Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7447 del 18/03/2020

Cassazione civile sez. I, 18/03/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 18/03/2020), n.7447

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

S.S., difeso dall’Avv. Giacomo Cainarca ed elettivamente

domiciliato in Roma, presso lo studio dell’Avv. Valentina Valeri,

giusta nomina in calce al ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato.

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di MILANO n. 6908/2018 del 22

novembre 2018.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.S., nato il (OMISSIS) ((OMISSIS)), ha proposto domanda di protezione internazionale alla competente Commissione, che veniva rigettata con provvedimento notificato il 22 gennaio 2018.

2. Il richiedente ha riferito di avere fatto ingresso irregolare in Italia il (OMISSIS) e di essere figlio unico; di avere entrambi i genitori in (OMISSIS) e di avere lavorato, terminata la scuola, in campagna sui terreni di famiglia; sentito dalla Commissione ha dichiarato di essere di etnia mandinga e di religione musulmana; che le due sorelle erano morte per l’ebola; che, dopo la morte del padre, nel 2008, era andato a vivere con il nonno, che apparteneva ad una società segreta; che il nonno voleva che anche lui vi aderisse; che, non convinto, con l’aiuto della madre, aveva raggiunto una zia in Guinea; che aveva paura che, una volta tornato in patria, il nonno ricominciasse a chiedergli di far parte della società e di non avere vie di uscita.

3. Il tribunale di Milano, adito con ricorso ex D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, ha rigettato il ricorso affermando che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, ovvero del rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

4. S.S. ricorre in cassazione con tre motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo S.S. lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 10 e 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, esponendo che il decreto impugnato era nullo non essendo stata disposta la nuova audizione del ricorrente, ma soltanto la fissazione dell’udienza di comparizione personale del ricorrente, durante la quale il richiedente non era stato udito, ma aveva soltanto presenziato, senza che il giudicante avesse formulato domande.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Secondo il consolidato indirizzo più volte ribadito da questa Corte, in mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente disporre lo svolgimento dell’udienza di comparizione delle parti, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato all’esito del ricorso, per inidoneità del procedimento a consentire il pieno dispiegamento del contraddittorio, salvo che non sia stato lo stesso richiedente ad aver visto accolta la propria istanza motivata di non avvalersi del supporto della videoregistrazione, ma l’obbligatorietà della fissazione dell’udienza di comparizione, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, non comporta automaticamente la necessità di dar corso all’audizione del richiedente (cfr. Cass., 13 dicembre 2018, nn. 32318 e 32319; Cass., 31 gennaio 2019, n. 2817).

Tale affermazione trova, peraltro, riscontro nella giurisprudenza comunitaria, la quale, pronunciandosi in ordine all’interpretazione della direttiva 2013/32/CE del 26 luglio 2013, artt. 12, 14, 31 e 46, ha precisato che l’obbligo di consentire al richiedente di sostenere un colloquio personale, prima di decidere sulla domanda di protezione internazionale, grava esclusivamente sull’autorità incaricata di procedere all’esame della stessa, e non si applica pertanto nei procedimenti d’impugnazione, in quanto l’obbligo di procedere all’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto, imposto al giudice competente dall’art. 46, par. 3, della direttiva dev’essere interpretato tenendo conto della stretta connessione esistente tra la procedura d’impugnazione e quella di primo grado che la precede, nel corso della quale dev’essere consentito al richiedente di sostenere il colloquio personale, con la conseguenza che il giudice può decidere di non procedere all’audizione nel caso in cui ritenga di poter effettuare un esame siffatto in base ai soli elementi contenuti nel fascicolo, ivi compreso, se del caso, il verbale o la trascrizione del colloquio personale svoltosi in occasione del procedimento di primo grado (cfr. Corte di Giustizia UE, 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko).

A fortiori l’esigenza di audizione dell’istante non sussiste nel caso in cui ci si trovi in presenza di una domanda di protezione internazionale manifestamente infondata (Cass. 31 gennaio 2019, n. 3029).

Nel caso di specie, il Tribunale, dopo avere espressamente affermato l’assenza di necessità di ripetere l’audizione e di svolgere ulteriori incombenti istruttori, ha ritenuto non credibile che il ricorrente sia stato oggetto di pressioni per avere rifiutato l’affiliazione nella Poro Society, considerata la facilità con cui si sarebbe sottratto alle richieste del nonno e del patrigno, secondo marito della madre.

Peraltro, il Tribunale, richiamando il documento “Country of origin Research and information (CORI), Sierra Leone: Fear of forced initiation into the Poro Secret Society in Freetown, 6 March 2009” ha precisato che la narrazione del ricorrente appariva in contrasto con le informazioni ricavate dalle fonti richiamate, in quanto le fonti indicavano che proprio coloro che apertamente avversavano la PORO rischiavano affiliazioni con metodi violenti e che non risultava la sussistenza, in detta “society”, della regola dell’obbligo di successione in caso di morte di uno degli adepti, come invece dichiarato dal ricorrente.

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Ad avviso del ricorrente il Giudice è incorso in error in judicando, avendo confuso il piano della credibilità del ricorrente in base al narrato in audizione e l’esame dello status attuale del richiedente che ben potrebbe essere diverso non solo per le ragioni correlate alla “storia” del migrante, ma anche per altre e diverse motivazioni.

Il richiedente sostiene, inoltre, che la vulnerabilità va intesa come esposizione al rischio di grave sacrificio dei diritti umani per ragioni diverse da quelle tipizzate dalla protezione di fonte sovranazionale e che, sotto tale profilo, entra in gioca anche la valutazione della condizione sociale e culturale di provenienza e, quindi, la condizione economico sociale di provenienza, la giovanissima età o quella molto avanzata.

Rappresenta, quindi, che il richiedente è fuggito da una condizione di minaccia cui ha dovuto soggiacere per essersi rifiutato di volere entrare nella setta PORO e che in tale paese, caratterizzato da gravi ed oggettive difficoltà economiche e di diffusa povertà, permane un clima generale di instabilità, insicurezza, violenza diffusa e che notorie sono anche l’assenza di protezione giudiziaria e la corruzione delle forze di sicurezza, oltre che le carenze del sistema sanitario e di assistenza sociale.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

La condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Così facendo, infatti, si prenderebbe altrimenti in considerazione, piuttosto che la situazione particolare del singolo soggetto, quella del suo paese di ordine, in termini del tutto generali e astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass., 3 aprile 2019,. n. 9304; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459). Inoltre, “la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore”” (Cass., 7 agosto 2019, n. 21123).

Nel caso di specie, il ricorrente se da un lato ha posto a fondamento delle richieste di riconoscimento dello stato di rifugiato, di protezione sussidiaria e di protezione umanitaria le medesime circostanze di fatto; dall’altro non ha assolto all’onere di allegare e descrivere le circostanze di fatto, personali e peculiari, diverse da quelle poste a fondamento delle altre ed infondate domande di protezione, a riscontro della sussistenza della condizione di grave violazione dei diritti umani e, per ciò solo, giustificative della richiesta di protezione umanitaria.

I giudici di secondo grado, infatti, hanno evidenziato che non erano stati allegati fatti diversi da quelli posti a fondamento della domanda di protezione e già esaminati e che la difesa aveva fatto richiamo alla situazione generalizzata del paese di origine, alla giovane età del richiedente e all’impegno di quest’ultimo in un percorso serio di integrazione.

Peraltro, questa Corte, dopo avere precisato che “la protezione umanitaria, nel regime vigente “ratione temporis”, tutela situazioni di vulnerabilità – anche con riferimento a motivi di salute – da riferirsi ai presupposti di legge ed in conformità ad idonee allegazioni da parte del richiedente” ha evidenziato che “non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di ” estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico” (Cass., 7 febbraio 2019, n. 3681).

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, esponendo che, in relazione alla domanda di protezione sussidiaria, il tribunale si era limitato a rinviare a non meglio precisati accertamenti della Commissione e non aveva acquisito le necessarie informazioni sulla situazione del paese e della regione di provenienza del richiedente.

3.1 Il motivo è inammissibile.

Il Tribunale ha, al riguardo, affermato che il richiedente non ha indicato, tra le ragioni dell’espatrio, questioni connesse a problemi di instabilità interna e che la situazione generale del paese secondo le informazioni aggiornate non presentava una generalizzata situazione di violenza indiscriminata come emergeva dai documenti espressamente richiamati (United States Department of State, Country Reports on Human Rights Practices – Sierra Leone, 3 March 2017).

Questa Corte ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ex D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647).

Ciò in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave, potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia Europea (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).

4. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese stante la mancata attività difensiva da parte dell’Amministrazione intimata.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

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