Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7495 del 17/03/2021

Cassazione civile sez. II, 17/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 17/03/2021), n.7495

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – rel. Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23366-2019 proposto da:

S.S., rappresentato e difeso dall’avvocato MARIAGRAZIA

STIGLIANO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 2754/2019 del TRIBUNALE di

LECCE, depositato il 19/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/12/2020 dal Presidente Dott. FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

S.S., cittadino (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Lecce avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di aver lavorato in patria alle dipendenze d’un commerciante, che in realtà trafficava in sostanze stupefacenti; e di aver intrecciato una relazione con la figlia di quest’ultimo, il quale, per timore che l’odierno richiedente rivelasse a terzi il reale commercio di lui, l’aveva falsamente accusato di un furto.

Con decreto n. 2754/19 del 19.6.2019 il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo per plurime ragioni che i fatti narrati fossero inverosimili; che la regione di provenienza del richiedente non fosse interessata da una situazione di violenza indiscriminata; e che, quanto alla protezione umanitaria, il richiedente non aveva documentato una sua sufficiente integrazione in Italia, dove si trovava dal 2016, nè aveva dimostrato di svolgere alcuna attività lavorativa a carattere regolare. Egli, inoltre, non presentava patologie di rilievo nè una situazione familiare che potesse integrare profili di vulnerabilità.

Avverso tale pronuncia il richiedente propone ricorso, affidato a tre motivi. Vi resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1. c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Col primo motivo parte ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7, 8 e art. 14, lett. c) e art. 27 per non aver il Tribunale esercitato il potere di cooperazione istruttoria, necessario a verificare la reale situazione socio-politica del (OMISSIS). Parte ricorrente deduce, inoltre, che tanto la Commissione territoriale quanto il Tribunale avrebbero errato nell’identificare il distretto di provenienza del richiedente ((OMISSIS), invece di (OMISSIS)), il che inficerebbe l’intero iter procedimentale. Sostiene, altresì, che altri e più recenti report di fonti qualificate descrivono il (OMISSIS) come Paese tra gli ultimi al mondo quanto a rispetto dei diritti umani, sicurezza individuale, livello di corruzione, funzionamento della giustizia e indipendenza della magistratura.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

Premesso che l’esatta individuazione della regione di provenienza del richiedente è una pura quaestio facci, come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, va osservato che in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona. Qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (cfr. nn. 16925/18, 28862/18, 15794/19, 11924/20, 8367/20, 24361/20, 8819/20 e 1234/21).

Nella specie, il Tribunale ha motivatamente ritenuto inattendibile quanto narrato, in considerazione del carattere vago, superficiale e contraddittorio delle dichiarazioni del richiedente su circostanze importanti, e non già su aspetti di dettaglio. Ne consegue che, non scalfitone il giudizio d’inattendibilità intrinseca (che non forma oggetto nè di questo nè dei restanti motivi), non era dovuta la cooperazione istruttoria di cui parte ricorrente lamenta il mancato esercizio, nè ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, nè in funzione della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) questa come quello avente carattere precipuamente personale e individualizzato. Di riflesso, neppure ha rilievo l’esistenza di altri e più recenti report di fonti qualificati sulle condizioni generali del (OMISSIS), poichè non basta allegare che sicurezza personale e giustizia non siano beni generalmente accessibili a chiunque viva nel Paese di provenienza del richiedente per trarne, in automatico, il diritto di lui a godere della protezione internazionale.

Riguardo, poi, alla violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c menzionata nell’intitolazione del motivo, va rilevato che nello svolgimento non vi corrisponde alcuna argomentata critica a quanto osservato nel decreto impugnato, il quale ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte (n. 18130/17, a sua volta corrispondente ai principi espressi dalla Corte di giustizia UE) sul concetto di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale (che è tale ove abbia raggiunto un livello così elevato da porre il richiedente a rischio per la sua sola presenza sul territorio).

2. – Col secondo motivo è dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14 per mancanza assoluta di motivazione sulla domanda di protezione internazionale, del tutto generica ed apodittica.

2.1. – La censura è inammissibile.

Contrariamente a quanto afferma parte ricorrente, il decreto impugnato motiva, e in maniera del tutto intelligibile, il diniego della protezione proprio sulla base di quanto sopra ricordato, aggiungendo che “il ricorrente non ha svolto alcuna allegazione che possa essere valutata in termini di rischio futuro di essere destinatario, in caso di rimpatrio, di sanzioni come la pena di morte o altri trattamenti inumanì o degradanti”.

3. – Il terzo mezzo denuncia la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, comma 2, per non avere il Tribunale riconosciuto la richiesta subordinata di protezione umanitaria. Sostiene parte ricorrente che i giudici di merito avrebbero mancato di integrare (chiedendola alla parte o assumendola d’ufficio) la documentazione lavorativa che riteneva lacunosa, limitandosi, nel contempo, a rigettare la domanda senza procedere alla valutazione comparativa (richiesta da Cass. n. 4455/18) tra la situazione del richiedente in Italia e quella in cui verserebbe questi in caso di rimpatrio.

3.1. – Il motivo è infondato.

L’attenuazione dell’onere probatorio del richiedente la protezione riguarda le circostanze storiche che questi non è in grado di documentare o dimostrare altrimenti, a causa della precarietà della sua posizione di esule, dell’interruzione dei suoi contatti col Paese d’origine e del carattere spesso repentino ed avventuroso dell’allontanamento da esso. Altro, invece, è l’onere di (allegare e) provare la situazione personale e lavorativa in atto nel Paese d’accoglienza, che di regola non incontra complicazioni maggiori o diverse rispetto a quelle che accomunano qualsiasi tipo di domanda giudiziale. E sebbene la natura camerale del procedimento di protezione consenta l’esercizio di poteri officiosi, si tratta pur sempre di un’attività discrezionale a carattere integrativo e non già sostitutivo, non essendo compito del giudice nè allegare i fatti costitutivi della domanda, nè ricercarne autonomamente la prova.

Quanto al giudizio di comparazione che parte ricorrente lamenta essere mancato nel provvedimento del Tribunale lì dove è stata esclusa la protezione umanitaria (applicabile Tallone temporis alla fattispecie), deve osservarsi che esso presuppone pur sempre la vulnerabilità del richiedente. Questa ricorre in presenza di alcuna delle condizioni di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 19 ovvero nell’ipotesi della c.d. vulnerabilità di ritorno, quale risultato, cioè, di un raggiunto livello di integrazione nel Paese di accoglienza che, rapportato a quello che il richiedente ritroverebbe nel Paese d’origine, faccia prevedere a carico del richiedente la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (cfr. n. 4455/18, citata dalla stessa parte ricorrente). Solo in presenza di elementi di un’effettiva integrazione tale giudizio comparativo ha ragion d’essere, sicchè correttamente il Tribunale, avendo ritenuto che non emergesse nè radicamento nè vulnerabilità personale per motivi di salute o altro, non l’ha operato.

In particolare, il Tribunale ha osservato che il richiedente si trova in Italia sin dal 2016 e che non ha provato di svolgere alcuna attività lavorativa regolare, da cui trarre il proprio sostentamento (risultando prodotta solo la prima facciata di un modello UNILAV del 17.1.2018 per la coltivazione di agrumi – senza indicazione della durata del rapporto, nè delle ore o giornate lavorative e delle buste paga – e un contratto di lavoro a tempo indeterminato del 31.8.2018 stipulato con una società per il settore alberghiero e dei pubblici servizi, con l’allegazione di una certificazione unica del cui invio all’Agenzia delle Entrate non vi era prova, così come non risultava prodotto il modello UNILAV relativo a tale rapporto).

4. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

5. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

6. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2021

 

 

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