Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7496 del 17/03/2021

Cassazione civile sez. II, 17/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 17/03/2021), n.7496

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25375-2019 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’avvocato LUANA NICOLUSSI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, V1A DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

nonchè contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE VERONA;

– intimata –

avverso il decreto di rigetto del TRIBUNALE di TRENTO, depositato il

05/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/12/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

RITENUTO

che la vicenda qui al vaglio può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– il Tribunale di Trento disattese l’opposizione proposta da M.S., in contraddittorio con il Ministero dell’Interno e la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, avverso il provvedimento di diniego in sede amministrativa della domanda di protezione dal predetto avanzata;

– il richiedente aveva narrato che trovandosi a bordo, per motivi di lavoro, di un autocarro caricato di sabbia, era rimasto coinvolto in una lite, nel corso della quale gli aggressori avevano fatto prendere fuoco all’automezzo e con dei tizzoni ardenti avevano aggredito lui e l’altro compagno di lavoro; fuggito a piedi, era ritornato con la polizia, la quale si era limitata a fotografare l’autocarro e il collega di lavoro avvolti dalle fiamme; in seguito era stato picchiato dal datore di lavoro e aveva paura a ritornare in (OMISSIS) temendo la violenta reazione del datore di lavoro e dei parenti dell’uomo deceduto a causa delle ustioni riportate;

– il Tribunale giudicava la narrazione incongruente, perchè generica, incoerente e non circostanziata (non appariva plausibile l’allontanamento a piedi, nonostante la presenza di una pluralità di aggressori, che i poliziotti si fossero limitati a scattare foto dell’uomo avvolto dalle fiamme, senza cercare di salvarlo e di sedare l’incendio; l’appartenenza del datore di lavoro a una non meglio specificata setta, della quale non sapeva indicare alcunchè d’individualizzante, risultava irrimediabilmente lacunosa; non corrispondeva l’itinerario del viaggio che lo aveva condotto in Italia con quanto indicato nel modulo C3, nè corrispondevano le date; nè, infine, le cicatrici esibite costituivano prova univoca di riscontro);

– quanto alla situazione interna del Paese di provenienza ((OMISSIS), (OMISSIS)), consultate le COI aggiornate, escludeva sussistere una situazione di violenza diffusa e incontrollata;

ritenuto che il richiedente ricorre sulla base di due motivi avverso la statuizione del Tribunale e che il Ministero resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia vizio motivazionale, nonchè violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, degli artt. 2, 4, art. 14, lett. c), in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per non avere il Tribunale tenuto conto della nota permeabilità alla corruzione della polizia (OMISSIS), nè della situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato nel Paese, nè che il ricorrente aveva fatto ogni sforzo per circostanziare la domanda, è inammissibile per il concorrere delle seguenti ragioni:

a) la doglianza, piuttosto che confrontarsi con il costrutto motivazionale della decisione, propone una lettura alternativa dei fatti, sia riguardo alla vicenda individuale, che alla situazione in (OMISSIS), e, quanto al primo profilo, appare evidente che il giudizio di non credibilità espresso dal Tribunale trova conferma nella convergenza di una pluralità di evidenze, nel mentre la censura si limita a dubitare solo di alcuni aspetti di tali evidenze (solo a titolo di esempio, resta inspiegabile la fuga a piedi a una pluralità di feroci aggressori, la condotta della polizia al suo arrivo, che non può giustificarsi con la sua ipotizzata corruttibilità – perchè mai fare le foto? -, l’assenza di qualunque, pur sommaria, utile indicazione a riguardo della setta, della quale il datore avrebbe fatto parte, la paura di subire violenze da parte del datore di lavoro e dei parenti della vittima, visto che anch’egli era rimasto vittima dell’aggressione);

b) quanto al secondo profilo, la decisione ha espresso motivato giudizio, dopo aver consultato le COI aggiornate e, alla luce di quanto acquisito, è in linea con l’orientamento di questa Corte, la quale ha avuto modo di chiarire che ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria; il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6, n. 18306, 08/07/2019, Rv. 654719);

c) in conclusione, piuttosto palesemente, le critiche, nella sostanza, risultano inammissibilmente dirette al controllo motivazionale, in spregio al contenuto del vigente art. 360 c.p.c., n. 5 in quanto, la deduzione del vizio di violazione di legge non determina, per ciò stesso, lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, occorrendo che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459);

considerato che anche il secondo motivo, con il quale il ricorrente denunzia nullità della sentenza, vizio motivazionale, nonchè “falsa ed erronea interpretazione e/o applicazione” del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19, artt. 3 e 25 Convezione edu e artt. 2 e 10 Cost., per non essere stato riconosciuto il diritto alla protezione umanitaria, nonostante la produzione attestante la prestazione di attività lavorativa, in epoca anteriore all’inizio del tirocinio, per essere stata illogicamente valutata la lettera di referenze depositata, e, infine, per il fatto che il Tribunale non aveva in alcun modo apprezzato la soggettiva vulnerabilità del richiedente, venendo meno al dovere di far luogo alla comparazione tra la raggiunta integrazione in Italia e le condizioni di vita che avrebbero aspettato l’immigrato in caso di rimpatrio, non supera il vaglio d’ammissibilità, dovendosi osservare che:

a) il Tribunale ha escluso che il ricorrente fosse “positivamente inserito nella società italiana”, avendo svolto solo attività di volontariato e un tirocinio formativo, senza aver mai stipulato un contratto di lavoro, sia pure a tempo determinato; stipulazione che non appariva certa neppure all’esito del tirocinio poichè il ricorrente non aveva padronanza delle lingua italiana, nè era titolare di patente di guida, conoscenza e titolo necessari al fine di ottenere il posto di lavoro di cui alla lettera di referenze;

b) il giudizio sull’assenza di una qualificata soggettiva situazione di vulnerabilità non è in questa sede censurabile, avendo il Giudice del merito tenuto conto dei parametri rilevanti ed effettuato la comparazione del caso;

c) a ciò deve soggiungersi che questa Corte, a partire dalla sentenza n. 4455/2018, ha affermato il principio secondo il quale il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Rv. 647298);

d) a tale principio la Corte locale si è attenuta, avendo effettuato il giudizio di comparazione, all’esito del quale ha escluso la sussistenza del presupposto della vulnerabilità; non si tratta, all’evidenza, di garantire all’immigrato una qualità di vita del tutto equivalente a quella fruibile in Italia, ma, ben diversamente, d’impedire che al rientro possa ritrovarsi in una condizione d’intollerabile – cioè al di sotto del minimo comune imposto dagli strumenti internazionali – deprivazione di tali diritti; inoltre, l’integrazione deve essere tale da assicurare all’interessato autosufficienza economica e piena condivisione del modello sociale; è appena il caso di soggiungere che, nel caso in esame, le condizioni predette non sussistono;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che la giurisprudenza della Corte è ormai costante nel ritenere che l’art. 366 c.p.c., n. 4 si applichi, specularmente, anche al controricorso (Cass. n. 12171/09 ed ivi richiamo a Cass. n. 5400/06; cfr. anche Cass. nn. 6222/12 e 3421/97); ciò, tuttavia non significa affatto pretendere, al fine di valutarne l’ammissibilità, che il controricorso debba contenere dei propri “motivi” specifici e speculari rispetto a quelli del ricorso, nè tanto meno che contrattacchi la decisione con altre autonome argomentazioni, ma semplicemente esigere che esso contenga una sia pur minima confutazione del ricorso, in qualunque modo articolata, purchè la sua giustapposizione alla vicenda oggetto di ricorso non sia affidata alla sola deduzione logica della Corte sulla sola base dell’indicazione dei dati di riferimento della causa (numero d’iscrizione a ruolo, nomi delle parti, decisione impugnata);

che, pertanto, specificato in punto di diritto che: “ove il controricorso (…), a dispetto della indicazione della causa alla quale si riferisce, risulti privo di forza individualizzante, constando di uno schema avversativo di genere, sprovvisto cioè di concreta attitudine di contrasto, attraverso l’esposizione di argomenti specificamente indirizzati a quella vicenda e a quella decisione e posti a confronto di quel ricorso, non assolve al suo scopo”, deve reputarsi che il controricorso qui al vaglio sia estraneo al genus, e per esso non può essere riconosciuto il diritto al rimborso delle spese; considerato che sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto;

considerato che di recente questa Corte a sezioni unite, dopo avere affermato la natura tributaria del debito gravante sulla parte in ordine al pagamento del cd. doppio contributo, ha, altresì chiarito che la competenza a provvedere sulla revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello Stato in relazione al giudizio di cassazione spetta al giudice del rinvio ovvero – per le ipotesi di definizione del giudizio diverse dalla cassazione con rinvio (come in questo caso) – al giudice che ha pronunciato il provvedimento impugnato; quest’ultimo, ricevuta copia della sentenza della Corte di cassazione ai sensi dell’art. 388 c.p.c., è tenuto a valutare la sussistenza delle condizioni previste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136 per la revoca dell’ammissione (S.U. n. 4315, 20/2/2020).

PQM

dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2021

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