Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7447 del 17/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 17/03/2021, (ud. 30/09/2020, dep. 17/03/2021), n.7447

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 13162 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

F. s.n.c. di F. E. & Co. in liquidazione, in

persona del legale rappresentante pro tempore, nonchè

F.E. e Fe.El., tutti rappresentati e difesi, giusta

procura speciale a margine del ricorso dall’Avv. Carla Maria Vecchi,

presso il quale elettivamente si domiciliano in Roma, Viale Giulio

Cesare n. 118;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, si

domicilia;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 6718/4/14 della Commissione tributaria

regionale del Lazio depositata in data 11.11.2014;

udita nella camera di consiglio del 30.09.2020 la relazione svolta

dal consigliere Vincenzo Gelati.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 6718/4/14 la Commissione tributaria regionale del Lazio ha esposto, in punto di fatto, che la società immobiliare F. s.n.c. di F. E. & C. ed i soci Fe.El. e F.E. hanno impugnato, con separati ricorsi, gli avvisi di accertamento emessi nei lori rispettivi confronti con i quali, relativamente al periodo di imposta 2002 e 2004, a seguito di verbale redatto dalla Guardia di Finanza il 15.5.2009, l’Agenzia delle Entrate di Civitavecchia ha accertato, nei confronti della società, ai fini iva ed irap, maggiori ricavi non dichiarati pari ad Euro 316.728,00 per il 2002 ed Euro 902.233,00 per il 2004 ed irpef verso i soci in conseguenza dell’attribuzione agli stessi dei maggiori redditi di impresa accertati.

A seguito dell’impugnazione della società, la Commissione tributaria provinciale di Roma, previa riunione dei ricorsi, li ha respinti compensando le spese di giudizio.

La CTR ha quindi rigettato l’appello successivamente proposto dalla società e dai soci condividendo le argomentazioni svolte dalla Commissione provinciale in punto di mancata prova della irrilevanza fiscale dei movimenti effettuati sui conti dei soci onde superare la presunzione di riconducibilità degli stessi all’attività della società.

Inoltre, ha rigettato il rilievo sulla deducibilità di costi e spese negando la presunzione secondo cui a ricavi occulti dovrebbero corrispondere costi occulti che, nel caso di specie, la società ha omesso di enunciare e documentare.

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la società ed i soci affidandolo ad un unico articolato motivo.

L’Agenzia delle Entrate ha replicato con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo ed unico motivo di ricorso sono proposti diversi profili di censura.

In primo luogo si deduce, sotto l’aspetto della violazione e falsa applicazione di legge, l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal diritto di accertamento relativo agli anni 2002 e 2004 essendo stato emesso l’accertamento nell’anno 2009 e tenuto conto della inapplicabilità della proroga di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10.

L’accertamento, dunque, sarebbe stato effettuato nonostante la maturata decadenza ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, secondo i quali l’avviso relativo alle imposte sui redditi ed all’iva deve essere notificato entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione.

Ulteriore censura (articolata nel medesimo motivo) riguarda la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1 e art. 37, comma 3 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2 ed, ancora, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3.

Sul punto, relativamente al profilo relativo al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, si censura la decisione di appello nella parte in cui ha affermato che ai prelevamenti, per il caso di conti cointestati e mancando la prova della riferibilità in capo alla società ricorrente, non possono ritenersi corrispondere costi non contabilizzati.

Si tratterebbe di motivazione contraddittoria ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui sono stati considerati ricavi i versamenti effettuati dalla contribuente sui conti corrente e, contestualmente, esclusa la rilevanza dei prelevamenti per non essere tali operazioni riconducibili alla società.

In tale prospettiva sarebbe illegittima l’attribuzione dei versamenti sui conti correnti dei soci all’attività svolta (e quindi ai ricavi) della società.

Richiama, a conforto della tesi sostenuta, quanto deciso da Corte costituzionale con sentenza n. 228/2014 con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), nella parte in cui estende ai compensi dei lavoratori autonomi la presunzione in forza della quale, anche per tali soggetti, il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo produttivo di un ricavo.

Ulteriormente, si denuncia omessa motivazione (sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), in punto di mancato esame di documentazione prodotta dal contribuente nel giudizio di appello.

In merito alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, nella fattispecie non potrebbe dirsi operante alcuna forma di interposizione fittizia che deve essere oggetto, comunque, di prova piena.

Infine, con riguardo alla violazione e falsa applicazione del D.P.R., art. 51, comma 2, i ricorrenti evidenziano l’impossibilità di giustificare le movimentazioni ricondotte alla società e che, invece, riguardavano attività personali ed una ditta di autolavaggio.

D’altronde non sarebbe operante, nella fattispecie, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, in quanto la mancata produzione della documentazione giustificativa non sarebbe stata volontaria.

Nel rassegnare le conclusioni parte ricorrente propone i quesiti di cui all’abrogato art. 366-bis c.p.c..

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Preliminarmente eccepisce l’inammissibilità del ricorso in quanto con unico motivo i ricorrenti censurano la sentenza di merito per plurime ed indistinte ragioni afferenti la violazione e falsa applicazione di legge, oltre che carenze motivazionali.

Rileva, altresì, l’infondatezza del ricorso anche nel merito evidenziando come la richiesta di riconoscimento di maggiori costi a fronte dell’accertamento presuntivo di maggiori ricavi integri una deduzione sprovvista di ogni prova.

Segnala la corretta applicazione da parte della CTR in ordine allo schema presuntivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, nn. 2) e 7) ed al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51; interpretazione allineata a quella della consolidata giurisprudenza di legittimità.

Rileva l’infondatezza dell’eccezione relativa all’estensione dei termini di accertamento di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, evidenziandone la legittimità della previsione e la declaratoria di manifesta infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale.

Infine, quanto al profilo relativo alla asserita violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, ne evidenzia l’inammissibilità per novità, non essendo mai stata sollevata nei gradi precedenti e per violazione dell’art. 100 c.p.c. in quanto profilo per il quale non è individuabile alcun interesse concreto da parte dei ricorrenti.

In primo luogo va dichiarata l’inammissibilità del ricorso nell’interesse di Fe.El. in proprio per carenza di valida procura speciale al difensore.

Infatti la procura speciale a margine del ricorso per cassazione risulta rilasciata dalla F. esclusivamente nella sua qualità di rappresentante legale della società e da F.E..

Non esiste una procura da parte di Fe.Em. in proprio.

Si tratta di vizio rilevabile d’ufficio anche nella sede di legittimità secondo quanto deciso da Cass. sez. 3, 17 marzo 2009, n. 6439 secondo cui “le questioni relative alla nullità della procura alle liti e al difetto di “ius postulandi” in capo al difensore possono essere rilevate d’ufficio per la prima volta anche nel giudizio di legittimità, a condizione che la relativa prova risulti dagli atti e dai documenti ritualmente acquisiti nelle fasi di merito”

La formulazione dei quesiti ex art. 366-bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6 ed abrogato dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, comma 1, lett. d) non rileva nel caso di specie in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata dopo l’entrata in vigore della legge di abrogazione (Cass. sez. 5, 19 novembre 2014, n. 24597).

Passando all’esame dell’insieme dei motivi del ricorso, se ne deve affermare l’inammissibilità per difetto di specificità.

In effetti, secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità “in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse”. (Cass. sez. 1, 23 ottobre 2018, n. 26874).

Coerente con tale affermazione, l’arresto secondo cui “il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tàssatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito”. (Cass. sez. 6, 14 maggio 2018, n. 11603).

Il ricorso consiste nella formulazione magmatica e caotica di una pluralità di motivi (alcuni ex art. 360 c.p.c., n. 3, altri ex art. 360 c.p.c., n. 5) senza alcuna precisazione delle posizioni alle quali essi fanno riferimento.

Il motivo riferito alla inapplicabilità della proroga di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 10, è privo di specificità tenuto conto che non viene indicata la data esatta in cui è stato effettuato l’accertamento, nè l’eventuale ricorrenza di una causa di esclusione della proroga dei termini in quanto non risulta neppure affermata l’adesione della società al condono fiscale (evento al quale è legata l’inoperatività della proroga in contestazione).

Il motivo rubricato come “violazione e falsa applicazione riscontrata di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2 e art. 37, comma 3 e del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 51, comma 2; violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3” è, a sua volta, diviso in due punti.

Dopo avere lamentato la violazione e falsa applicazione, i ricorrenti deducono (pagg. 5 e 6) promiscuamente la “contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5)”, integrandosi, in tal modo, in termini evidenti una causa di inammissibilità per essere la medesima “violazione” criticata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Non è dato comprendere, infatti, sotto quale profilo venga denunciato il ricorso al meccanismo presuntivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32: se violazione e falsa applicazione di legge, oppure vizio motivazionale.

In seguito la contestazione attinge (nel merito e, dunque, in termini non consentiti nel giudizio di legittimità) il verbale della Guardia di Finanza (pag. 7 del ricorso) senza evidenziare in, base a quali elementi non dovrebbe ritenersi operante la presunzione o quali sarebbero le lacune motivazionali della sentenza impugnata (si fa riferimento generico a “documentazione prodotta nel giudizio di appello” senza menzionare cosa è stato prodotto e quando ciò sarebbe avvenuto).

In merito alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, si propongono enunciazioni di diritto senza spiegare per quale ragione tali affermazioni sarebbero rilevanti nel caso di specie.

Peraltro la sentenza afferma che non è stata dimostrata l’estraneità delle contabilizzazioni e delle movimentazioni all’attività della società e le generiche deduzioni del ricorso non contestano tale affermazione (pagg. 8 e 9 del ricorso).

Infine, con riguardo alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, la censura è legata a quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 ed attiene ad un profilo, anche in questo caso, di merito legato alla impossibilità di reperire documentazione bancaria che si sarebbe dovuto proporre nelle precedenti fasi e, così come formulata, pone un tema non suscettibile di essere preso in esame in sede di legittimità (si evoca nella parte finale una, non meglio precisata, impossibilità di accedere a movimentazioni bancarie di soggetti terzi).

Da quanto esposto discende la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con regolamentazione delle spese secondo il criterio della soccombenza.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente Agenzia delle Entrate, delle spese di lite del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Da atto dei presupposti processuali per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, il 30 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2021

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