Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7471 del 08/03/2022

Cassazione civile sez. lav., 08/03/2022, (ud. 15/12/2021, dep. 08/03/2022), n.7471

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8515-2019 proposto da:

E-DISTRIBUZIONE S.P.A. (già ENEL DISTRIBUZIONE S.P.A.), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA GIROLAMO DA CARPI, 6, presso lo studio dell’avvocato FURIO

TARTAGLIA, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

T.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IPPOLITO

NIEVO, n. 61, presso lo studio dell’avvocato MARIA GRAZIA PICCIANO,

rappresentato e difeso dagli avvocati GABRIELE INELLA, MARIA

ANTONIETTA DE SANTIS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 744/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 13/09/2018 R.G.N. 621/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/12/2021 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA

MARIO visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis,

convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha

depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 744/2018 la corte di appello di Palermo, in riforma della decisione del tribunale, aveva condannato E-Distribuzione spa a pagare a T.N. la complessiva somma di Euro 16.544,4, a titolo di risarcimento del danno (differenziale) conseguente alla invalidità permanente pari al 12% accertata quale conseguenza della prestazione di lavoro.

La corte territoriale aveva preliminarmente ritenuto non rilevante, ai fini della domanda, la intervenuta transazione tra le parti con contenuta rinuncia da parte del lavoratore, trattandosi di accordo precedente al momento in cui il lavoratore si era avveduto della malattia di origine professionale oggetto dell’attuale giudizio; aveva altresì ritenuto non prescritta la pretesa applicandosi il termine decennale di prescrizione del credito ed essendo intervenuti vari atti interruttivi. Il giudice di appello, nel merito della pretesa, aveva valutato sussistente la responsabilità datoriale nella determinazione della patologia di origine professionale, trattandosi di attività di lavoro che avrebbe richiesto l’esercizio dell’attività di sorveglianza sanitaria, nonché la adozione di misure di prevenzione quale l’avvicendamento tra differenti lavoratori nell’espletamento delle mansioni assegnate realizzazione linee elettriche e posa dei pali anche in zone impervie). Su tali presupposti accertativi della responsabilità datoriale, la corte palermitana aveva riconosciuto l’esistenza del danno a carico della società, quale differenziale tra il danno riconosciuto dall’Inail e quello invece liquidabile al lavoratore attraverso l’applicazione delle c.d. Tabelle milanesi di determinazione del danno.

Avverso detta decisione ha proposto ricorso la società affidato a otto motivi, anche coltivati con successiva memoria, cui resisteva con controricorso e successiva memoria il lavoratore.

La Procura Generale depositava memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1) – con il primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2113,1362,1363 e 1365 c.c., in relazione alla dichiarazione di rinunzia e transazione rilasciata dal sig T. in data 12.2.2007 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Assume la società che era intervenuto tra le parti un accordo con il quale il dipendente aveva rinunciato a qualsivoglia rivendicazione retributiva legata al rapporto di lavoro intercorso, compresi risarcimenti a qualunque titolo. Da ciò la società fa derivare l’erroneità della valutazione della corte di merito circa la non interferenza del detto accordo sulla pretesa avanzata.

Il motivo è infondato.

Si osserva che l’accordo transattivo e la rinuncia ivi contenuta deve essere tale da esprimere con chiarezza l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva della parte rinunciante; a tal fine deve altresì essere evidente che la rinuncia sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi

(in tal senso Cass. n. 18321/2016; Cass. n. 18405/2011).

Deve da ciò desumersi che può avere validità ed efficacia la transazione e rinuncia nell’ipotesi che si tratti di diritti noti e di cui il rinunciante abbia piena consapevolezza. Nel caso in esame siffatte circostanze non sono presenti poiché non possono considerarsi noti, determinati o determinabili diritti sorti successivamente alla rinuncia a seguito dell’accertamento della patologia di origine professionale. Si tratta evidentemente di situazione di fatto subentrata nel tempo da cui sorgono diritti che non esistevano all’epoca della rinuncia e in quanto tali non riferibili ad essa.

2) Con il secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 c.c., anche in relazione al curriculum dell’ex dipendente ed alla lettera dell’avv. Ivella del 2.9.2009 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). La società rileva la intervenuta prescrizione dei diritti, essendo generica la lettera del 2009 e quindi non utile ai fini della interruzione della prescrizione. Deduce inoltre come la corte di appello abbia errato nell’individuare il momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale collegandolo al momento di cessazione del rapporto di lavoro e non alla cessazione dell’illecito permanente avvenuta nel 2000 con il venir meno dello svolgimento delle mansioni da parte del T..

Sebbene debba essere chiarito che, diversamente da quanto statuito dalla corte territoriale, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno conseguente a una malattia causata al dipendente, nell’espletamento del lavoro, dal comportamento colposo del datore di lavoro decorre dal momento in cui il danno si è manifestato e l’origine professionale della malattia può ritenersi conoscibile dal danneggiato (Cass. n. 24586/2019; Cass. n. 7272/2011; Cass. n. 17985/2007) e non, quindi, dalla cessazione del rapporto di lavoro, il motivo di censura deve comunque essere dichiarato inammissibile. Deve infatti ritenersi che la lettera del 2009 è stata valutata dal giudice d’appello, con giudizio di merito non suscettibile di riesame in sede di legittimità, come idonea ad interrompere la prescrizione. Peraltro la stessa lettera non è stata riprodotta nel corpo della censura, in tal modo rendendo la stessa inammissibile anche per carenza di specificazione.

3) La terza censura ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per aver, la corte, ritenuto applicabile detta norma pur in assenza di accertamento di danno conseguente da fatto-reato. Deve in proposito richiamarsi il principio secondo cui “In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dal D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11, deve essere interpretata nel senso che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cd. differenziale, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’Inail, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso” (Cass. n. 12041/2020).

Nel caso in esame la corte territoriale ha accertato, attraverso attività istruttoria-testimoniale, l’effettivo svolgimento delle mansioni assegnate al lavoratore e, attraverso ctu medico legale, la rapportabilità delle patologie riscontrate alla attività di lavoro. La valutazione svolta ed i criteri utilizzati sono coerenti con i principi evidenziati.

4) Con il quarto motivo è dedotta la violazione degli artt. 2087 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); violazione del D.P.R. n. 164 del 1956; violazione del ccnl enel 1973, art. 37; violazione del D.P.R. n. 393 del 1956, tabella, artt. 4, 24, 33, 34; violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 4,16,21,22, anche in relazione al DVR Enel 1996. Omesso esame di un fatto decisivo.

Parte ricorrente assume che tutte le disposizioni di legge e/o contratto richiamate dalla corte territoriale e oggetto della censura non fossero applicabili al lavoratore. In particolare rileva che il ccnl, art. 37, non contiene tra le attività particolarmente gravose quella in cui era occupato il dipendente; che comunque la norma prevede al più solo una turnazione nello svolgimento delle mansioni con ciò risultando solo norma programmatica. Espone ancora che il D.P.R. n. 303 del 1956, art. 33 (relativo ad agenti nocivi) non è applicabile alla attività svolta e neppure l’art. 24 (relativo a vibrazioni). Deduce inoltre l’inapplicabilità del regime di sorveglianza sanitaria in quanto prevista solo per talune attività estranee a quelle svolte da E-Distribuzione spa. Conclude infine rilevando che l’assenza di specifici obblighi di legge esclude che si possa ravvisare inosservanza degli stessi con ciò determinandosi la inapplicabilità della responsabilità sancita dall’art. 2087 c.c..

Il motivo non merita accoglimento. La sentenza in esame dopo aver valutato le modalità di svolgimento dell’attività di lavoro per come emersa dalle testimonianze acquisite, ha rilevato il mancato adempimento da parte della società dell’onere della prova disposto dall’art. 2087 c.c.. E’ questa una disposizione della quale questa Corte si è occupata in molte occasioni rendendo chiaro il suo valore contenutistico quale “norma di chiusura” delle regole poste a presidio della tutela della salute del lavoratore. Ha statuito in proposito che “La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, sorge non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo” (Cass. n. 15112/2020; Cass. n. 30679/2019). Il principio posto evidenzia come sussista un preciso obbligo per il datore di lavoro di predisporre misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Invero, sebbene l’art. 2087 c.c., non delinei un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, comunque dispone in modo preciso che lo stesso sia tenuto ad individuare i possibili modi e strumenti di tutela rapportati, oltre che alle concrete possibilità della tecnica e dell’esperienza, anche alla specificità del lavoro e alla natura dell’ambiente e dei luoghi in cui il lavoro; in particolare gli obblighi così descritti devono essere osservati con cura quando vengono in questione attività che per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all’aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, ecc.) comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all’umidità degli ambienti, alla loro temperatura, ecc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro (Cass. n. 1509/2021; Cass. n. 15112/2020; Cass. n. 8911/2019; Cass. n. 25597/2021).

Nel caso in esame la particolare qualità della mansione svolta dal ricorrente per un lungo periodo (realizzazione linee elettriche e posa dei pali anche in zone impervie), certamente è annoverabile tra quelle attività che, per caratteristiche proprie e per le condizioni dei luoghi in cui sono svolte, avrebbero richiesto particolari misure di prevenzione e controllo che, in tal modo, concorrono ad integrare il contenuto del disposto del richiamato art. 2087 c.c..

Accertata pertanto la piena applicabilità della norma in questione e degli obblighi scaturenti da essa per il datore di lavoro, deve farsi conseguire a carico di quest’ultimo l’onere di fornire la prova di aver provveduto secondo il disposto normativo. Giova a riguardo richiamare il principio, più volte affermato, secondo cui “In tema di danno alla salute del lavoratore, gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette “nominate”, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette “innominate”, la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standards” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe(Cass. n. 15082/2014; Cass. n. 16026/2018; Cass. n. 29879/2019).

Rispetto a tali principi ed alla statuizione della Corte territoriale che su tali principi si fonda, assume un rilievo non dirimente (e sufficiente) la censura relativa alla errata applicazione delle singole disposizioni indicate nel motivo proposto, in quanto rimane non impugnata la decisione per la parte in cui ha statuito la diretta applicazione degli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c., (per come integrato dalla specificità delle mansioni assegnate, dei luoghi di lavoro interessati e della specifica prevenzione richiesta) e ne ha desunto la violazione con conseguente responsabilità datoriale. La censura deve essere, pertanto, disattesa.

5) Con il quinto motivo è censurata la violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, degli artt. 1223,2087,2697 c.c., in relazione al profilo di omessa sorveglianza sanitaria. La società lamenta la ritenuta conseguenza tra danno verificato ed omessa sorveglianza sanitaria. Il motivo deve ritenersi assorbito da quanto detto in precedenza sulla applicazione dell’art. 2087 c.c., quale fonte diretta della accertata responsabilità datoriale. La eventuale erroneità (peraltro espressione di valutazione di merito) del giudizio di omessa sorveglianza sanitaria lascerebbe comunque intatta la responsabilità del datore di lavoro come sopra accertata ai sensi della norma codicistica.

6) Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1996, art. 4, e dell’art. 2087 c.c., e dell’art. 11 preleggi, per la omessa valutazione sulla movimentazione dei carichi nel DVR Enel. Anche tale censura, come la precedente, può ritenersi asoorbita dall’accertamento della responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c., in quanto in tale ambito è contenuto il giudizio di conoscenza e conoscibilità delle attività a rischio e delle misure idonee necessarie ad eliminarlo e/o contenerlo.

7) La settima censura riguarda la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, e degli artt. 1123,1226,2056,2059 c.c., per la mancata rivalutazione della somma liquidata dall’INAIL, da rapportare alle somme derivanti dalla applicazione delle tabelle milanesi sulla liquidazione del danno.

8) Con ultima censura parte ricorrente si duole della mancata considerazione di quanto liquidato dall’Inail.

Le ragioni poste con queste due censure possono essere trattate congiuntamente.

Entrambi i motivi risultano genericamente posti. Questa Corte ha statuito che “In tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l’erogazione Inail D.Lgs. n. 38 del 2000, ex art. 13, ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l’indennizzo erogato dall’Inail secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest’ultimo alla quota Inail rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall’importo liquidato a. titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall’importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita Inail destinata a ristorare il danno biologico permanente” (Cass. n. 9112/2019).

Il principio evidenzia la necessaria specificazione che la domanda (o eccezione o doglianza) deve contenere con riguardo alle diverse componenti del danno, al fine di ben identificare esattamente quali siano le voci (di danno) non liquidate ed al cui ristoro è tenuto il datore di lavoro. La richiesta esatta identificazione non è contenuta nelle censure in esame, nelle quali non sono contenute le indicazioni dei titoli risarcitori già liquidati e neppure di quanto gli stessi siano stati erroneamente valutati nella loro entità. I motivi risultano, pertanto, afflitti da inammissibile genericità.

Il ricorso, per tutte le ragioni esposte, deve essere rigettato. Le spese seguono il principio di soccombenza.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in E. 4.000,00 per compensi ed E. 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delLericorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, all’udienza, il 15 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2022

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