Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7489 del 31/03/2011

Cassazione civile sez. II, 31/03/2011, (ud. 04/03/2011, dep. 31/03/2011), n.7489

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dagli avvocati MARZO RICCARDO, LEO LANFRANCO;

– ricorrente –

contro

G.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, V.LE BRUNO BUOZZI 47, presso lo studio dell’avvocato IZZO CARLO

GUGLIELMO, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANI’ FRANCESCO

UGO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 360/2005 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 25/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/03/2011 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato Izzo Carlo Guglielmo con delega depositata in

udienza dell’Avv. Stefanì Francesco difensore del resistente che ha

chiesto di riportarsi al controricorso e ne chiede l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S.C. conveniva in giudizio G.A. deducendo di essere proprietario di un fabbricato a confine con un terreno appartenente al convenuto il quale aveva edificato un muro di recinzione interamente nella proprietà di esso attore per cui chiedeva lo spostamento de muro o, in alternativa, dichiarava di essere disposto ad acquistarne la proprietà pagando il costo dei materiali e della manodopera e chiedendo, in subordine, che fosse dichiarato il muro comune.

Il G., costituitosi, contestava la domanda e sosteneva che il muro di recinzione era stato realizzato prima del fabbricato dell’attore il quale aveva proceduto alla parziale demolizione del muro ed aveva appoggiato la sua fabbrica su di esso. Pertanto, poichè tale parte di costruzione insisteva sulla proprietà di esso convenuto, spiegava domanda riconvenzionale chiedendo il ripristino del muro stesso o, in subordine, l’acquisizione coattiva in favore dell’avversario.

L’adito tribunale di Lecce disposta ed eseguita una prima ed una seconda c.t.u. con sentenza 13/6/2000 rigettava la domanda dello S. ed accoglieva la domanda riconvenzionale condannando l’attore al pagamento di L. 40.000.000 pari al doppio del valore della superficie occupata.

Avverso la detta sentenza lo S. proponeva appello al quale resisteva il G..

Con sentenza 25/5/2005 la corte di appello di Lecce rigettava il gravame osservando: che i primi due motivi dell’appello attenevano alla presunta erroneità delle misurazioni effettuate dal secondo c.t.u. arch. P. il quale, secondo l’appellante, non avrebbe motivato le conclusioni della sua relazione contrastanti con quelle precedenti del primo c.t.u. geom. L.; che, come rilevato dal tribunale, era stata proprio la relazione del secondo c.t.u. a fare chiarezza nella situazione di fatto all’origine della controversia poichè il primo consulente, nel ricostruire le dimensioni delle particelle catastali scaturite dal frazionamento dell’ordinaria particella 16 che aveva dato luogo a quella n. 281 dello S.. aveva creato confusione coinvolgendo soggetti confinanti estranei al giudizio ed accertando sconfinamenti a catena tra un fondo e l’altro che nessun rilevo avevano ai fini della decisione; che estremamente chiara era la relazione del P. nella parte in cui aveva attestato che il muro di recinzione ricadeva interamente nella proprietà del G. sulla scorta delle misurazioni effettuate e dei dati metrici rilevati e riportati nella allegala planimetria che. indipendentemente dai frazionamenti, fornivano per l’immobile di proprietà dello S. una superficie di mq. 866 corrispondente a quella riportata nell’atto notaio D’Elia del 28/12/1964 che era il titolo di proprietà originario dello S.; che, come accertato dal P., il muro che separava il terreno delle parti in causa ricadeva nella proprietà del G.; che l’abitazione dello S., nel tratto in cui era addossata al terreno del G., inglobava il muro di recinzione per una lunghezza di mi. 11.0 e si spingeva nella proprietà del G. per cm. 20. pari alla larghezza di detto muro; che sul punto coincidevano le conclusioni dei due consulenti;

che le conclusioni del c.t.u. P. e la motivazione della sentenza del tribunale si basavano sulle misurazioni effettuate in loco dal c.t.u. che coincidevano con le risultanze dell’atto di acquisto originario; che, avendo accertato l’estensione della superficie del fondo dello S. e la realizzazione del fabbricato di quest’ultimo utilizzando e sopraelevando il muro di recinzione realizzato dal G. con conseguente occupazione di una superficie lunga mi. 11,00 e profonda cm. 20. andava ribadita l’infondatezza della domanda dello S. e, quindi, dei primi due motivi d’appello; che infondato era anche il terzo motivo con il quale era stata contestata la mancata motivazione da parte del c.t.u.

dei criteri seguiti nella determinazione dell’indennità dovuta al G.; che il c.t.u. arch. P., richiamato a chiarimenti, aveva evidenziato i criteri seguiti per la determinazione dell’indennità e l’insieme delle considerazioni che lo avevano portato ad attribuire al terreno occupato il valore di 1.000.000 a mq. Che, moltiplicato per due e raddoppiato ex art. 938 c.c., dava la somma di L. 4.400.000 arrotondata a L. 4.000.000.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Lecce è stata chiesta da S.C. con ricorso affidato a quattro motivi illustrati da memoria. G.A. ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso S.C. denuncia violazione della L. 22 luglio 1997, n. 276, art. 13, dell’art. 190 c.p.c. vecchio testo e degli articoli 156 e seguenti c.p.c. Deduce il ricorrente che il GOA della Sezione Stralcio del tribunale di Lecce nell’udienza 11/11/1999, senza effettuare il tentativo obbligatorio di conciliazione, invitava le parti a precisare le conclusioni e tratteneva la causa per la decisione impropriamente assegnando i termini per il deposito delle conclusioni e delle repliche secondo il nuovo rito mentre avrebbe dovuto fissare l’udienza per la definitiva trattazione della causa con i termini previsti dall’art. 190 c.p.c. vecchia formulazione. L’omesso tentativo di conciliazione ha determinato la nullità degli atti processuali successivi comprese le sentenze di primo e di secondo grado. Del pari la mancata fissazione dell’udienza di trattazione ha determinato un pregiudizio in quanto le parti non hanno potuto depositare scritti contenenti ulteriori deduzioni difensive.

La censura non è meritevole di accoglimento.

Va innanzitutto rilevato che l’eventuale nullità del giudizio di primo grado che non sia stata fatta valere in appello non può essere dedotta per la prima volta ne giudizio di legittimità a causa dell’intervenuta preclusione derivante dal principio di cui all’art. 161 cod. proc. civ.. secondo il quale tutti i motivi di nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione, a meno che la gravità del vizio dedotto non sia tale da impedire che lo stesso atto che ne è inficiato possa essere assunto nel modello legale della figura, configurandosi così una inesistenza giuridica dell’intero giudizio, rilevabile d’ufficio ex art. 161 c.p.c., comma 2.

Nella specie dalla lettura della sentenza impugnata non risulta – nè è stato dedotto dal ricorrente – che nel giudizio di appello sia stata prospettata la questione della asserita nullità della pronuncia di primo grado per l’omesso tentativo di conciliazione e per l’erronea assegnazione dei termini per il deposito di comparsa conclusionale e repliche, nullità che non sono tali da impedire che lo stesso atto che ne è inficiato possa essere assunto nel modello legale della figura, configurandosi così una inesistenza giuridica dell’intero giudizio, rilevabile d’ufficio ex art. 161 c.p.c., comma 2.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia: vizi di motivazione circa il punto decisivo della controversia relativo alla identificazione del fondo di proprietà di esso S. acquistato a corpo e non a misura; violazione degli artt. 880, 874, 875, 938 e 1159 c.c.; vizi di motivazione circa il punto decisivo della controversia relativo alla individuazione della fattispecie dedotta in giudizio (questione di comunione del muro di recinzione e non di occupazione di porzione di fondo attiguo). Deduce lo S. che la corte di appello ha omesso di considerare che i suolo di proprietà di esso ricorrente era stato acquistato a corpo e non a misura nel 1964 e che il muro di cinta aveva disegnato un confine tra i due fondi delle parti le quali lo avevano rispettato per circa venti anni in buona fede con maturazione del termine di usucapione di cui all’art. 1159 c.c. Le mappe catastali avrebbero dovuto cedere di fronte allo stato di fatto ventennale del confine in relazione alla presunzione di comunione del muro di cui all’art. 880 c.c. La norma da applicare non è comunque quella dell’art. 938 c.c. che attiene all’occupazione in buona fede di porzione di fondo altrui, ma l’altra dell’art. 874 c.c. che regola la comunione forzosa del muro sul confine: non risulta dagli atti l’asserita occupazione di suolo attiguo. Non è applicabile neanche l’art. 875 c.c. in quanto se la costruzione di esso ricorrente non va oltre il muro di recinzione, la comunione forzosa del muro sarebbe avvenuta senza occupazione di suolo. Non risulta che il muro sia di proprietà del G. e che esso S. abbia occupato una porzione del fondo attiguo. Inoltre il G. al più avrebbe potuto invocare l’applicazione dell’art. 874 c.c., obbligando esso S. a chiedere la comunione del muro, e non domandare l’indennità ex art. 938 c.c. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2697 c.c. degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c. e vizi di motivazione deducendo che i giudici del merito: a) hanno acriticamente recepito la relazione del c.t.u. arch. P. e trascurato quella del c.t.u.

L. e quelle dei consulenti di parte attrice; b) senza alcun fondamento hanno ritenuto costruito il muro di cinta prima della realizzazione dell’edificio di esso S.; c) hanno violato ogni principio relativo alla prova della consistenza ed alla individuazione delle due proprietà illogicamente ritenendo prevalenti le risultanze catastali rispetto allo stato dei luoghi della controversia, al possesso” ventennale in buona fede ed agli atti di acquisto della proprietà.

La Corte rileva l’infondatezza e, in parte, l’inammissibilità delle dette censure che – per evidenti ragioni di ordine logico e per economia di trattazione – possono essere esaminate congiuntamente per la loro stretta connessione ed interdipendenza e che, pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione si risolvono essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa – con riferimento, in particolare, alla valutazione delle c.t.u. redatte dal geom. L. e dell’arch. P., alla individuazione e estensione dei fondi di proprietà delle parti, all’ubicazione del muro in questione, al contenuto del titolo di proprietà originario dello S., alla data di costruzione del detto muro, alla data ed alle modalità di costruzione dell’edificio dello S. – ed in una critica della valutazione delle risultanze istruttorie operata dal giudice di secondo grado incensurabile in questa sede di legittimità perchè sorretta da adeguata motivazione immune da vizi logici e giuridici.

Inammissibilmente il ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Il sindacato di legittimità è sui detti punti limitato al riscontro estrinseco della presenza di una congrua ed esauriente motivazione che consenta di individuare le ragioni della decisione e l’iter argomentativo seguito nell’impugnata sentenza. Spetta intatti solo al giudice del merito individuare la fonte del proprio convincimento e valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dar prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova. Nè per ottemperare all’obbligo della motivazione il giudice di merito è tenuto a prendere in esame tutte le risultanze istruttorie e a confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti essendo sufficiente che egli indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento e dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e fatti che, sebbene non specificamente menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.

La corte di merito – come sopra riportalo nella parte narrativa che precede – ha affermato: a) che il muro che separava i fondi delle parti ricade per intero nella proprietà del G.; b) che la costruzione realizzata dallo S. ha inglobato il detto muro spingendosi per un tratto nella proprietà del G.; che, come concluso dai nominati consulenti tecnici di ufficio, lo S. aveva costruito il fabbricato di sua proprietà “utilizzando quel muro di recinzione trasformandolo in muro di fabbrica”. Va aggiunto che le dette accertate circostanze di fatto confermano la tesi sostenuta da G. sin dalla comparsa di costituzione in primo grado secondo cui lo S. aveva proceduto alla demolizione del muro “ed appoggiato la sua fabbrica su di esso” (pagina 1 della sentenza impugnata).

La Corte di appello è pervenuta alla detta conclusione (dal ricorrente criticata) attraverso complete argomentazioni, improntate a retti criteri logici e giuridici – nonchè frutto di un’indagine accurata e puntuale delle risultanze di causa riportate nella decisione impugnata e, in particolare, del contenuto delle relazioni dei nominati consulenti di ufficio ed ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento facendo anche riferimento al comportamento processuale delle parti.

Alle dette valutazioni il ricorrente contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la Corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi del G., ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi dello S..

Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

In definitiva, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non possono i ricorrenti pretendere il riesame del merito sol perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dalla Corte territoriale non collima con le loro aspettative e confutazioni.

Occorre poi evidenziare che il giudice di secondo grado ha proceduto alla valutazione delle risultanze delle disposte consulenze. Il procedimento logico – giuridico sviluppato nell’impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione di dette relazioni peritali è sorretto da motivazione adeguata ed immune dai vizi denunciati.

Nella sentenza impugnata sono evidenziati i punti salienti della decisione e risulta chiaramente individuabile la “ratio decidendi” adottata. A fronte delle coerenti argomentazioni poste a base della conclusione cui è pervenuta la corte di appello, è evidente che le censure in proposito mosse dal ricorrente devono ritenersi rivolte non alla base del convincimento del giudice, ma, inammissibilmente in queste sede, al convincimento stesso e, cioè, alla valutazione delle risultanze processuali.

Per quanto poi riguarda le doglianze relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (in particolare c.t.u.) deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base.

In proposito va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse dallo S. con i motivi in esame sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo delle relazioni dei consulenti di ufficio genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette relazioni. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dal ricorrente.

Sotto altro aspetto le censure concernenti gli asseriti errori che sarebbero stati commessi dal giudice di appello nel ricostruire i fatti di causa sono inammissibili risolvendosi nella tesi secondo cui l’impugnata sentenza sarebbe basata su affermazioni contrastanti con gli atti del processo e frutto di errore di percezione o di una svista materiale degli atti di causa. Trattasi all’evidenza della denuncia di travisamento dei fatti contro cui è esperibile il rimedio della revocazione. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, la denuncia di un travisamento di fatto, quando attiene al fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo di revocazione e non di ricorso per cassazione importando essa un accertamento di merito non consentito in sede di legittimità.

Va altresì aggiunto che lo S., al contrario di quanto dedotto con il motivo di ricorso in esame, non ha mai asserito che il muro era comune avendo anzi chiesto con l’atto introduttivo del giudizio di rendere comune il detto muro – in quanto edificato dal G. come muro di recinzione -dichiarandosi disposto a pagare il valore dei materiali e della manodopera.

Va infine rilevata l’inammissibilità della tesi relativa alla maturata usucapione di cui all’art. 1159 c.c. in quanto nuova e mai prospettata in primo o in secondo grado.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 938 c.c. in relazione agli artt. 99, 100 e 102 c.p.c. nonchè vizi di motivazione sul punto decisivo della controversia relativo all’interesse e alla legittimazione del convenuto G. a proporre razione prevista dal citato art. 938 c.c. Sostiene lo S. che la legittimazione attiva per proporre le detta azione spetta solo al costruttore e non al proprietario del suolo occupato e che sulla accessione invertita non può essere emessa una pronuncia di ufficio. I giudici del merito hanno ignorato tali principi di diritto accogliendo una inammissibile domanda riconvenzionale che il convenuto non era legittimato a proporre.

Il motivo è inammissibile perchè relativo ad una questione che dalla lettura della sentenza impugnata non solo non risulta (nè è stato dedotto in ricorso) che abbia formato oggetto del contraddittorio nel giudizio di secondo grado, ma che principalmente si pone in contrasto con le tesi difensive sviluppate in sede di gravame dallo stesso S.. Al riguardo va segnalato che – come sopra riportato nella parte narrativa che precede e come evidenziato nella pronuncia di cui si chiede l’annullamento – con la sentenza di primo grado lo S. venne condannato al pagamento in favore del G. della somma di L. 4.000.00 “corrispondente al doppio del valore della superficie occupata” (pagina 2 della sentenza impugnata). Avverso la detta pronuncia lo S. propose appello deducendo in via principale che era stato il G. ad occupare suolo di proprietà di esso appellante e che, in ogni caso, “non risultava provato chi avesse per primo costruito il muro conteso” (pagina 2 della sentenza). Peraltro lo stesso S., sia pur in via subordinata, chiese espressamente “una nuova valutazione dell’indennità, della quale il c.t.u. non aveva neppure indicato chiaramente i criteri di determinazione”. In via ulteriormente subordinata l’appellante chiese poi che l’indennità fosse rideterminata senza il riconoscimento della rivalutazione monetaria” (pagina 3 della sentenza).

Da quanto precede emerge con evidenza che lo S. con le sue tesi difensive non solo prese atto della domanda riconvenzionale del G., ma la fece propria lamentando l’erroneità della decisione di primo grado in ordine alla determinazione dell’entità dell’indennità prevista dall’art. 838 c.c. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna del soccombente S. al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 3.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 4 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011

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