Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7528 del 28/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 29/03/2010, (ud. 23/02/2010, dep. 29/03/2010), n.7528

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – rel. Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25757/2006 proposto da:

D.G.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANTONIO VIVALDI 15, presso lo studio dell’avvocato FURLANETTO

MARIADOLORES, rappresentata e difesa dall’avvocato PARETE Antonio,

giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M., P.A., PE.MA., P.P.,

P.L., i primi due anche quali coamministratori e legali

rappresentanti della s.n.c. CONFETTI PELINO di Alfonso ed Olindo

Pelino, e tutti quali soci della stessa, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato

MANZI Luigi, che li rappresenta e difende, giusta mandato a margine

del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 130/2005 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 15/09/2005 r.g.n. 759/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

23/02/2010 dal Consigliere Dott. GUIDO VIDIRI;

udito l’Avvocato PARETE ANTONIO;

udito l’Avvocato SALVATORE DI MATTIA per delega MANZI LUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con due sentenze il Tribunale di Sulmona condannava P.M. e Ma., nella qualità di eredi di Alfonso Pelino ed Olindo Pelino, appresentanti legali della s.n.c. Confetti Pelino di Alfonso e Olindo Pelino s.n.c. a corrispondere la somma di Euro 26.616,48 per differenze retributive e t.f.r. in favore di D.G.A. per il rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal 3 agosto 1994 al luglio 1997, nella qualità di operaia prima e di impiegata poi, nonchè con la seconda sentenza i suddetti convenuti P.M. e Ma. al pagamento della somma di Euro 42.836,23 per il rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal 1 aprile 1989 al 1 agosto 1994, con mansioni prima di operaia e poi di impiegata, Contro tale sentenza proponevano appello P.M., A., Ma., P. e L., i primi due anche quali coamministratori e legali rappresentanti della s.n.c. Confetti Pelino di Alfonso e Olindo Pelino, e tutti quali soci della stessa, che deducevano tra l’altro la nullità delle sentenze per difetto di notifica del ricorso in riassunzione, a seguito della interruzione dei giudizi di primo grado per la morte di P.A., non potendosi considerare validamente eseguita la notifica agli eredi di quest’ultima nè sufficiente quella ad P.O..

Dopo la costituzione del contraddittorio con la D.G., la Corte d’appello di L’Aquila con sentenza del 3 febbraio 2005, in parziale accoglimento dell’appello, condannava i “convenuti” (parola poi quest’ultima corretta con provvedimento del 20 aprile 2006 in “appellanti” ai sensi dell’art. 287 c.p.c.) al pagamento della complessiva somma di Euro 52.728,95, oltre accessori dalla maturazione dei singoli crediti al saldo e compensava le spese.

Nel pervenire a tale conclusione la Corte territoriale ha osservato per quanto interessa ancora in questa sede di legittimità – che nel caso di specie non avendo il datore di lavoro applicato alcuno dei contratti collettivi di diritto comune, per quantificare le giusta retribuzione spettante alla D.G. doveva farsi riferimento ai contratti concernenti il settore economico (o quello similare) cui era riconducibile il rapporto di lavoro oggetto della controversia.

Al riguardo il giudice d’appello ha precisato che il richiamo alla contrattazione collettiva non deve necessariamente configurare il solo criterio applicabile, potendo il giudice valutare anche altri elementi relativi alla concreta prestazione svolta, ed ha infine rimarcato che il consulente tecnico d’ufficio aveva quantificato, come gli era stato chiesto, le pretese della lavoratrice anche sulla base di un raffronto con le retribuzioni percepite dagli altri dipendenti con la stessa qualifica della D.G., e che tale raffronto aveva attestato solo un piccolo scostamento rispetto a quanto risultava dovuto con l’applicazione dei parametri contrattuali mentre si riscontrava un trattamento riservato dalla azienda alla D. G. di un certo divario rispetto a quello delle altre sue colleghe.

Avverso tale sentenza D.G.A. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. Resistono con controricorso P.M. e gli altri litisconsorti in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso D.G.A. deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 36 Cost. e art. 2099 c.c.) nonchè contraddittorietà di motivazione lamentando che il giudice d’appello non ha ritenuto applicabile al rapporto di lavoro in esame il contratto di categoria del personale dipendente da aziende di panificazione ed attività collaterali e complementari (decorrente dal 1 luglio 1987) per il periodo dall’anno 1989 al luglio 1993 e, successivamente, il contratto alimentare-artigiano fino al luglio 1997 nonostante nella motivazione della sua decisione avesse ritenuto adeguati detti contratti per la regolamentazione del rapporto, oggetto della controversia.

Aggiunge ancora la ricorrente che era certa la possibilità, in caso di mancata applicazione di un contratto collettivo, di determinare la retribuzione mediante la valutazione di altri criteri. In ogni caso, non era consentito procedere alla determinazione del trattamento retributivo in maniera apodittica, così come aveva fatto il giudice d’appello. In concreto la puntuale applicazione del contratto del settore alimentare e della panificazione dal luglio 1993 avrebbe comportato l’attribuzione alla D.G. del quinto livello dopo un periodo di 12 mesi di inquadramento nel sesto livello, così come previsto dall’art. 22 del contratto, oltre al diritto alle ferie retribuite se non godute ex art. 29, nonchè la corresponsione dei minimi contrattuali ex art. 31 ed ancora il t.f.r. ex art. 53.

Con il secondo motivo la D.G. lamenta poi vizio di motivazione in relazione agli artt. 132 e 111 Cost., per avere affermato che vi era unicamente un piccolo “scostamento” tra il trattamento economico di essa ricorrente e quello assicurato alle altre dipendenti della stessa azienda, senza però fornire alcuna ragione di detto scostamento, e senza precisare se per le sue colleghe dipendenti ricorressero contrattazione singolari e se queste ultime avessero espresso doglianze per il livello retributivo al giudice del lavoro (secondo motivo).

Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione di legge (art. 112 c.p.c.), vizio di motivazione e nullità della decisione, evidenziando al riguardo che il giudice d’appello ha scrutinato le osservazioni che sono state mosse all’elaborato peritale del consulente d’ufficio in palese violazione tra domanda e pronunzia (terzo motivo).

2. I motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

2.1. Questa Corte di cassazione ha statuito che nel caso in cui il lavoratore reclami il trattamento retributivo previsto da un determinato contratto collettivo e, in via subordinata, una retribuzione adeguata ai criteri stabiliti dall’art. 36 Cost., il giudice che escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato – di cui la controparte ha contestato l’applicabilità – può tuttavia desumere dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice (cfr. in tali sensi: Cass. 10 giugno 2005 n. 12271).

2.2. Ed i giudici di legittimità hanno inoltre più volte ribadito:

che, in virtù del principio espresso dall’art. 2099 c.c., comma 2, non solo in mancanza di contratti collettivi che determinino la retribuzione e i relativi compensi aggiuntivi del lavoratore – ma anche in mancanza di accordo tra le parti sulla interpretazione o sull’attuabilità di una clausola collettiva per la determinazione della retribuzione o del compenso in relazione all’inquadramento del lavoratore a causa della sua genericità – non è escluso il potere del giudice di merito di quantificare di propria iniziativa la misura di tale compenso, con apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici (cfr. in tali sensi: Cass. 22 giungo 2004 n. 11624, cui adde, più di recente, in argomento anche Cass. 13 novembre 2009 n. 24092;

Cass. 14 dicembre 2005 n. 27591); e che ove il rapporto di lavoro sia regolato da un contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dall’imprenditore, il giudice, per valutare la sufficienza della retribuzione del lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost., può utilizzare la disciplina collettiva del diverso settore come parametro di raffronto e quale criterio orientativo, limitatamente alla retribuzione base, senza riguardo per gli altri istituti contrattuali ed esclusa ogni automatica applicazione (cfr. in tali sensi: Cass. 4 giugno 2008 n. 14791).

3. Ciò premesso, la sentenza impugnata, per essere pervenuta alla determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., all’esito dei necessari accertamenti istruttori ed a seguito di un iter argomentativo corretto sul versante logico giuridico ed incentrato sull’elaborato di un consulente d’ufficio e su utili parametri di riferimento (minimi tabellari di un contratto collettivo di settore non applicato in azienda e trattamenti economici in concreto riconosciuti ai dipendenti dell’impresa) – si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità.

4. Tale conclusione induce al rigetto del ricorso, dovendosi enunciare – in ragione dei compiti di nomofilachia propri del giudice di legittimità – alla stregua del disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 1, il seguente principio di diritto: “Il giudice di merito, nel determinare il compenso o la retribuzione base spettante al lavoratore subordinato, può, nel caso di mancanza di una specifica contrattazione di categoria, utilizzare alla stregua dell’art. 36 Cost., la disciplina collettiva di un settore – diverso da quello in cui di fatto ha operato il datore di lavoro – a semplici fini paramedici o di raffronto per la determinazione della sola retribuzione base spettante al lavoratore subordinato (senza riguardo agli altri istituti contrattuali). Tale determinazione può essere impugnata dal lavoratore in cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o disapplicazione del criterio giuridico della sufficienza della retribuzione – volto a garantire la soddisfazione dei bisogni di una esistenza libera e dignitosa – nonchè di quello della proporzionalità – volto a correlare la stessa retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, rimanendo di contro l’apprezzamento in concreto dell’adeguatezza della retribuzione, riservato al giudice di merito”.

4. Va, dunque, per concludere ribadito che la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure che le sono state mosse per avere, dapprima, accertato la realtà fattuale in cui ha operato la società datrice di lavoro e per avere, poi, sulla base di un siffatto accertamento effettuato – con un iter argomentativo adeguato e privo di salti logici – un apprezzamento positivo sulla adeguatezza in concreto della retribuzione base riconosciuta alla D.G..

5. Ricorrono giusti motivi – tenuto conto dell’esito finale della controversia e della natura delle questioni trattate – per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2010

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