Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7523 del 23/03/2017

Cassazione civile, sez. lav., 23/03/2017, (ud. 20/12/2016, dep.23/03/2017),  n. 7523

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11962-2015 proposto da:

M.M.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA FARINI 62, presso lo studio dell’avvocato LUCIO GOLINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI TARQUINI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT S.P.A. P.I. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE

34, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO PALLADINO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA ROSSI, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1586/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/01/2015 R.G.N. 1049/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/12/2016 dal Consigliere Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI;

udito l’Avvocato FONTANA PAOLA per l’Avvocato TARQUINI GIOVANNI;

udito l’Avvocato ROSSI GIANLUCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza 13 gennaio 2015, la Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello principale proposto da M.M.C., che, in accoglimento dell’appello incidentale di Unicredit s.p.a., condannava al pagamento; in favore di questa a titolo risarcitorio, della somma di Euro 3.252.858,20, oltre interessi legali dalla pronuncia della sentenza: così parzialmente riformando la sentenza di primo grado, che l’aveva invece condannata al pagamento, al medesimo titolo, della somma di Euro 1.626.429,10 e invece respinto le domande riconvenzionali di annullamento per violenza morale delle dimissioni rassegnate il 9 settembre 2009, di ripristino del rapporto di lavoro e di condanna della banca datrice al pagamento delle retribuzioni non percepite, oltre al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti.

A motivo della decisione, la Corte territoriale riteneva esaustiva l’indagine istruttoria del Tribunale, ancorchè non esaustiva della lista testimoniale, per la completezza del quadro probatorio ed irrilevante, oltre che in parte generica, l’appendice istruttoria richiesta.

Essa escludeva poi l’annullabilità delle dimissioni rassegnate dalla lavoratrice, in assenza della violenza morale denunciata, ma soltanto sotto la minaccia di un licenziamento per giusta causa e di un’azione risarcitoria della banca, plausibili per la gravità dei fatti compiuti da M.M.C.; e ancora, negava il difetto di prova del danno subito da Unicredit s.p.a., per la risultanza di pagamenti, in via di transazione in favore di clienti danneggiati, di importo complessivo superiore a quello rivendicato.

La Corte felsinea escludeva invece alcun concorso colposo della banca, per le modalità artificiose adottate nei confronti della clientela danneggiata dalla lavoratrice, direttrice di filiale, tali da inibirne la ragionevole possibilità di controllo: così accogliendo l’appello incidentale della prima.

Con atto notificato il 14 aprile 2015, M.M.C. ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste Unicredit s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 111 Cost., art. 24 Cost., art. 3 Cost., comma 2, art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per il ragionamento viziato, in quanto parziale, della Corte territoriale nel limitare la lista testimoniale e privo di giustificazione nella mancata ammissione dei mezzi di prova, pur rilevanti, richiesti dalla lavoratrice, così in attentato al principio di parità delle parti nel processo.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1434, 1435 e 1438 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la non riconosciuta annullabilità, per violenza o minaccia ingiusta, delle dimissioni cui era stata costretta, sulla base di una contestazione rivelatasi poi infondata (quale l’impropria gestione della “posizione Spallanzani”) e sostanzialmente consistite in un licenziamento surrettizio, in esito a valutazione dei fatti incoerente con le risultanze processuali.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., artt. 113 e 115 c.p.c., art. 24 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la carenza di prova certa dei danni asseritamente arrecati alla banca, neppure dimostrati nella riconduzione eziologica alla dipendente, nè tanto meno plausibilmente determinati nella loro entità, in difetto di idonea documentazione e per il negato concorso di colpa della banca, gravemente negligente nell’omessa adozione di controlli e procedure di sicurezza adeguati.

Il primo motivo, relativo a violazione degli artt. 111 e 24 Cost., e art. 3 Cost., comma 2, art. 2697 c.c., art. 115 e 116 c.p.c., per il ragionamento viziato, in quanto parziale, della Corte territoriale nella limitazione della lista testimoniale e nell’ingiustificata mancata ammissione di mezzi di prova, è inammissibile.

La violazione delle norme di legge denunciate non sussiste, in difetto degli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

Esso consiste in una palese contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento in fatto del giudice di merito, nella trasparente natura di confutazione motiva, pure generica, della doglianza (“Il ragionamento della Corte appare dunque viziato e non imparziale”: secondo capoverso di pg. 28 del ricorso; “Già qui si evidenzia il vizio di motivazione, che risulta sostanzialmente inesistente”: ultimo capoverso di pg. 31 del ricorso).

L’accertamento e la valutazione compiuti dalla Corte territoriale sono insindacabili nell’odierna sede di legittimità, spettando a questa Corte la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica e formale delle argomentazioni del giudice di merito, cui spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così libera prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge; non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 marzo 2007, n. 5066).

E nel caso di specie, in presenza di una motivazione congrua e corretta (per le ragioni esposte dal terzo capoverso di pg. 3 al primo periodo di pg. 5 della sentenza), in esatta applicazione, in particolare, del potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità ed esercitabile anche nel corso dell’espletamento della prova, di riduzione delle liste testimoniali sovrabbondanti, qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova, neppure dovendo una tale valutazione essere necessariamente espressa, potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione della sentenza (Cass. 9 giugno 2016, n. 11810; Cass. 22 aprile 2009, n. 9551; Cass. 16 agosto 2004, n. 15955). Qui la Corte bolognese ne ha offerto, invece, un’esplicita giustificazione (dal secondo al decimo alinea di pg. 4 della sentenza), così come dei motivati rifiuti, per superfluità e genericità, di richiesta di esibizione di scritture contabili e di polizze assicurative (dal diciannovesimo all’ultimo alinea di pg. 4 della sentenza) e, per non pertinenza al thema decidendi, di C.t.u. medico – psichiatrica (primo periodo di pg. 5 della sentenza).

Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1434, 1435 e 1438 c.c., per annullabilità, per violenza o minaccia ingiusta, delle dimissioni cui costretta la lavoratrice, è pure inammissibile.

Anch’esso, nell’inconfigurabilità della violazione delle norme denunciate in difetto dei requisiti propri (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984) e nella trasparente natura di confutazione motiva, pure generica, della doglianza (“La motivazione… appare illogica e del tutto carente”: secondo capoverso di pg. 34 del ricorso; “… valutazione dei fatti operata dalla Corte strida con le emergenze processuali”: terz’ultimo capoverso di pg. 35 del ricorso), si risolve in una contrapposizione dalla parte di una propria ricostruzione e interpretazione dei fatti (pure con evidente violazione del principio di autosufficienza nel generico richiamo di ammissioni della banca e di dichiarazioni testimoniali, a pgg. 39 e 40 del ricorso, in difetto di loro trascrizione: Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 3 marzo 2009, n. 5043; Cass. 18 novembre 2005, n. 24461; Cass. 26 settembre 2002, n. 13953) all’accertamento in fatto e alla valutazione probatoria del giudice di merito. Ed essi, si ribadisce, sono insindacabili in sede di legittimità, laddove siano congruamente e correttamente motivati (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694; Cass. 5 marzo 2007, n. 5066), come appunto nel caso di specie (per le ragioni esposte a pgg. 5 e 6 della sentenza).

Tanto più, in esatta applicazione del principio di diritto, secondo cui le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica: con accertamento da parte del giudice di merito incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio, risolvendosi in un giudizio di fatto (Cass. 20 luglio 2015, n. 15161; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3388; Cass. 18 agosto 2004, n. 16179).

Infine, occorre pure tenere conto (e ciò in riferimento anche agli altri due mezzi) della limitata devoluzione, per effetto del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, del “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, con esclusione della sua integrazione con elementi istruttori, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Anche il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., artt. 113 e 115 c.p.c., art. 24 Cost., per carenza di prova dei danni asseritamente arrecati alla banca, della loro entità e per negato concorso di colpa della banca, è inammissibile.

E lo è per le stesse ragioni, scrutinate in riferimento ai primi due mezzi, di contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento in fatto del giudice di merito, insindacabili in sede di legittimità per la congruità e correttezza di motivazione (per le ragioni esposte a pgg. da 7 a 9 della sentenza), con richiamo di documenti e dichiarazioni testimoniali, inammissibilmente confutati con argomentazioni generiche e talvolta meramente congetturali, anche tenuto conto dell’ambito devolutivo rigorosamente vincolato del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Dalle superiori argomentazioni discende coerente l’inammissibilità del ricorso e la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna M.M.C. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2017

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