Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7440 del 18/03/2020

Cassazione civile sez. I, 18/03/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 18/03/2020), n.7440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3288/2019 proposto da:

K.E., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Anna Lombardi Bombardini in forza di procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 520/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 05/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 K.E., cittadino della (OMISSIS), ha adito il Tribunale di Perugia impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il richiedente asilo, cittadino (OMISSIS), aveva raccontato alla Commissione territoriale di essere andato via da Port Harcourt perchè c’erano persone che volevano forzare altri ad entrare nel loro partito politico (OMISSIS), costringendoli a divenirne membri al fine di vincere le elezioni; che poichè essi ricorrevano alla violenza contro chi si opponeva, spaventato, aveva mandato la moglie dalla sua famiglia ad (OMISSIS) in (OMISSIS); che in seguito ad alcune uccisioni, aveva raggiunto la moglie per un poco; che tuttavia, poichè lì non poteva vivere, non avendo un lavoro per mantenere la famiglia, era andato in Libia su indicazione di uno zio della moglie; che colà gli era stato richiesto di convertirsi all’islam, cosa che lui non aveva voluto fare; che successivamente era stato rapito dagli asma boys e costretto ad imbarcarsi per ignota destinazione.

Dinanzi al Giudice aveva raccontato che, dopo essersi trasferito a Port Harcourt, aveva appreso che alcuni ragazzi dei culti andavano ad appiccare incendi; di essersi trasferito in un villaggio del River State, dove si era fermato per tre anni, durante i quali, a causa del periodo elettorale, era iniziato un periodo di violenza tra gli appartenenti ai due partiti in lotta, (OMISSIS) e (OMISSIS), nel (OMISSIS); di essersi trasferito a (OMISSIS) in (OMISSIS) per la necessità di salvare la ragazza e il figlio nato nel (OMISSIS); che, non trovando lavoro, era partito per la Libia; che tuttavia la persona che aveva contattato non gli aveva procurato lavoro; che era stato quindi rapito e imbarcato forzatamente.

Con ordinanza del 6/9/2017 il Tribunale di Perugia ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. L’appello proposto da K.E. è stato rigettato dalla Corte di appello di Perugia, a spese compensate, con sentenza del 5/7/2018.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso K.E., con atto notificato il 4/1/2019, svolgendo tre motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno si è costituita con controricorso notificato il 20/2/2019, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5 e 14 e al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 3 e 8 per aver la Corte di appello omesso di valutare la credibilità del richiedente asilo alla luce dei parametri stabiliti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

1.1. Certamente la valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez.6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez.6, 27/06/2018, n. 16925; Sez.6, 10/4/2015 n. 7333; Sez.6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

Il contenuto dei parametri sub c) ed e), sopra indicati, evidenzia che il giudizio di veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere integrato dall’assunzione delle informazioni relative alla condizione generale del paese, quando il complessivo quadro allegativo e probatorio fornito non sia esauriente, purchè il giudizio di veridicità alla stregua degli altri indici (di genuinità intrinseca) sia positivo (Sez.6, 24/9/2012, n. 16202 del 2012; Sez.6, 10/5/2011, n. 10202).

Beninteso, il principio che le dichiarazioni del richiedente che siano inattendibili non richiedono approfondimento istruttorio officioso va opportunamente precisato e circoscritto: nel senso che ciò vale per il racconto che concerne la vicenda personale del richiedente, che può rilevare ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o ai fini dell’accertamento dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Invece il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, una volta assolto da parte del richiedente la protezione il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione dei fatti attinenti alla vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, in relazione alla fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (Sez.1, 31/1/2019 n. 3016).

Inoltre questa Corte ha di recente ribadito che la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, o come motivazione apparente, o come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Sez. 1, n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, n. 33096 del 20/12/2018, Rv. 652571 – 01).

1.2. Al riguardo la Corte di appello, con motivazione che soddisfa lo standard del c.d. “minimo costituzionale”, ha chiarito alle pagine 3 e 4 della sentenza impugnata le ragioni per cui le dichiarazioni del ricorrente erano state ritenute inattendibili, e cioè sia per il loro carattere generico e non circostanziato, sia per le incoerenze e l’affezione da elementi di rilevante contraddittorietà interna fra le varie versioni fornite dal richiedente asilo in sede di audizione amministrativa e dinanzi al giudice.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5, e art. 14, lett. b) e c) al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 25 e 32 e agli artt. 2, 3, 4, 5 e 9 CEDU.

2.1. Secondo il ricorrente, la Corte di appello, muovendo dalla valutazione di non credibilità del racconto del richiedente, di per sè censurabile, ha omesso di adempiere al proprio dovere di cooperazione istruttoria escludendo la protezione sussidiaria senza tener conto della gravissima situazione esistente nel Paese di origine.

Non era stata attinta alcuna informazione circa l'(OMISSIS) dove il richiedente era nato e (OMISSIS) dove era cresciuto.

2.2. Il ricorrente non si confronta adeguatamente con la specifica motivazione addotta dalla Corte a pagina 5 della sentenza impugnata.

La Corte di appello, in primo luogo, ha rilevato che il ricorrente non aveva neppure denunciato in modo coerente la minaccia alla vita derivante da conflitto armato e ha rimarcato le incoerenze interne dei vari racconti del richiedente circa la sua effettiva provenienza e la sua effettiva residenza.

Soprattutto, poi, la Corte di appello ha messo in rilievo la necessità di valutare la situazione di pericolo indiscriminato con riferimento al luogo in cui il ricorrente si era trasferito con la propria famiglia ad (OMISSIS) in (OMISSIS), laddove, secondo il suo stesso racconto, non esisteva una situazione di violenza generalizzata con rischio indiscriminato per i civili ma soltanto problemi di carattere economico.

Il ricorrente non si confronta in modo critico e pertinente con la motivazione addotta dalla Corte perugina e pretende di parametrare la valutazione di pericolosità rispetto ad altre zone del Paese, diverse da quelle di ultimo insediamento familiare e da cui si era allontanato.

In tema di protezione internazionale dello straniero, nell’ordinamento italiano, prima delle modifiche apportate dal D.L. 113 del 2018, convertito con modificazioni dalla L. n. 132 del 2018, la valutazione della “settorialità” della situazione di rischio di danno grave deve essere intesa, alla stregua della disciplina di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, nel senso che il riconoscimento del diritto ad ottenere lo status di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d’origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, mentre non vale il contrario, sicchè il richiedente non può accedere alla protezione se proveniente da una regione o area interna del Paese d’origine sicura, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre regioni o aree invece insicure. (Sez. 1, n. 13088 del 15/05/2019, Rv. 653884 – 01).

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 23 e 5 al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, commi 1 e 1.1. e al D.P.R. n. 394 del 1999, art. 28.

3.1. Il ricorrente lamenta la mancata debita valutazione comparativa necessaria ai fini della concessione della protezione umanitaria, tenuto conto della sua vulnerabilità scaturente dalla gravissima situazione del paese di origine e del suo buon grado di integrazione sociale in Italia.

3.2. Giova ricordare che secondo la recentissima sentenza delle Sezioni Unite del 13/11/2019 n. 29460, che ha avallato l’interpretazione maggioritaria inaugurata da Sez. 1, n. 4890 del 19/02/2019, Rv. 652684 – 01, in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per casi speciali previsto dall’art. 1, comma 9 suddetto D.L..

Inoltre la stessa sentenza n. 24960/2019 delle Sezioni Unite, che in proposito ha aderito al filone giurisprudenziale promosso dalla sentenza della Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298 01, in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza.

Secondo il richiamato orientamento giurisprudenziale, i seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali cui il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, sono accumunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili.

La condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa. Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Sez. 1, 23/02/2018, n. 4455).

3.3. Il ricorrente invoca in modo del tutto generico la “gravissima situazione del sud est della (OMISSIS) e in particolare del (OMISSIS)” senza alcun riferimento individualizzante alla propria condizione di vulnerabilità soggettiva e personale che non sia il riferimento alla vicenda persecutoria riferita e giudicata motivatamente non credibile (vedi p. 1); quanto all’integrazione sociale il ricorrente allega, comunque del tutto genericamente e senza riferimenti puntuali alle fonti di prova, circostanze di per sè influenti, come la conoscenza della lingua italiana e il comportamento penalmente irreprensibile.

4. Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

PQM

LA CORTE

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese processuali liquidate in Euro 2.100,00 per compensi oltre le spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

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