Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7520 del 29/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 29/03/2010, (ud. 13/01/2010, dep. 29/03/2010), n.7520

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BALLETTI Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 4800/2006 proposto da:

D.A.M., C.C., C.S., C.

G.M., D.M.C., P.D.,

Z.A., M.C., P.F., M.

A., G.M.C., S.B., M.

B., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE 16,

presso lo studio dell’avvocato BONAIUTI DOMENICO, rappresentati e

difesi dall’avvocato ARCA Francesco Angelo, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati MERCANTI

Valerio, LANZETTA ELISABETTA, giusta mandato a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 167/2005 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata il 09/03/2005 R.G.N. 866/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

13/01/2010 dal Consigliere Dott. BRUNO BALLETTI;

udito l’Avvocato ARCA FRANCESCO ANGELO;

udito l’Avvocato LANZETTA ELISABETTA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 9 marzo 2005 la Corte di appello di Cagliari, in riforma della sentenza del Tribunale di Cagliari in data 15 ottobre 2003, respingeva i ricorsi ex art. 414 c.p.c., con cui gli originari ricorrenti-appellati – ex docenti del “Comparto scuola” transitati alle dipendenze dell’I.N.P.S. con decorrenza dal 1 settembre 1998 a seguito di procedura di mobilità intercomparti-mentale volontaria di cui al D.M. Ministero della Pubblica Istruzione n. 135 del 1998 e all’ordinamento ministeriale n. 217 del 6 maggio 1998 – avevano convenuto in giudizio l’I.N.P.S. per ottenere il riconoscimento del diritto a stipulare il contratto individuale ed a percepire il c.d.

salario di professionalità (elemento retributivo accessorio riconosciuto contrattualmente ai dipendenti dell’Istituto già in servizio alla data del 1 gennaio 1998), nonchè la declaratoria dell’obbligo del convenuto Istituto a riconoscere l’anzianità maturata al comparto scuola fino al 31 aprile 1998 ed a riliquidare correttamente alcune voci retributive sulla base della cennata ordinanza ministeriale e, altresì, a mantenere il trattamento di miglior lavoro senza procedere al riassorbimento.

Per respingere le orginarie domande giudiziarie la Corte di appello rilevava che: a) “l’argomentazione dell’art. 6 dell’O.M. n. 217/1998, prevedendo che “il docente è collocato nei ruoli dell’I.N.P.S. conservando i trattamenti accessori previsti per il personale dello stesso I.N.P.S.”, riconosce la spettanza di quel trattamento accessorio sulla sola circostanza che lo stesso sia in godimento del personale dell’istituto previdenziale trascura di considerare che il salario di professionalità non è corrisposto al personale dell’I.N.P.S. che – come gli appellati – non era in servizio al 1 gennaio del 1998″; b) “l’assegno ad personam è stato attribuito agli ex insegnanti non già per il riconoscimento di una maggiore professionalità o per improvviso depauperamento derivante dal passaggio da una ad altra amministrazione, per cui, se questo è il significato della previsione normativa, non v’ha dubbio che nulla giustifica la conservazione di quel trattamento che, logicamente, deve essere riassorbito nei successivi miglioramenti retributivi riconosciuti al personale dell’I.N.P.S. che porteranno alla definitiva perequazione dei due trattamenti”.

Per la cassazione di questa sentenza Z.A., M. C., P.F., M.A., G.M. C., S.B., M.B., D.A. M., C.C., L.S., C.G. M., D.M.C. e P.D. propongono ricorso sostenuto da un unico motivo.

L’intimato I.N.P.S. resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti – denunciando “violazione e falsa applicazione dell’o.m. n. 217/1998 e del D.M. n. 135 del 1998 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 72, nonchè omessa ed illogica motivazione” – censurano la sentenza impugnata “per avere la Corte di appello errato, con motivazione del tutto inconsistente, nel considerare non applicabile l’istituto ai nuovi arrivati con decorrenza 1 settembre 1998, semplicemente considerando attribuibile il beneficio solo al personale in servizio all’1 gennaio 1998 e non distinguendo tra personale in servizio all’1 gennaio 1998 e personale assunto successivamente ma in vigenza di contratto e che, comunque, avrebbe dovuto beneficiare dell’emolumento, pur senza decorrenza retroattiva”, rilevando inoltre che “il criterio della riassorbibilità, pur adeguato a soddisfare il requisito del non peggioramento della situazione del lavoratore ed il principio della tendenziale omogeneità di trattamenti retributivi, in assenza di una disciplina legislativa o contrattuale generale o speciale, non è applicabile alla fattispecie de qua, restando la stesa regolata dai citati ordinanza n. 217/98 e decreto ministeriale n. 135/1998”.

2 – Il ricorso non appare meritevole di accoglimento sotto i diversi profili di censura sviluppati mediante l’unico complesso motivo di impugnazione.

2/a – Pervero, in merito alla pretesa – ribadita dai ricorrenti con il primo profilo di censura – concernente l’asserito diritto alla corresponsione del c.d. “salario di professionalità”, questa Corte ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione relativa al significato della clausola del contratto integrativo INPS per l’anno 1998 – la quale, riproducendo analoga disposizione contenuta nel precedente contratto integrativo per l’anno 1997, stabiliva che “il salario di professionalità è corrisposto a decorrere dal 1 gennaio 1998 al personale in servizio alla stessa data” – ed ha osservato che una interpretazione coerente con il dato testuale non può prescindere dal rilievo che essa conteneva un duplice (ancorchè coincidente) riferimento temporale, in quanto prevedeva che: a) il 1 gennaio 1998 fosse il dies a quo della decorrenza del beneficio contemplato nell’accordo integrativo stilato l’8 luglio 1998; b) il 1 gennaio 1998 fosse anche il giorno in cui verificare che il personale beneficiario del salario di professionalità fosse in servizio (Cass. n. 8693/2005, Cass. n. 16981/2004 e Cass. n. 28041/2005). Sarebbe, quindi, censurabile, secondo le richiamate sentenze, alla stregua del criterio di cui all’art. 1362 c.c., un’opzione esegetica la quale si limitasse ad affermare che la data del 1 gennaio 1998 valeva unicamente a chiarire la decorrenza retroattiva del beneficio (questa essendo la funzione già inequivocamente assolta dal primo riferimento temporale sub a), premettendo del tutto il secondo riferimento temporale (sub b), ossia considerandolo tamquam non esset.

Tanto precisato, nessuna censura può muoversi alla sentenza impugnata, sia con riferimento alla dedotta violazione delle regole di interpretazione del contratto – dal momento che il giudice di appello ha correttamente dato significato anche al secondo degli indicati riferimenti temporali, rinvenendolo nell’intento di operare una distinzione tra personale dell’I.N.P.S. che fosse già in servizio alla data del 1 gennaio 1998 e nuovi assunti – sia con riferimento ai denunciati vizi della motivazione, non riscontrandosi alcuna illogicità e incongruenza nel percorso argomentativo che giustifichi l’opzione esegetica prescelta, posto che, in nessuna sua parte, il ragionamento della Corte territoriale mostra di dare rilievo a una funzione del “salario di professionalità” come compensativa della partecipazione dei lavoratori alla riorganizzazione dell’I.N.P.S., così da assumere una siffatta partecipazione a presupposto ineludibile per l’acquisizione del diritto al beneficio economico controverso. D’altra parte nulla di diverso emerge dall’ordinanza ministeriale posta a base del trasferimento (in particolare, dall’art. 6), correttamente interpretata nel senso che essa garantiva i medesimi trattamenti accessori attribuiti ai dipendenti dell’I.N.P.S., così da trame la conseguenza, perfettamente coerente, che ciò che non poteva essere attribuito ai dipendenti non spettava neppure a coloro che fossero divenuti tali per effetto della mobilità. Si aggiunga che l’interpretazione accolta non determina alcuna violazione della regola di parità, dovendosi in base ad essa attribuire il medesimo trattamento a tutti coloro che ne abbiano diritto, mentre, nel caso di specie, tale diritto non è stato riconosciuto.

E’ da rilevare, infine, che, nelle sentenze n. 8693/2006, n. 18568/2005 e n. 18600/2005, questa Corte ha esaminato fattispecie in tutto analoghe a quella controversa e ha ritenuto incensurabile l’opzione ermeneutica delle sentenze impugnate, nella parte in cui avevano rilevato che l’o.m. n. 217 del 1998 attribuiva ai dipendenti trasferiti i trattamenti accessori per il personale dell’I.N.P.S. alle medesime condizioni in presenza delle quali essi spettavano al detto personale, così subordinandone la riconoscibilità alla circostanza – decisiva secondo il contratto collettivo integrativo per l’anno 1998 e, nella specie, non soddisfatta – dell’essere in servizio presso l’Istituto alla data del 1 gennaio 1998.

2/b – Parimenti si appalesa infondato il secondo profilo di censura alla base dell’unico motivo di ricorso – concernente l’asserita non riassorbibilità negli aumenti retributivi del trattamento di miglior favore già goduta dai ricorrenti presso l’amministrazione statale di provenienza – atteso che, la giurisprudenza, risalente e univoca, del Giudice amministrativo (munito all’epoca di giurisdizione esclusiva sulle controversie di lavoro pubbliche) ha escluso che il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 202, costituisse espressione di un principio generale, applicabile a tutti i dipendenti pubblici e in ogni caso di trasferimento, interpretando la norma nel senso che la disciplina relativa all’assegno ad personam, utile a pensione, attribuibile agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova posizione lavorativa, concerne esclusivamente i casi di passaggio di carriera presso la stessa amministrazione statale o anche diversa amministrazione, purchè statale, non (anche) i passaggi nell’ambito di amministrazione non statale, ovvero tra diverse amministrazioni non statali, o da una di esse allo Stato e viceversa (ex plurimis, Cons. Stato, ad. plenaria 16 marzo 1992 n. 8).

Trattasi di affermazione che la Corte condivide e fa propria, posto che la norma risponde alla precipua finalità che il mutamento di carriera nell’ambito dell’organizzazione burocratica dello Stato non comporti, per gli interessati, un regresso nel trattamento economico raggiunto; ma di “regresso” può parlarsi soltanto confrontando posizioni omogenee nel contesto di un sistema burocratico unitario, entro il quale il dipendente statale si sposti con le modalità previste per il “passaggio” ad altra amministrazione statale o ad altra carriera (v. D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 199 e 200).

Sussistono, dunque, limiti soggettivi ed oggettivi all’applicabilità della norma che inducono di per sè ad escludere che alla stessa possa essere attribuita una portata estensiva e che il legislatore abbia inteso, con tale disposizione, porre un principio di ordine generale, da valere per ogni tipo di passaggio ed indipendentemente dalla natura statale o meno delle organizzazioni nel cui ambito si verifica la mobilità.

Nè soccorre il richiamo al successivo D.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1079, art. 12 che al citato art. 202 si riconnette, e di cui ripete le finalità e limiti, solo aggiungendo il riferimento alle “disposizioni analoghe”, ma pur sempre concernenti l’impiego statale, esclusivo destinatario della normativa recata dal decreto.

Discende con evidenza dalle considerazioni svolte che la L. n. 537 del 1993 (art. 3, comma 57), siccome dichiaratamente inteso ad innovare la disciplina dell’assegno ad personam di cui al D.P.R. n. 3 del 1957 (art. 202) e altre analoghe disposizioni, resta estraneo alla regolamentazione di assegni contemplati da altre fonti normative. Quelle che interessano la presente controversia, peraltro (in particolare, l’ordinanza ministeriale n. 217 del 1998), nulla dispongono a proposito della riassorbibilità (o, in contrario, del diritto alla conservazione) dell’assegno ad personam attribuito agli ex docenti statali in occasione della procedura di mobilità volontaria che ne comportava il trasferimento all’I.N.P.S.. Il rilievo consente di ricondurre la fattispecie al principio generale, applicabile in tema di passaggi di personale, che la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 8693/2006 che richiama Cass. n. 12956/2005, Cass. n. 1756/2000, Cass. n. 2575/1998), ha individuato nella riassorbibilità degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito, argomentandone l’esistenza dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (art. 34), come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998 (art. 19) (ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 art. 31), ed osservando le regole dettate dalla norma in questione – nella parte in cui dispone la continuità giuridica del rapporto di lavoro del personale che transita alle dipendenze di un diverso soggetto, con la conservazione di tutti i diritti, secondo le regole dettate dall’art. 2112 c.c., rese applicabili a fattispecie diverse dal “trasferimento di azienda” – – non consentano di dubitare che il principio del mantenimento del trattamento economico collegato al complessivo status posseduto dal dipendente prima del trasferimento opera nell’ambito e nei limiti della regola del riassorbimento in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti dalle normative applicabili a seguito del trasferimento.

Sempre secondo la richiamata giurisprudenza, infatti, il diritto alla conservazione di un determinato trattamento retributivo già spettante presso l’amministrazione di provenienza, senza riassorbimento nel trattamento complessivo dovuto dall’ente di destinazione, presuppone la presenza di “disposizioni speciali” – di legge, di regolamento o di atti amministrativi – che espressamente e specificamente lo definiscano come non riassorbibile o, comunque, ne prevedano la continuità di corresponsione indipendentemente dalle dinamiche retributive del nuovo comparto.

Ed è a queste “diposizioni speciali” – attributive di trattamenti cosiddetti “di privilegio”, in quanto non riconducibili alle fonti negoziali collettive applicabili presso l’amministrazione di destinazione (nella specie, quelle disciplinanti il personale dell’I.N.P.S.) – che si ricollega l’ipotesi contemplata nel D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 2, comma 3, (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3), nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale, aggiungendo che i trattamenti economici più favorevoli in godimento sono riassorbiti con le modalità e nelle misure previste dai contratti collettivi; con la conseguenza che la norma anzidetta non viene in rilievo nella presente controversia, una volta escluso, come già riferito, che costituiscano “disposizioni speciali”, nel senso precisato, la norma della L. n. 537 del 1993, art. 3, comma 57, come pure le previsioni dell’o.m. n. 217 del 1998, anche da queste non derivando alcun diritto del personale statale che sarebbe transitato all’I.N.P.S a un trattamento retributivo in qualche modo “privilegiato” e “aggiuntivo” rispetto a quello contemplato dalla contrattazione collettiva del settore.

Ne consegue che devono ritenersi assorbiti nella ratio decidendi adottata l’esame di tutte le questioni concernenti l’applicabilità dell’art. 2, comma 3, indicato ed ogni altra questione che presupponga la sussistenza di trattamenti “privilegiati”.

2/c – In merito agli asseriti vizi di motivazione che inficerebbero la sentenza impugnata – si precisa -) il difetto di motivazione, nel senso d’insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero l’obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, – come per le censure mosse nella specie dai ricorrenti – quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati; -) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno non insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia – irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta; -) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi – come, nella specie, esaustivamente ha fatto la Corte di appello di Cagliari – le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse.

3 – A conferma della pronuncia di rigetto dei motivi del ricorso vale riportarsi al principio di cui alla sentenza di questa Corte n. 5149/2001 (e, più di recente, di Cass. Sezioni Unite n. 14297/2007) in virtù del quale, essendo state rigettate le principali assorbenti ragioni di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura.

4 – In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto deve essere respinto.

Ricorrono giusti motivi (costituiti dal differente esito del giudizio nei due gradi di merito) per dichiarare integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2010

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