Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 75 del 07/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 75 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: PAGETTA ANTONELLA

SENTENZA
sul ricorso 18419-2012 proposto da:
C.F.
A2A TRADING S.R.L.(già AEM TRADING S.R.L.)
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ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell’avvocato MAGRINI
SERGIO, che la rappresenta e difende unitamente agli
2013
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avvocati DELL’OMARINO ANDREA, DAMOLI CLAUDIO, GILDA
PISA, CANTONE LORENZO, giusta delega in atti;
– ricorrente contro

I.N.P.S.

ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA

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Data pubblicazione: 07/01/2014

SOCIALE,

C.F.

80078750587,

in persona del

suo

Presidente e legale rappresentante pro tempore, in
proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A.
Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F.

dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati
D’ALOISIO CARLA, SGROI ANTONINO, MARITATO LELIO,
giusta delega in atti;
– controri correnti
nonchè contro

EQUITALIA ESATRI S.P.A. c.f. 09816500152;
– intimata –

avverso la sentenza n. 109/2012 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 23/03/2012 r.g.n. 2142/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15/10/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA
PAGETTA;
uditi gli Avvocati MAGRINI SERGIO e DAMOLI CLAUDIO;
udito l’Avvocato D’ALOISIO CARLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

05870001004, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
C 1 35-ccItm et
DELLA
FREZZA
17,
presso
l’Avvocatura
Centrale

Fatto e diritto
La Corte di appello di Milano confermava la decisione di primo grado che aveva respinto il ricorso in
opposizione della A2A Trading s.r.l. avverso le cartelle esattoriali con le quali era intimato il pagamento
di somme per contributi dovuti a titolo di Cigo e Cigs , mobilità e disoccupazione
Quanto ai contributi per la Cigo e per la Cigs riteneva la Corte che non ricorrevano le condizioni per la
configurabilità della società appellante come “impresa pubblica” ai sensi dell’art. 3, comma 1 d. lgs CPS

dei contributi prescritti per la cassa integrazione . Richiamava precedente pronunzia della medesima
Corte che aveva ritenuto ininfluente, con riferimento alla società A2A Energia s.p.a. ,la circostanza della
sua derivazione, in seguito a cessione di ramo di azienda, da AEM s.p.a. società sulla quale il Comune
di Milano, pur non detentore dell’intero pacchetto azionario, esercitava una influenza dominante .
Rilevava a tal fine che AEM si era pacificamente trasformata in società per azioni e non era
interamente partecipata dal Comune di Milano e già questo era sufficiente a escluderne la ticonducibilità
all’ambito delle imprese industriali degli enti pubblici ; neppure era stato allegato che la AEM operava
sul mercato al di fuori della propria autonomia negoziale avvalendosi da poteri autoritativi . Evidenziava
che la partecipazione pubblica non muta la natura di so ggetto di diritto privato di una società per azioni
e che ininfluente era il ttpo di attività svolto.

Quanto al contributo di disoccupazione involontaria ha premesso che la società aveva fondato la
propria esclusione dal relativo obbligo contributivo sul disposto dell’art. 40 rdl. n. 1827 del 1935
che prevede la non assoggettabilità all’assicurazione dei lavoratori dipendenti da aziende pubbliche,
da quelle esercenti pubblici servizi e dalle aziende private, quando sia loro garantita la stabilità di
impiego risultante per le prime due dalle norma regolanti lo stato giuridico e il trattamento
economico e da accertarsi, per le sole aziende private, ad opera del Ministero del lavoro , su
domanda della interessata con effetto dalla domanda secondo le previsioni di cui all’art. 36 dpr n.
818 del 1957. Ha quindi rilevato che lo svolgimento da parte della società di un’attività in qualche
modo strumentale rispetto al pubblico servizio di erogazione del gas e dell’elettricità era
insufficiente ad attribuirle la natura di esercente pubblico servizio , “essendo venuti meno gli
elementi pubblicistici che caratterizzavano, sia sotto un profilo soggettivo, sia sotto un profilo
oggettivo, l’azienda municipalizzata controllante AEM “, trasformatasi in società per azioni ex
art. 22, comma III, lett. e) L. n. 142 del 1990, la quale aveva successivamente trasferito il ramo di
azienda avente ad oggetto l’acquisto, la vendita e lo scambio di energia elettrica e di altri vettori
energetici in Italia e all’estero. Escluso il carattere di azienda pubblica o azienda esercente un
pubblico servizio, la società appellante in base alle norme surrichiamate e avrebbe dovuto richiedere
un provvedimento ministeriale di accertamento delle condizioni di stabilità di impiego in difetto del
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n. 869 del 1947, come sostituito dall’art. 4 L. n. 270 del 1988, in quanto tale esonerata dal versamento

quale non può operare l’esonero dalla contribuzione . Era inoltre da evidenziare che i contratti
collettivi del settore elettricità e gas -acqua, applicabili ratione temporis non garantivano comunque
quella stabilità di impiego utile a determinare l’esonero contributivo dovendosi escludere, alla luce
di ripetute pronunce del giudice di legittimità ( Cass. n. 1744 del 2000 e Cass. ss.uu. n. 5570
/1988), la identificazione tra stabilità di impiego e tutela reale. Invero nel CCNL per le imprese di
pubblici servizi del gas, dell’acqua e vari, in data 17 novembre 1995, e nel CCNL imprese locali
possibilità di ricorso al recesso per giustificato motivo oggettivo, e anche il CCNL imprese
gas/acqua, sembra presuppone ipotesi di recesso per giustificato motivo oggettivo. Quanto al
giustificato motivo soggettivo non si ravvisava nella contrattazione collettiva una tassativa
previsione in materia di recesso che risultasse più restrittiva di quella ordinaria legale. Concludeva
la Corte d’Appello, quindi, che non esisteva la stabilità dell’impiego richiesta dalla legge per
escludere l’obbligo di contribuzione per disoccupazione involontaria.
Con riferimento alla questione relativa alla decorrenza degli obblighi contributivi che la società afferma
essere successiva alla circolare INPS 6.5.2005, in quanto con tale atto l’istituto aveva affrontato il tema
dell’obbligo di versamento dei contributi per la Cigs , la Cigo , la mobilità e la disoccupazione
involontaria per le aziende industriali dello Stato e degli enti pubblici privatizzate osservava il giudice
di appello che tali questioni erano stati oggetto di interventi chiarificatori dell’istituto previdenziale,
quanto meno dall’anno 2000 con soluzioni interpretative semplicemente confermate dalla circolare del
2005.
Quanto al motivo di gravame relativo alla richiesta di applicazione dell’art. 116 , comma 15 L. n. 388 del
2000 per il ricalcolo delle somme aggiuntive ed accessori, la Corte territoriale ha ritenuto non
spettante la riduzione delle sanzioni, prevista dalla norma in ipotesi di oggettive incertezze connesse a
contrastanti o sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali o amministrativi sulla ricorrenza
dell’obbligo contributivo, in quanto l’applicazione degli interessi in misura legale in luogo delle sanzioni
è subordinata alla preventiva richiesta in sede amministrativa ed all’integrale pagamento della
contribuzione controversa, presupposti mancanti nel caso di specie.
Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso affidato a sei motivi la A2A Trading srl .
L’INPS in proprio ed anche quale procuratore della S.C.C.I. s.p.a ha depositato controricorso.
L’INPS ,anche quale procuratore della SCCI ha depositato controricorso . Equitalia Esatri è rimasta
intimata.
La società ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cpc

Con il primo motivo di ricorso, relativo alle statuizioni della sentenza della Corte d’Appello di
Milano su contribuzione e aliquote CIG, CIGS e mobilità, è prospettata violazione e falsa
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dei servizi elettrici del 9 luglio 1996, rispettivamente l’art. 51 e l’art. 46, non escludono la

applicazione di legge (art. 360, comma 1, n. 3, cpc) con riferimento agli artt. 3, comma 1, del d.lgs.
C.P.S. 12 agosto 1947, n. 869, ratificato con legge 21 maggio 1951, n. 498; art. 1, lettera c), della
direttiva CE 18 giugno 1992, n. 50; art. 2, comma 1, lettera b), comma 2 ed all. 7 del d.lgs. 17
marzo 1995 n. 157; direttiva CE 14 giugno 1993 n. 38; artt. 2, comma 2, 3 e 5, del d.lgs. 17 marzo
1995, n. 158; art. 2 della direttiva CE 26 luglio 2000, n. 52; art. 2, comma 1, lettera b), del d.lgs. 11
novembre 2003, n. 333; art. 2093 cc; art. 22 della legge 8 giugno 1990, n. 142; legge 23 dicembre
art. 29 della legge 28 dicembre 2001, n. 448; art. 113 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, come mod.
dall’art. 14 del di. 30 settembre 2003, n. 269, conv., con mod., dalla legge 24 novembre 2003, n.
326; art. 1 della legge 15 dicembre 2004, n. 308; art. 2, comma 28, della legge 23 dicembre 1996, n.
662; decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale 27 novembre 1997, n. 447.
Violazione della normativa comunitaria come trasposta nel nostro ordinamento nazionale con
riferimento alla nozione di impresa pubblica ed ai requisiti di applicabilità dell’esclusione prevista
dall’art. 3 del d.lgs. n. 869 del 1947 e travisamento dei fatti.
Espone la ricorrente come alla luce della disciplina comunitaria e alla disciplina nazionale, sopra
richiamate, il riferimento alle imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e
dello Stato, contenuto nell’art. 3, comma 1, del d.lgs. C.P.S. n. 869 del 1947, non può essere inteso
come riferentesi solo alle società esercenti servizi pubblici, a capitale totalmente pubblico e non
anche a quelle a capitale maggioritario pubblico o influenza dominante pubblica. In particolare,
nell’articolata deduzione, richiama la nozione di influenza dominante quale tratto distintivo
dell’impresa pubblica, secondo quanto previsto, nei rispettivi ambiti, dalle direttive comunitarie n.
50 del 1992 e n. 52 del 2000. Tale nozione è ripresa nelle direttive comunitarie nn. 17 e 18 del
2004.Espone, altresì, la ricorrente come l’unicità della nozione di impresa non esclude l’esistenza
di diversità tra impresa pubblica ed impresa privata, come si evince dall’art. 2093, ultimo comma,
cod. civ. Non sarebbe, dunque, condivisibile l’affermazione che la società per azioni con
partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o
gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non
assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale
società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio della propria autonomia negoziale,
senza alcun collegamento con l’ente pubblico (è richiamata la sentenza di questa Corte, Sezioni
Unite civili, n. 7799 del 2005).
Ad avviso della ricorrente, ciò che è rilevante non è il dato formale della personalità giuridica
privata e/o l’esercizio o meno di poteri autoritativi, al fine di determinare una significativa
alterazione del modello societario tipico, ma il dato sostanziale dell’unitarietà economica e
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1992, n. 498; d.P.R. 16 settembre 1996, n. 533; art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165;

funzionale con il soggetto pubblico proprietario di semplice maggioranza. Ciò sarebbe sufficiente a
produrre un’alterazione del modello societario, come evidenziato dalla Corte di Giustizia nella
sentenza 6 dicembre 2007 (cause C-464/04 e C-463104). Inoltre si pone in evidenza come la
giurisprudenza di legittimità più risalente (Cass., n. 4600 del 1993, che affermava che nel nostro
sistema assistenziale e previdenziale la locuzione “imprese industriali degli enti pubblici” di cui alla
norma in esame, deve essere interpretata non già con criterio formalistico, bensì riguardando la
versato sia interamente di proprietà di enti pubblici e da essi gestito, come posto in evidenza dallo
stesso legislatore, lo Stato può ritenere più conveniente, di volta in volta, adottare schemi operativi
privatistici o pubblicistici), invocata dall’INPS, deve essere letta in riferimento al contesto
giuridico in cui veniva pronunciata, atteso che il processo di privatizzazione delle aziende
municipalizzate degli enti locali veniva avviato solo a fronte del 1990.
Con il secondo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione di legge (art. 360,
comma 1, n. 3, cpc) con riferimento alla individuazione del soggetto esercente un pubblico servizio.
Violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. . Omessa o insufficiente
motivazione su un punto essenziale della controversia ed in particolare in relazione all’affermazione
che manchi la natura strumentale, e che detta strumentalità dell’attività svolta rispetto a quella
generale di pubblico servizio non valga a qualificare l’attività strumentale nell’ambito del pubblico
servizio. La ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello di Milano che ha ritenuto che
essa società appellante non fosse azienda esercente un pubblico servizio, essendo a tal fine
insufficiente la circostanza che la società svolgesse un’attività in qualche modo strumentale
rispetto al pubblico servizio di erogazione del gas e dell’elettricità.
Deduce la ricorrente che non sono venuti meno a seguito della trasformazione gli elementi
pubblicistici che caratterizzavano AEM quale Azienda municipalizzata, essendo AEM spa esercente
attività di pubblico servizio, anche per l’attività svolta in ragione dell’oggetto sociale, tenuto conto
che ai sensi del d.lgs. n. 164 del 2000 l’attività di distribuzione del gas naturale è attività di servizio
pubblico. Né argomenti, nel senso ritenuto dalla Corte d’Appello, erano stati offerti da essa
ricorrente.
Con il terzo motivo di ricorso è prospettata omessa e/o insufficiente motivazione su un punto
essenziale della controversa (art. 360, comma 1, n. 5, cpc), con riferimento alla esclusione del
riconoscimento dell’esistenza di un provvedimento di esonero con natura dichiarativa applicabile
anche ad AEM distribuzione gas e calore (ora A2A Reti Gas). Violazione e falsa applicazione degli
artt. 115 e 116 cod. proc. civ. La sentenza della Corte d’Appello è censurata laddove nega che
possa ritenersi vigente il decreto a suo tempo rilasciato ad AEM di esonero, ex art. 40, n. 2, del
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natura della persona giuridica considerata, e, quindi, nel caso di società per azioni, se il capitale

RDL n. 1827 del 1935, per il riconoscimento in capo ad AEM da parte del Ministero del lavoro,
avvenuto con lettera del 10 luglio 1956, di un provvedimento attestante la “stabilità dell’impiego” e,
quindi, di esonero dal contributo disoccupazione, provvedimento ministeriale che non era stato mai
revocato e che doveva ritenersi produrre effetto di esonero anche per AEM spa e per le società da
essa derivate, per scorporo ovvero per cessione di ramo d’azienda. La fattispecie in esame, ad
avviso della ricorrente, ben poteva trovare un precedente nell’estensione effettuata per le società
ed imposto dal legislatore per pervenire alla liberalizzazione del mercato dell’energia e del gas
naturale, con la conseguenza del subentro, pro quota, anche nell’esonero contributivo a suo tempo
accordato ad AEM.
Con il quarto motivo di ricorso, relativo alla contribuzione per la disoccupazione, è prospettata
violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n. 3, cpc), con riferimento
all’art. 36 del dPR 26 aprile 1957, n. 818. Violazione e falsa applicazione di norme dei contratti
collettivi (art. 360, comma 1, n. 3, cpc), con riferimento agli artt. 46 e 17 del CCNL 9.7.1996 per
i dipendenti da imprese elettriche rimasto in vigore nel CCNL 2.7.2001 e nel CCNL 18.7.2006 violazione e falsa applicazione degli arti. 115 e 116 cpc. Omessa e insufficiente motivazione su un
punto essenziale della controversia. La ricorrente censura la statuizione della Corte d’Appello di
Milano circa le condizioni di stabilità dell’impiego. In primo luogo si deduce che le norme
collettive dedicate al recesso , come riconosciuto dal giudice di appello, hanno la caratteristica di
riguardare esclusivamente ipotesi di recesso inerenti la persona del lavoratore, configurandosi come
chiara condizione restrittiva della possibilità di recesso Dal riferimento all’esodo volontario non
potrebbe peraltro trarsi alcun elemento interpretativo che possa consentire di estendere, attraverso la
interpretazione delle norme contrattuali collettive, la casistica delle possibilità di recesso ad altre
ipotesi peraltro neppure individuate dal giudice di appello . Tale esodo presente nella
contrattazione collettiva non sarebbe altro che un esodo concordato tra le parti del contratto che dà
luogo ad una risoluzione consensuale del rapporto, a fronte del riconoscimento al lavoratore di un
corrispettivo. Non essendo previsto nella contrattazione e nella legge alcun caso già definito di
possibile recesso a fronte del riconoscimento di una incentivazione che possa attuarsi
indipendentemente dalla volontà del lavoratore.
Con il quinto motivo di ricorso la società deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 comma
8 L. n. 335 del 1995 , con riferimento alle indicazioni del Consiglio di Stato nel Parere 8 febbraio
2006 ed alla Circ. INPS n. 63/2005 nonché omessa motivazione circa un punto decisivo della
controversia Censura , in sintesi , la decisione impugnata per avere affermato la decorrenza
dell’obbligo contributivo in periodo antecedente al maggio 2005 , epoca della circolare INPS .
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derivate dall’ENEL, dal momento che essa ricorrente nasceva nell’ambito di un riassetto voluto

Come si evince dal richiamo alla previsione di cui al comma 8 dell’art. 3 L. n. 335 del 1995 , parte
ricorrente sembra sostenere che tale circolare non aveva esclusivamente valenza interpretativa ma
costituiva una variazione di inquadramento adottata con provvedimento avente efficacia generale
riguardante intere categorie di lavoratori ed in quanto tale, in base al disposto del comma 8 dell’art.
3 L. n. 335 del 1995, era destinata a produrre effetti nel rispetto del principio della non retroattività,
dalla data fissata dall’istituto previdenziale
della legge 23 dicembre 2000, n. 388. nonché omessa motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio. Espone la ricorrente che quanto alle sanzioni civili, A2A Trading , nei
giudizi di merito ha sostenuto, in subordine, che si tratterebbe, nel caso in esame, di oggettive
incertezze derivanti da contrastanti orientamenti amministrativi e giurisprudenziali, con la
conseguente applicazione delle sanzioni ridotte previste dall’art. 116, comma 15, della legge n. 388
del 2000. Censura quindi la statuizione della Corte d’Appello di Milano che ritiene condizione
necessaria per l’applicazione di tale regime l’avvenuto pagamento dei contributi interessati, nella
specie non avvenuto. Vi sarebbe, dunque, vizio di motivazione, attesa la presenza di contrastanti
orientamenti amministrativi in materia.
I primi quattro motivi di ricorso devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro
connessione.
Ed infatti, pur vertendo i primi due sulle statuizioni relative a CIG, CIGS e mobilità ed il terzo ed il
quarto sul contributo per la disoccupazione, assume rilievo comune statuire, ai fmi previdenziali,
se la natura privata della società per azioni si colori diversamente in presenza della
partecipazione pubblica alla spa (che si rinviene nel caso di esercizio di un servizio pubblico locale
in house) o dell’influenza dominante che può essere esercitata rispetto ad una spa dalla pubblica

amministrazione.. I suddetti motivi non sono fondati e devono essere rigettati. . Questa Corte, con le
sentenze nn.19087, 20818, 20819, 22318 del 2013, ha già avuto modo di pronunciarsi con
riguardo ad analoga fattispecie, confermando, con articolate motivazioni, l’orientamento secondo
cui la società partecipata non può identificarsi con “le imprese industriali degli enti pubblici,
trattandosi di società di natura essenzialmente privata nella quale l’amministrazione pubblica
esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, dovendosi altresì
escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema
societario, che la mera partecipazione — per maggioranza , ma non totalitaria, da parte dell’ente
pubblico sia idonea a determinare la natura dell’organismo attraverso cui la gestione del servizio
pubblico viene attuata”.

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Con il sesto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116, comma 15, lettera a),

Questa Corte ha, quindi, affermato, nelle sentenze sopra citate, che la forma societaria di diritto
privato è per l’ente locale la modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta
dall’ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell’obiettivo
pubblico è caratterizzato dall’accettazione delle regole del diritto privato. Quindi le società per
azione a partecipazione pubblica vanno escluse dal concetto di “imprese pubbliche”.
A tale orientamento, che si condivide, questa Corte intende dare continuità, anche in ragione delle
normativa comunitaria e nazionale promuova forme e strumenti di natura essenzialmente non
autoritativa per la gestione dei servizi pubblici locali in house (rispetto alla quale, peraltro, si sta
progressivamente sviluppando una attività, a carattere strumentale, di costumer care) e di attività
di impresa da parte delle amministrazioni pubbliche, con la conseguente assunzione, da parte delle
relative società per azioni, della qualità di datori di lavoro di diritto privato ai fini previdenziali.
Storicamente, può ricordarsi che il fenomeno delle società a partecipazione pubblica ha visto lo
Stato assumere la veste di imprenditore, in particolare, o a partire dagli anni trenta del novecento,
per poi passare negli anni novanta alla privatizzazione formale di enti pubblici, sino a pervenire a
fenomeni di estemalizzazione di attività dell’amministrazione, al fine di rendere meno farraginosa
l’azione amministrativa (cfr., Cass., S.U., ordinanza n. 19667 del 2003).
Come si vedrà, certo non è senza rilievo l’oggetto di servizio pubblico locale dell’attività esercitata
mediante società di diritto privato, e la partecipazione pubblica alle stesse, ma a fini diversi da
quelli previdenziali che vengono qui in rilievo (versamento contributi CIG CIGS, mobilità,
disoccupazione), preoccupandosi, il legislatore comunitario e quello nazionale che non vengano
lese le dinamiche della concorrenza nel mercato e per il mercato, introducendo misure cd. antitrust,
misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura,
eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità
imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio
delle attività economiche; misure per favorire l’apertura del mercato alla concorrenza. garantendo i
mercati ed i soggetti che in essi operano (cfr. Corte cost., sentenza n. 430 del 2007).
Ciò tuttavia, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, non è
dirimente ai fini previdenziali in esame, atteso che proprio il passaggio della gestione dei servizi
pubblici locali da soggetti pubblici (quali le aziende municipalizzate) a soggetti privati, anche se
partecipati, incide sulla disciplina dei rapporti di lavoro in modo significativo, e fa venir meno le
condizioni a cui il legislatore ha connesso l’esclusione dal pagamento della contribuzione in
questione. Tanto premesso, si osserva che la Corte d’Appello di Milano non qualifica l’attività
svolta dalla ricorrente, attribuendo rilievo alla forma societaria di diritto privato della stessa . La
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ulteriori argomentazioni di seguito illustrate, che pongono in evidenza come l’evoluzione della

ratio decidendi della pronuncia, dunque, va ravvisata nel ritenere irrilevante la partecipazione

pubblica in una società di diritto privato, ai fini del regime previdenziale da applicare a detta spa.
Con riguardo all’oggetto dell’attività svolta dalla ricorrente, deve essere considerato che, ai sensi
dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 164 del 2000, l’attività di distribuzione di gas naturale è attività
di servizio pubblico. L’art. 2, comma n),

del medesimo d.lgs., a sua volta, definisce

“distribuzione”: il trasporto di gas naturale attraverso reti di gasdotti locali per la consegna ai
dicembre 2007, resa nei procedimenti riuniti C-463104 e C-464104, citata dalla ricorrente,
nell’esaminare il tema del diritto di nomina diretta degli amministratori da parte del Comune di
Milano, premetteva che AEM spa operava nel settore dei servizi pubblici di distribuzione del gas e
dell’energia elettrica affidatole in gestione dal suddetto Comune.3.Tenuto conto della ratio
decidendi della pronuncia della Corte d’Appello di Milano e dei motivi di ricorso, un compiuto

vaglio di questi ultimi, in relazione alla normativa di riferimento, richiede di soffermarsi sul rilievo
che assume l’esercizio di un pubblico servizio locale da parte di società per azioni partecipata,
come avviene nel caso di specie. A sostegno delle proprie tesi difensive, la ricorrente ha fatto
riferimento alla disciplina delle spa che esercitano servizi pubblici locali, all’impresa pubblica, alle
peculiarità del proprio modello societario, anche richiamando la già citata sentenza della Corte di
giustizia, cause C-464/04 e C-463/04. Tali modelli, così come le cd. imprese strumentali,
presentano molteplici peculiarità e pongono diverse problematiche proprio con riguardo agli effetti
della partecipazione pubblica, ma a fini diversi da quelli della contribuzione previdenziale, per la
quale permane l’esclusivo rilievo del carattere privato della società, come si vedrà dalla
ricognizione normativa che segue.
L’assetto originario dei servizi pubblici locali è stato delineato dall’art. 22 della legge 142 del
1990, poi confluito negli artt. 112 e 113 del d.lgs. n. 267 del 2000, recante il Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali.
L’art. 112 del T.U. afferma che gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono
alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte
alla realizzazione di fini sociali, nonché a promuovere lo sviluppo economico e civile delle
comunità locali.
L’art. 113, così come formulato originariamente, prevedeva, indipendentemente dalla rilevanza
economica o meno dei servizi, la possibilità per gli enti locali sia di ricorrere alla gestione in
economia sia di affidare la gestione dei servizi pubblici locali in concessione anche a società per
azioni a prevalente capitale pubblico.

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clienti. A ciò si aggiunga che non è senza significato che la Corte di Giustizia nella sentenza del 6

Successivamente l’art. 35 della legge n. 448 del 2001 sostituiva l’art. 113 ed introducendo l’art.
113-bis, provvedendo in tal modo a distinguere le formule da adottare per la gestione dei servizi

pubblici locali di rilevanza industriale da quelle per la gestione dei servizi pubblici locali privi di
rilevanza industriale.
Tale riforma era stata resa necessaria al fine di assicurare l’apertura del mercato dei servizi pubblici
di rilevanza industriale ed il rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci,
affidava la gestione dei servizi di rilevanza industriale esclusivamente a società di capitali,
abrogando la gestione in economia che restava invece possibile per i servizi pubblici privi di
rilevanza industriale. Tale novella veniva seguita da altri interventi legislativi, con una nuova
formulazione dell’art. 113 del d.lgs. 267 del 2000 ad opera dell’art. 14 del d.l. 269 del 2003 e
dell’art. 4 della legge n. 350 del 2003.
Dette norme sostituivano il criterio della rilevanza industriale con quello della rilevanza
economica. In proposito si può ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 325 del 2010 e cioè che in àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione
«servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse
economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione europea. Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima
espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria
(ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla

Commissione europea, emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata
all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo»
(Corte costituzionale, sentenza n. 272 del 2004).4. Entrambe le suddette nozioni, interna e
comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che: a) è reso mediante un’attività economica
(in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come qualsiasi attività che consista
nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato; b) fornisce prestazioni considerate necessarie
(dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di
cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni. Le due nozioni, inoltre, assolvono l’analoga
funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la
concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica
(citata sentenza Corte cost. n. 325 del 2010).
Può osservarsi come la normativa comunitaria ammette la gestione diretta del SPL da parte
dell’autorità pubblica nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di
concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara
9

della libera prestazione dei servizi e soprattutto della libera concorrenza; infatti, il novellato art. 113

ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art.
106 TFUE).
Successivamente al richiamato intervento del Giudice delle Leggi, è poi intervenuto l’art. 23-bis
del d.l. 112 del 2008, convertito dalla legge n.133 del 2008. La disciplina dettata da tale norma si
caratterizzava per il fatto che fissava una normativa generale di settore, volta a restringere, rispetto
al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto
solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui regolamentazione veniva,
peraltro, demandata ad un regolamento governativo, poi adottato con il d.P.R. 7 settembre 2010 n.
168. Tale disciplina superava il vaglio di legittimità costituzionale (sentenza Corte cost. n. 325 del
2010), ma veniva abrogata dal referendum popolare dell’ 11 e 12 giugno 2011, realizzandosi,
pertanto, l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis
che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle
di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso
il servizio idrico)» (sentenza Corte cost. n. 24 del 2011).
L’art. 4 del d.l. 138 del 2011 riprendeva in larga parte la disciplina abrogata per via referendaria,
sollevando dubbi di legittimità costituzionale confermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza
n. 199 del 2012, atteso il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare
desumibile dall’art. 75 Cost.
All’azzeramento della normativa contenuta nell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con
modificazioni, dalla 1. n. 148 del 2011, ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del
2012, è conseguito un effetto di semplificazione; con la conseguente applicazione, nella materia dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica, oltre che della disciplina di settore non toccata dalla
detta sentenza, della normativa e dei principi generali dell’ordinamento europeo, nonché di quelli
affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e di quella nazionale. Così riepilogato il
quadro dì riferimento normativo comunitario e nazionale, si deve rilevare come una prima
definizione giurisprudenziale della figura dell’in house, è fornita dalla sentenza della Corte di
giustizia delle Comunità europee del 18 novembre 1999, causa C-107/98 — Teckal.
In quella sede si è affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti
nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi: a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul
soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi; b) il soggetto
aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di
appartenenza.

10

e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite

Con la sentenza n. 50 del 2013, la Corte costituzionale ha, poi, affermato che: la Corte di giustizia
dell’Unione europea ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle autorità pubbliche
degli Stati membri “auto produrre” beni, servizi o lavori, mediante il ricorso a soggetti che,
ancorché giuridicamente distinti dall’ente conferente, siano legati a quest’ultimo da una “relazione
organica” (il cd. affidamento in house). Allo scopo di evitare che l’affidamento diretto a soggetti in
house si risolva in una violazione dei principi del libero mercato e quindi delle regole

stessa Corte ha affermato che è possibile non osservare le regole della concorrenza a due
condizioni. La prima è che l’ente pubblico svolga sulla società in house un controllo analogo a
quello esercitato sui propri servizi; la seconda è che il soggetto affidatario realizzi la parte più
importante della propria attività con l’ente pubblico (citata sentenza 18 novembre 1999, in causa C107/98, Teckal).
Come si può rilevare, dunque, la finalizzazione della spa alla gestione in house di un servizio
pubblico locale, come nel caso di specie, non muta la natura giuridica privata della società con
riguardo alle ricadute previdenziali dei rapporti di lavoro, ma assume rilievo nell’ordinamento
nazionale e comunitario con riguardo al mercato e alla tutela della concorrenza. Né argomenti
possono desumersi dal richiamo della nozione di impresa pubblica che costituisce anch’essa
categoria all’attenzione del legislatore comunitario, che se ne occupa all’art. 86 del Trattato e poi
negli artt. 101, 102 e 103 sul divieto di facilitazioni finanziarie. Il legislatore comunitario ha, infatti,
previsto, e sotto questo aspetto l’ha disciplinata, che essa non fosse sottratta, in virtù dei rapporti
con i pubblici poteri, alle regole del mercato imposte, indipendentemente dalla loro appartenenza, a
tutte le imprese: regole che valgono per tutti gli operatori economici e non ammettono deroghe per
le imprese pubbliche. Non è senza significato, in proposito, che i caratteri distintivi dell’impresa
pubblica devono essere ricercati nelle direttive sulla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli
Stati membri e le loro imprese pubbliche (direttiva 80/723 della Commissione, successivamente
modificata dalle direttive 2000/52 e 2005/81, ora codificate nella direttiva 2006/111), che hanno
posto l’accento sull’esigenza di assicurare la parità di trattamento tra imprese pubbliche e private e,
a questi fini, sulla necessità di una compiuta trasparenza circa le relazioni finanziarie intercorrenti
tra poteri pubblici nazionali e imprese pubbliche, in modo da distinguere chiaramente il ruolo svolto
dalla pubblica amministrazione quale potere pubblico e quello svolto dalla stessa quale privato.
La qualifica di un soggetto come impresa pubblica prescinde perciò dal fine perseguito, mentre
assume valenza decisiva il legame tra l’impresa e la pubblica amministrazione (intesa nella sua
accezione più ampia, propria alla materia degli appalti, comprensiva perciò anche dell’organismo di
diritto pubblico) “dominante”. Anche in questo caso, occorre rilevare, comunque, che il peculiare
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concorrenziali, che impongono sia garantito il pari trattamento tra imprese pubbliche e private, la

regime della cd. impresa pubblica spa, non può determinare, ex sé,

ricadute sul regime

previdenziale della spa medesima. Infine si rileva come esuli, altresì, dal caso di specie la nozione
di società pubblica strumentale, attesa l’esclusione “dei servizi pubblici locali” sancita dall’art. 13
del d.l. n. 223 del 2006. La stessa destinata a produrre beni e servizi finalizzati alle esigenze
dell’ente pubblico partecipante, si distingue dalle società a partecipazione pubblico-privata,
esercitate secondo modelli paritetici, in cui il ruolo degli enti territoriali corrisponde a quello di un
Così ripercorso il quadro normativo di riferimento circa le modalità di esercizio di un servizio
pubblico locale tramite spa, rileva la Corte che non sussistono le condizioni per escludere le
contribuzioni per cui è causa. . L’art. 3, comma 1, del d.lgs. C.P.S. n. 869 del 1947, come
modificato, ha escluso da dall’applicazione delle norme sulla cassa integrazione guadagni una serie
di imprese e, fra queste, “le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate , e dello
Stato”.
In ragione di quanto sopra esposto, come già ritenuto da questa Corte, (Cass. nn. 20818, 20819,
22318, 11417 del 2013, Cass., n. 14847 el 2009), la società partecipata non può identificarsi con
le imprese industriali degli enti pubblici esonerate, trattandosi di società di natura essenzialmente
privata nella quale l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli
strumenti di diritto privato, e dovendosi escludere, in mancanza di una disciplina derogatoria
rispetto a quella propria dello schema societario, che la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma
non totalitaria – da parte dell’ente pubblico sia idonea a determinare la natura dell’organismo
attraverso cui la gestione del servizio pubblico viene attuata.
Quanto all’indennità di disoccupazione va ricordato che l’art. 40, comma 1, n. 2, del RD.L. n.
1827 del 1935, sanciva che non sono soggetti all’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione
involontaria “gli impiegati, agenti e operai stabili di aziende pubbliche, nonché gli impiegati, agenti
e operai delle aziende esercenti pubblici servizi e di quelle private, quando ad essi sia garantita la
stabilità d’impiego”.L’art. 32 della legge n. 264 del 1949, ha poi stabilito, al comma 1, lettera b) ,
che l’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione era esteso agli impiegati, anche delle
pubbliche amministrazioni, cui non fosse garantita la stabilità dell’impiego, senza limite di
retribuzione. L’art. 36 del d.P.R. n. 818 del 1957, nel testo originario, stabiliva che ai fini
dell’applicazione dell’articolo 40, n. 2, del d.P.R. n. 1827 del 1935 e dell’art. 32, lettera b) , della
legge n. 264 del 1949, la sussistenza della stabilità dell’impiego, quando non risultava da norme
regolanti lo stato giuridico e il trattamento economico del personale dipendente dalle pubbliche
amministrazioni, dalle aziende pubbliche e dalle aziende esercenti pubblici servizi, era accertata in
sede amministrativa su domanda del datore di lavoro, con provvedimento del Ministro del lavoro e
12

azionista di una società per azioni (cfr., Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 gennaio 2013, n. 122).

la previdenza sociale decorrente a tutti gli effetti dalla data della domanda medesima. Detto art. 36 è
stato modificato dall’art. 20, comma 5, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla legge n. 133 del
2008, che ha soppresso le parole “dell’articolo 40, n.2, del d..P.R n. 1827 del 1935”. Il medesimo
art. 20 del d.l. n. 112 del 2008, al comma 4, ha abrogato l’art. 40, n. 2 del R.D.L. n. 1827 del 1935,
prevedendo (al successivo comma 5) che l’estensione dell’obbligo assicurativo, di cui al comma 4,
si applicava con effetto dal primo periodo di paga decorrente dal 1° gennaio 2009. L’art. 40 è stato
2012. Le richiamate sopravvenienze normative non incidono sulla fattispecie in esame atteso il
periodo di contribuzione in contestazione (dicembre 2007 e settembre /novembre 2007). Così
riepilogato la disciplina di settore, non è fondato il motivo con il quale, nel censurare la
statuizione della Corte d’Appello di Milano, la ricorrente tende a far derivare l’esonero della
richiesta di contribuzione da un provvedimento emesso dall’Autorità amministrativa in favore di
AEM, in quanto Io stesso dovrebbe ritenersi produrre effetto esonerativo anche per AEM spa e per
le società da essa derivate, per scorporo ovvero per cessione di ramo d’azienda. Come correttamente
ritenuto dalla Corte d’Appello, nel caso di specie, detto provvedimento di accertamento era legato
alla condizione dell’Azienda esaminata in relazione alla soggettività specifica del datore di lavoro,
come esistente al momento dell’accertamento ed alle condizioni ivi verificate, con impossibilità di
trasferire detto provvedimento in capo ad altri soggetti economici (Cass,, n. 20818 del 2013).
Peraltro, in presenza di trasferimento d’azienda, trova applicazione l’art. 2112 cc, che persegue lo
scopo di garantire ai lavoratori la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore
assicurando la continuità del rapporto di lavoro nei confronti dell’azienda, o alla parte di essa,
trasferita ed esistente al momento del trasferimento. È estranea, invece, alla tutela da essa offerta la
garanzia di continuità delle prerogative della struttura aziendale riconosciute alla parte
imprenditoriale dall’autorità amministrativa, atteso che dette prerogative sono condizionate alla
permanenza dei requisiti richiesti dalla legge per il loro riconoscimento. Sempre con riguardo al
requisito della stabilità dell’impiego, passando all’esame del motivo di ricorso attinente alla
violazione delle disposizioni collettive, come questa Corte ha più volte affermato, nel giudizio di
legittimità le censure relative all’interprelazione di un contratto o di un accordo collettivo offerta da
parte del giudice di merito possono essere prospettate sotto il profilo della mancata osservanza dei
criteri legali di ermeneutica contrattuale o della insufficienza o contraddittorietà della motivazione,
mentre la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella
sentenza impugnata non riveste alcuna utilità ai fini dell’annullamento di quest’ultima (da ultimo,
Cass., n. 14318 del 2013). La denuncia della violazione delle regole di ermeneutica richiede una
specifica indicazione, e cioè la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata la violazione
13

poi abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall’art. 2, comma 69, lettera c), della legge n. 92 del

anzidetta, non potendo le censure risolversi, in contrasto con la qualificazione loro attribuita dalla
parte ricorrente, nella mera contrapposizione di un’interpretazione diversa da quella criticata. La
Corte territoriale ha, invero, correttamente interpretato la disciplina del recesso prevista dalla
contrattazione collettiva, ricostruendo l’intenzione delle parti sulla base delle parole e della loro
connessione e interpretando il dato testuale degli artt. 51 e 21 CCNL attraverso un esame delle
clausole contrattuali complessivamente rilevanti in materia, mettendo in evidenza come si vertesse
ricorso al recesso per giustificato motivo oggettivo come generalmente regolato dalla legge.
Il quinto motivo di ricorso è inammissibile. In primo luogo , in violazione del disposto dell’art. 366
n. 6 cod. proc. civ. , parte ricorrente omette di indicare la sede processuale in cui i documenti
invocati e cioè la circolare INPS n. 63 del 2005 ed il parere del Consiglio di Stato in data 8
febbraio 2006 sono stati prodotti . A riguardo è opportuno ricordare , in tema di indicazione
specifica degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, richiesta a pena
d’inammissibilità dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., che le sezioni unite di questa Corte, dopo
aver affermato che detta norma è finalizzata alla precisa delimitazione del thema decidendum, attraverso
la preclusione per il giudice di legittimità di porre a fondamento della sua decisione risultanze diverse da
quelle emergenti dagli atti e dai documenti specificamente indicati dal ricorrente, onde non può

ritenersi sufficiente in proposito il mero richiamo di atti e documenti posti a fondamento del ricorso
nella narrativa che precede la formulazione dei motivi ( Cass. ss.uu. n. 23019 del 2007 ), hanno
ulteriormente chiarito che il rispetto delle citata disposizione del codice di rito esige che sia
specificato in quale sede processuale nel corso delle fasi di merito il documento, pur eventualmente
individuato in ricorso, risulti prodotto, dovendo poi esso essere anche allegato al ricorso a pena
d’improcedibilità, in base alla previsione del successivo art. 369, comma 2, n. 4 (cfr. ss.uu. n.
28547 del 2008); con l’ulteriore precisazione che, qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi
di merito e si trovi nel fascicolo diparte, l’onere della sua allegazione può esser assolto anche
mediante la produzione di detto fascicolo, ma sempre che nel ricorso si specifichi la sede in cui il
documento è rinvenibile ( Cass. ss.uu. n. 7161 del 2010 e, con particolare riguardo al tema
dell’allegazione documentale, ss.uu. n. 22726 del 2011). Occorre ancora rilevare, quale ulteriore
profilo di inammissibilità del motivo di ricorso in esame, il fatto che, come sembra doversi
desumere dal richiamo al disposto del comma 8 dell’art. 3 L. n. 335 del 1995, l’errore imputato alla
sentenza di primo grado è di non avere considerato la circolare dell’INPS quale provvedimento di
variazione di inquadramento ai fini previdenziali. In conseguenza, posto che la questione non era
stata espressamente affrontata dal giudice di appello, costituiva onere della società ricorrente
allegare non solo l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il
i4

14

in ipotesi di recesso inerenti la persona del lavoratore, non potendosi per ciò solo ritenere escluso il

principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare in quale atto del giudizio
precedente ciò era avvenuto onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale
asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.” ( Cass.n. 1435 del 2013 , n. 6254 del

2004, n. 22540 del 2006). Parte ricorrente si è ,invece, sottratta a tale onere.
L’ultimo motivo di ricorso non è fondato La Corte d’Appello di Milano ha ritenuto la non

applicabilità del comma 15, lettera a), dell’art. 116 della legge n. 388 del 2000, che stabilisce un
regime più favorevole per il calcolo delle sanzioni civili, “per le oggettive incertezze connesse a
contrastanti ovvero sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali o determinazioni
amministrative sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede
giurisdizionale o amministrativa in relazione alla particolare rilevanza delle incertezze interpretative
che hanno dato luogo alla inadempienza”, atteso che condizione per ottenere l’applicazione del più
favorevole regime di calcolo delle somme aggiuntive, è l’avvenuto versamento dei contributi
interessati, dal momento che tale circostanza non si era verificata nel caso di specie. Tale
statuizione trova riscontro nella lettera della legge, atteso che il citato comma 15, pone come
premessa per “la riduzione delle sanzioni civili di cui al comma “, in presenza delle suddette
incertezze, “l’integrale pagamento dei contributi e dei premi dovuti alle gestioni previdenziali e
assistenziali”., circostanza questa, in alcun modo contrastata dalla ricorrente.
Consegue l’integrale rigetto del ricorso.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 92 cod. proc. civ. per compensare tra le parti costituite le
spese di giudizio in ragione della complessità delle questioni sottoposte all’esame della Corte.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese tra le parti costituite.

Roma, 15 ottobre 2013

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