto dell’atto introduttivo, e non avendo neppure genericamente dedotto di avere allegato nell’atto di citazione di ulteriori danni-conseguenza (“diversi” da quello alla salute: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11950 del 16/05/2013) derivati dalla violazione del diritto ad esercitare una scelta consapevole, con la conseguenza che deve ritenersi ormai intangibile la pronuncia della Corte d’appello di inammissibilità del motivo di gravame con il quale era stata formulata per la prima volta la domanda (nuova) volta ad ottenere il risarcimento di altre voci di danno distinte dal danno alla salute.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce contestualmente il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ed il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 2056 e 2059 c.c., sostenendo che la Corte d’appello era incorsa in errore nella parte in cui aveva ritenuto infondato il motivo di gravame volto ad ottenere una maggiore liquidazione del danno sul presupposto che non spettasse comunque la risarcibilità del “danno esistenziale”, atteso che anche tale tipo di danno avrebbe dovuto essere invece autonomamente considerato.

Il motivo è palesemente inammissibile per carenza di interesse, ed inoltre non assolve ai requisiti minimi di ammissibilità ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6.

Ed infatti, come emerge dalla sentenza di appello (in motiv. pag. 12), il Tribunale di Salerno aveva liquidato anche la voce di “danno esistenziale” (ravvisato nella incidenza negativa dei postumi sulla vita sessuale) nella misura di dieci volte l’ammontare del danno biologico: il Giudice di appello si è limitato a prendere atto della indicata liquidazione, pur se ritenuta non conforme ai principi di diritto enunciati dal precedente di questa Corte Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008 -secondo cui “Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c. “-rilevando, da un lato, che alla stregua dei criteri tabellari vigenti (Tabelle del Tribunale di Milano 2013, redatte in applicazione dell’arresto delle SS.UU. n. 26972-26974/2008), la danneggiata avrebbe avuto diritto ad un importo risarcitorio notevolmente minore a quello riconosciutogli dalla decisione di prime cure; dall’altro che in assenza di impugnazione sul punto da parte dei soccombenti in primo grado non le era consentito procedere ad una “reformatio in pejus” in danno della parte vittoriosa.

Vale osservare inoltre che la statuizione della Corte d’appello secondo cui il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici, è immune da errori di diritto e – diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente – trova conferma anche nel precedente di questa Corte Sez. 3, Sentenza n. 23147 del 11/10/2013 citato nel ricorso, avendo in quel caso la Corte ribadito che il “danno esistenziale” “non esiste come autonoma categoria di danno ma…costituisce sintagma ampiamente invalso nella prassi giudiziaria” e che la incidenza negativa della lesione della salute sulle relazioni sessuali, così come qualsiasi altra incidenza negativa sulla vita di relazione, integra una “deminutio” della sfera di realizzazione della persona umana, e come tale deve essere specificamente considerata ai fini della piena reintegrazione del danno.

La sentenza di appello impugnata è in linea con gli enunciati della giurisprudenza di legittimità, atteso che non ha affatto escluso dal ristoro del danno alla salute le conseguenze pregiudizievoli alla vita sessuale, ma si è limitata ad osservare che con le nuove Tabelle di liquidazione del danno biologico, elaborate in seguito all’arresto delle SSUU del 2008, la nozione di danno esistenziale non trovava più giustificazione.

Ne segue che la doglianza per omessa liquidazione dei danni alla vita sessuale risulta del tutto inconferente rispetto al “decisum”, tenuto conto che tali danni sono stati considerati e liquidati dalla decisione di prime cure con statuizione non riformata in grado di appello. Laddove poi la censura fosse rivolta a lamentare la mancata liquidazione di un “maggiore importo” da risarcire a tale titolo, è appena il caso di evidenziare come, in difetto di qualsiasi specifica contestazione di errore in diritto, nonchè in mancanza di indicazione di elementi circostanziali – da ritenere decisivi – non considerati dalla Corte distrettuale, il motivo si risolve in una mera inammissibile richiesta di revisione della valutazione di congruità del ristoro del danno per equivalente, riservata esclusivamente al Giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile, non occorrendo provvedere in ordine alle spese di lite in assenza di difese svolte dagli intimati.

PQM

 

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della parte ricorrente riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, il 29 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2018

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