Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7527 del 25/03/2020

Cassazione civile sez. I, 25/03/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 25/03/2020), n.7527

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 791/19 proposto da:

A.A.M., elettivamente domiciliato in Milano, v. della Commenda

n. 35, difeso dall’avvocato Enrico Mario procura speciale apposta in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano 20.6.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31 gennaio 2020 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

RILEVATO

che:

A.A.M., cittadino bengalese, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis);

a fondamento della sua istanza dedusse che in Bangladesh svolgeva il lavoro di insegnante; di avere punito una sua alunna sorpresa a copiare; di essere stato per questa ragione perseguitato dal padre della ragazza, capo di un partito politico, il quale dapprima gli chiese il pagamento di una somma equivalente a 20.000 Euro, ed in seguito avrebbe invaso la sua abitazione, maltrattato i suoi familiari, e rapito l’odierno ricorrente segregandolo su un’isola, da cui però era riuscito a fuggire;

la Commissione Territoriale rigettò l’istanza;

avverso tale provvedimento A.A.M. propose, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35 ricorso dinanzi al Tribunale di Milano, che lo rigettò con sentenza 16.6.2017;

tale sentenza, appellata dal soccombente, è stata confermata dalla Corte d’appello di Milano con sentenza 20.6.2018;

la Corte d’appello ritenne che nulla del racconto compiuto dal richiedente asilo fosse credibile: non la sua identità, non la sua provenienza, non le vicende riferite e poste a fondamento della richiesta di protezione;

il provvedimento della Corte d’appello è stato impugnato per cassazione da A.A.M. con ricorso fondato su cinque motivi; il ministero dell’interno non si è difeso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

col primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui lo ha ritenuto inattendibile;

lamenta che la Corte d’appello avrebbe violato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5; che avrebbe violato il dovere di cooperazione istruttoria; che i documenti da lui depositati dimostravano la verità di quanto dichiarato circa la sua provenienza, nonchè la verità dei fatti riferiti; conclude osservando che “quanto esposto dal ricorrente appare dunque del tutto credibile e supportato da sufficienti riscontri probatori”;

in una seconda parte del motivo (pagine 8-10 del ricorso) il ricorrente aggiunge che la motivazione della sentenza d’appello sarebbe “apodittica e contraddittoria”, perchè da un lato avrebbe ritenuto attendibili le dichiarazioni del richiedente asilo, ma dall’altro avrebbe rigettato la domanda di protezione ritenendo che i fatti dedotti a fondamento di esse riguardavano una diatriba personale, senza considerare che le persecuzioni subite dal richiedente asilo provenivano da un gruppo politico estremista;

il motivo è inammissibile in tutte le censure in cui si articola;

nella parte in cui investe il giudizio di inattendibilità del richiedente asilo il motivo è inammissibile, perchè censura un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 27503 del 30/10/2018, Rv. 651361 – 01);

nella parte in cui lamenta la violazione del dovere di cooperazione istruttoria il motivo è infondato, giacchè quel dovere non sorge dinanzi alla inattendibilità del richiedente asilo (ex plurimis, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 19716 del 25/07/2018, Rv. 650193 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 26921 del 14/11/2017, Rv. 647023 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 25534 del 13/12/2016, Rv. 642305 – 01; Sez. 6 – 1, Sentenza n. 16221 del 24/09/2012, Rv. 624099 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16202 del 24/09/2012, Rv. 623728 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 26056 del 23/12/2010, Rv. 615675 – 01);

nella parte in cui lamenta il carente esame delle prove documentali da lui asseritamente fornite il motivo è inammissibile perchè investe la valutazione delle prove, censura che cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”);

nella parte in cui lamenta la contraddittorietà della motivazione il motivo è inammissibile, in quanto tale censura non è più consentita dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5; in ogni caso è manifestamente infondato in quanto la Corte d’appello ha dato ampiamente conto, alle pagine 3, primo capoverso, e 5, ultimo capoverso, delle ragioni per le quali ha ritenuto inattendibile il richiedente asilo;

col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3,5,7 e 8 nonchè di ulteriori e varie norme di carattere sovranazionale;

l’esposizione del motivo può essere riassunta e semplificata come segue:

-) nel proprio Paese il ricorrente era stato vittima di persecuzione per le proprie opinioni politiche;

-) le persecuzioni già subite costituivano un serio indizio della fondatezza del timore di subire ulteriori persecuzioni;

-) erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto che la fuga dal Bangladesh dell’odierno ricorrente fosse scaturita da una “diatriba personale”;

sulla base di queste considerazioni il ricorrente conclude che la Corte d’appello, negando la protezione (non è del tutto chiaro se il ricorrente faccia riferimento al rifugio o alla protezione sussidiaria) avrebbe violato l’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951;

il motivo è inammissibile in quanto, al di là dei riferimenti normativi indicati in esergo, nella sostanza censura un tipico apprezzamento di fatto, e cioè il giudizio di inattendibilità del richiedente e di inveridicità delle circostanze da lui riferite;

col terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3. Dopo una lunga disamina sulla corretta interpretazione dell’art. 10 Cost., il ricorrente conclude che la giurisprudenza di legittimità avrebbe “estromesso” dal campo della protezione internazionale l’istituto dell’asilo costituzionale di cui al suddetto art. 10; che il diritto di asilo in Italia, riconosciuto a chi non può esercitare nel proprio Paese le libertà democratiche, non potrebbe essere degradato “a mero diritto all’esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato” (degradazione che, secondo il ricorrente, sarebbe il frutto della giurisprudenza di legittimità); che nel caso di specie “non pare potenti essere dubbio che al ricorrente nel suo paese di origine non sarebbe consentito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” (così il ricorso, pagina 18);

premesso che le nove pagine in cui si diffonde il motivo costituiscono la fedele trascrizione ad litteram di uno schema di ricorso disponibile sul Web, e che già solo per questo scontano una assai scarsa aderenza col caso concreto, il motivo è manifestamente inammissibile per varie ragioni;

innanzitutto è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi;

esso infatti parte dal presupposto che al richiedente asilo sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche: ma tale circostanza di fatto non è stata mai accertata nei gradi di merito, ed anzi è stata esclusa dalla Corte d’appello, la quale ha ritenuto totalmente inattendibile il racconto dell’odierno ricorrente;

in secondo luogo il motivo è inammissibile perchè, anche a voler dare per buona la tesi sostenuta dal ricorrente (e cioè che l’art. 10 Cost. prevedrebbe un “quarto tipo” di protezione, che si aggiunge e si affianca al rifugio, alla protezione sussidiaria ed a quella umanitaria), il ricorso non indica in quale atto ed in quali termini tale domanda di “quarta protezione” sarebbe stata formulata nei gradi di merito, e deve perciò ritenersi nuova;

in terzo luogo il motivo è comunque inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., dal momento che questa Corte ha ripetutamente affermato che l’art. 10 Cost. ha trovato attuazione negli istituti del rifugio, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria: “il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, (ex multis, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16362 del 04/08/2016, Rv. 641324 – 01);

col quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14;

sostiene che egli, se tornasse in patria, “sarebbe certamente esposto al rischio di subire torture e trattamenti inumani”; che la diversa opinione della Corte d’appello “è apodittica e solo apparente”; che tale motivazione sarebbe “radicalmente insufficiente”; che in tal modo la Corte d’appello avrebbe sostanzialmente evitato di pronunciarsi;

il motivo è innanzitutto inammissibile perchè prospetta un vizio, quello di insufficiente motivazione, che il novellato art. 360 c.p.c., n. 5 non consente più di dedurre in sede di legittimità;

in secondo luogo è inammissibile perchè prescinde del tutto dalla effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata;

la Corte d’appello, infatti, ha motivato il rigetto della domanda di protezione sussidiaria osservando:

-) in primo luogo, che il racconto del ricorrente non era attendibile; -) in secondo luogo, che in Bangladesh non sussiste una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato;

il ricorrente, incurante di tale statuizione, torna ora a sostenere in sede di legittimità che “se il ricorrente tornasse nel suo paese sarebbe certamente esposto al rischio di tortura o trattamenti inumani”: censura che, da un lato, dà per scontata una circostanza di fatto che non è stata mai accertata in giudizio; e dall’altro sostiene – questo sì, in modo apodittico – non essere vero che in Bangladesh non vi sia una situazione di violenza indiscriminata, senza però indicare in che modo ed in quale fase processuale sia stata acquisita al giudizio la prova di tale circostanza di fatto;

col quinto motivo il ricorrente lamenta il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5;

il motivo investe la pronuncia di rigetto della domanda di concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari; vi si sostiene che la Corte d’appello avrebbe omesso di prendere in esame “la documentazione prodotta dal ricorrente che attesta l’inizio di un percorso di integrazione di tipo culturale, sociale, relazionale lavorativo in Italia”, consistito nell’avere svolto attività di lavoro dipendente, di avere stipulato un contratto di locazione, di avere formulato domanda di ricongiungimento con la moglie ed il figlio, di avere imparato la lingua italiana;

il motivo è inammissibile;

la Corte d’appello ha infatti rigettato la domanda di protezione umanitaria sul presupposto che il ricorrente “non avesse allegato specifiche condizioni soggettive in grado di giustificare la concessione” della protezione umanitaria;

il rigetto pertanto si fonda sulla ritenuta sussistenza di un deficit assertivo, prima che probatorio, e tale ratio decidendi non viene impugnata dal ricorrente;

in secondo luogo non è affatto vero che la Corte d’appello abbia trascurato di considerare le prove documentali offerte dal ricorrente; si legge infatti a pagina 8, terz’ultimo capoverso, della sentenza impugnata che la Corte d’appello ha esaminato la circostanza dello svolgimento di attività lavorativa in Italia da parte del richiedente asilo, ma l’ha reputata “elemento non sufficiente per la concessione del beneficio della protezione per motivi umanitari”;

così giudicando, la Corte d’appello ha fatto puntuale applicazione del principio secondo cui l’avvenuta integrazione del richiedente asilo in Italia, da sola, non costituisce una ragione decisiva per la concessione della protezione umanitaria, mentre può diventarlo solo se il rientro nel paese di origine possa comportare una compressione dei diritti fondamentali “al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo della dignità personale” (Sez. un. 24959/19), compressione che, inoltre, deve dipendere dalla peculiare e soggettiva condizione del richiedente asilo, e non dal “contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (Cass. 24959/19; Cass. 28 giugno 2018, n. 17072);

non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata;

il rigetto del ricorso comporta l’obbligo del pagamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte di cassazione, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2020

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