Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7439 del 23/03/2017


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Cassazione civile, sez. III, 23/03/2017, (ud. 24/02/2017, dep.23/03/2017),  n. 7439

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20409-2014 proposto da:

B.N. in proprio nonchè quale erede della madre

M.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE AVEZZANA 2/B,

presso lo studio dell’avvocato STEFANO LATELLA, rappresentata e

difesa dall’avvocato UMBERTO FANTINI giusta procura speciale -a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FIN.R.EDIL SRL in persona del legale rappresentante pro tempore REMO

BASSO, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CATANZARO 9, presso lo

studio dell’avvocato ALBERTO MARIA PAPADIA, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIORGIO PIETROBON giusta procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

nonchè contro

PROCURATORE GENERALE CORTE APPELLO VENEZIA, PM TRIBUNALE E TRIESTE,

PM TRIBUNALE BOLOGNA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 131/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 21/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/02/2017 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

Con sentenza del 1 aprile 2009 il Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Castelfranco Veneto, accoglieva la domanda di risarcimento dei danni da occupazione sine titulo proposta da Prisma Immobiliare Srl nei confronti di M.E. e B.N. per avere detenuto un immobile ad uso abitativo e non abitativo che per decreto di trasferimento del 6 febbraio 2000 era stato assegnato all’attrice, condannando le convenute nella misura di Euro 22.926 oltre accessori. Avendo queste proposto appello principale e avendo proposto appello incidentale Fin. R. Edil Srl (già Prisma Immobiliare Srl), la Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 20 dicembre 2013 – 21 gennaio 2014, in parziale accoglimento dell’appello principale riduceva il quantum risarcitorio in Euro 15.284 oltre accessori per la B. e Euro 3090,67 oltre accessori per la M., rigettava l’appello incidentale, compensava le spese tra la M. e la controparte e condannava la B. a rifondere a controparte le spese del primo e del secondo grado nella misura di due terzi, compensato un terzo.

Ha presentato ricorso la B., dichiarando di agire in proprio e in qualità di erede di M.E.; il ricorso si articola in cinque motivi e se ne difende con controricorso Fin. R. Edil Srl.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. Deve anzitutto rilevarsi che, a tacer d’altro, per il contenuto dell’effettivo thema decidendum che si verrà ad illustrare non ha alcuna significanza processuale l’avere intimato, oltre alla Fin. R. Edil Srl e ad B.E. (convenuto in primo grado – anche se successivamente l’attore ha con lui transatto – e appellato in secondo grado), anche il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Venezia, il “PM presso il Tribunale di Trento e Trieste” e il PM presso il Tribunale di Bologna.

Sempre in primis, deve altresì osservarsi che la B. dichiara di agire (anche) in qualità di erede di M.E., senza però indicare la data del preteso decesso, senza allegare certificato di morte e senza documentare in alcun modo la sua asserita qualità di erede. Ne consegue il suo difetto di legittimazione a denunciare nel ricorso questioni attinenti a pretesi diritti di M.E..

2. Attiene proprio a diritti attribuiti a M.E. la massima parte del primo motivo di ricorso, riguardante la notifica del ricorso di primo grado alla suddetta. Residua nella parte conclusiva una censura di violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., per “discontinuità logico – giuridica” in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, con conseguente violazione dei principi del giusto processo per avere la ricorrente dedotto vizi e proposto domande allo scopo di far valere la nullità del giudizio di primo grado, “immotivatamente non delibate”: censura, questa, di evidente genericità, sempre che non la si riconduca alla questione della notifica che, come si è appena detto, la ricorrente non ha la legittimazione di denunciare.

3. Il secondo motivo, denunciante in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 2, 3 e 4, la violazione di numerose norme (art. 43 bis ord. giudiz., art. 50 quater c.p.c., art. 70 ss. c.p.c., art. 281 octies c.p.c., artt. 115, 184, 295, 355, 427, 669 bis e 712 c.p.c., artt. 980, 1024, 1337, 2345, 1346, 1418, 2043 e 2929 c.c.), si articola in una pluralità di doglianze.

3.1 In primo luogo, si insiste per la nullità, già prospettata al giudice d’appello, di un’ordinanza del giudice onorario del 23 luglio 2001 e dell’intero procedimento, sostenendo che la corte territoriale “contraddittoriamente e apoditticamente” la riterrebbe questione superata per essersi poi sostituito nella decisione sulle stesse istanze al giudice onorario il giudice togato: in tal modo la corte “nulla dice, in concreto, sulla nullità della formazione degli atti e della precedente fase cautelare”; lo stesso varrebbe per le domande incidentali di querela di falso e di interdizione/inabilitazione di M.E. che erano di competenza collegiale, dal momento che mancherebbe “congrua ed effettiva motivazione” sulla “invalida costituzione del Got prima e poi dello stesso giudice monocratico” e sulla eccepita loro incompetenza, perchè avrebbero dovuto “rimettere gli atti al Collegio, previo formale interpello” del PM e del legale rappresentante della società controparte.

Questa prima censura è palesemente infondata laddove ripropone una doglianza del gravame di merito che la corte territoriale ha condivisibilmente confutato evidenziando la non incidenza della decisione del giudice onorario al di fuori dei limiti di legge che delineano la sua potestà giurisdizionale, essendo stata poi assunta la decisione del giudice togato. Anche nel gravame di merito la censura si estendeva, poi, alla mancata rimessione della questione della querela di falso al collegio, cui ora, come si è visto, si aggiunge anche la domanda di interdizione/inabilitazione della M.. Sulle tematiche attinenti a quest’ultima si è già constatato il difetto di legittimazione della ricorrente. Quanto, poi, alla querela di falso, tutto è assorbito da quel che evidenzia, pure qui condivisibilmente, la corte territoriale: “Circa la questione della querela di falso avverso il decreto di trasferimento 16-2-2000 (che, sotto diversi profili, viene affrontata in quasi tutti i motivi di gravame) essa, come dà atto la stessa parte appellante, ha costituito oggetto di altro procedimento. Tale procedimento si è concluso con la pronuncia della sentenza 21-2-2011 n. 4209 con cui la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da B.N. e M.E. avverso la sentenza n. 2146/04 di data 28-9/20-12-2004 della Corte d’Appello di Venezia. In tal modo è passata in giudicato la pronuncia della Corte d’Appello contenuta nella sentenza n. 2146/04 ove si dichiarava l’inammissibilità della querela di falso avverso il decreto di trasferimento 16-2-2000 non essendo possibile l’impugnazione di falso avverso un provvedimento giurisdizionale”.

3.2 In secondo luogo, si censura il giudice d’appello per aver omesso di esaminare l’eccezione che la porzione abitativa dell’immobile non fosse apprensibile al fallimento ai sensi della L.Fall., art. 46, e non potesse essere oggetto di “esecuzione forzosa” ai sensi degli artt. 980 e 1024 c.c., essendo inalienabile il diritto abitativo del terzo trasmesso per testamento, e da ciò derivando la inammissibilità della domanda risarcitoria. Insufficiente sarebbe infatti l’affermazione del giudice d’appello che precedenti considerazioni “valgono anche per l’alienazione dell’usufrutto della M.”. Si tratta, evidentemente, ancora una volta di una questione riconducibile ai pretesi diritti della M., che la ricorrente B. non è legittimata a far valere per quanto sopra rilevato.

3.3 Ancora, il motivo lamenta che non sarebbe conforme agli atti l’affermazione del giudice d’appello che in secondo grado sarebbero state proposte eccezioni nuove come la nullità del processo esecutivo, dato che già in primo grado si chiedeva, ai sensi degli artt. 221 ss. c.p.c., “previa chiamata in causa del competente PM di Trento”, di dichiarare la falsità ideologica del decreto di trasferimento e l’illegittimità della vendita anche ai sensi degli artt. 1345, 1346, 1418 e 2929 c.c.: perciò i giudici di merito avrebbero dovuto esaminare tale domanda. Peraltro “l’assoluta carenza di potere giurisdizionale e l’invalida costituzione del giudice monocratico” renderebbero nullo tutto il giudizio, perchè in entrambi i gradi, pur dandosi atto della proposizione di querela di falso, “viene omesso” rimettere gli atti al collegio, istruire la causa e informare il PM. L’accertamento di “dolo collusorio e revocatorio” quale base del decreto di trasferimento sarebbe il presupposto di ogni equa decisione: pertanto sia il primo sia il secondo giudice di merito avrebbero violato gli artt. 221 e 335 c.p.c., per non aver rimesso gli atti al Tribunale collegiale, previo interpello della parte da cui proviene il documento impugnato sull’intenzione di avvalersene.

Anche questa censura ripropone, ictu oculi, la tematica della questione di querela di falso nel decreto di trasferimento dell’immobile all’attuale controricorrente, per cui si rimanda allo stralcio, pienamente condivisibile, della motivazione della sentenza d’appello che è stato sopra riportato.

3.4 Infine, viene denunciata una violazione “analoga” a quella in precedenza prospettata come derivante dall’omessa pronuncia sulle domande di cui agli artt. 1345, 1346, 1418 e 2929 c.c., per cui i giudici di merito “avevano l’onere di dare atto che non sussistevano ragioni legittime” per vendere la porzione abitativa dell’immobile e perchè controparte chiedesse il risarcimento dei danni per preteso ritardo nella consegna dell’immobile. Quest’ultima doglianza, oltre ad essere generica, è, comunque, anche chiaramente fattuale.

4.1 Il terzo motivo denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 1229, 1223, 1224, 1226 e 1227 c.c., nonchè “inapplicabilità” del danno figurativo per infondatezza e illiceità della pretesa.

Lamenta la ricorrente che nel ricorso di primo grado controparte avrebbe chiesto il danno da occupazione senza titolo come danno in re ipsa, e che la corte territoriale non avrebbe tenuto, conto che sarebbe stata proprio controparte a cagionare l’asserito danno, restando inerte per oltre un anno. La corte inoltre non avrebbe considerato il profilo preliminare dell’an, nè valutato che, per disposizione testamentaria, la M. avrebbe avuto diritto per tutta la vita a utilizzare l’abitazione, per cui nei suoi confronti sarebbe stato inefficace il decreto di trasferimento. Non sarebbe inoltre corretta la quantificazione del danno per erronea determinazione e “apporzionamento presuntivo” di quanto il giudice d’appello pone a carico della ricorrente, senza accertare nè la data di effettivo rilascio dell’immobile nè la quota riconducibile alla M., in violazione dei principi della responsabilità solidale. Si sarebbe dovuto tenere conto della data di messa in mora, cioè della notifica del precetto, e irragionevole sarebbe stato gravare la ricorrente delle spese accessorie e connesse. La corte avrebbe dovuto, altresì, tenere conto delle condizioni di salute della M., del diritto di usufrutto vitalizio di quest’ultima e del diritto abitativo del fallito ai sensi della L.Fall., art. 46, per la ricorrente, da ciò dovendo desumere che le convenute non erano occupati senza titolo. E il giudice d’appello comunque avrebbe errato nel computare il danno figurativo dal decreto del trasferimento del 30 ottobre 2000 laddove l’avviso di rilascio fu notificato il 19 gennaio 2001. Si censura inoltre che la controparte non avrebbe avuto intenzione di locare o alienare l’immobile, bensì lo avrebbe demolito per costruire un nuovo immobile, e comunque non avrebbe ottemperato al suo onere probatorio di dimostrare in concreto il danno subito; e in effetti non avrebbe, peraltro, patito alcun danno, perchè avrebbe avuto la disponibilità della parte non abitativa dell’immobile il 5 febbraio 2001 (e quindi diciassette giorni dopo la notifica dell’avviso di rilascio) e della parte abitativa poco più di tre mesi dopo.

Infine, la ricorrente si duole che la sentenza sia stata fornita con contenuto contraddittorio e senza motivazione laddove condanna a rifondere a controparte due terzi delle spese la “parte sostanzialmente vittoriosa”, e conclude asserendo che i danni sarebbero stati quantificati “in misura esorbitante” rispetto ai criteri della responsabilità solidale, perchè avrebbero dovuto essere limitati al 50%.

Anche questo motivo, evidentemente, affastella una pluralità di doglianze.

4.2 Per quanto concerne le questioni sollevate in relazione al diritto della M., anzitutto, si richiama quanto più sopra rilevato a proposito del difetto di legittimazione della B..

In seguito, a parte la finale censura relativa alle spese di causa – che palesemente non è riconducibile neanche in senso lato al complessivo contenuto del motivo, per quanto eterogeneo, ed attiene comunque ad una valutazione discrezionale del giudice di merito – e a parte pure quella, formulata in modo sostanzialmente fattuale, dell’esistenza di titolo in capo alla ricorrente che ne giustificasse la detenzione dell’immobile (il quale però non è stato assegnato alla controricorrente nell’ambito della procedura fallimentare, per cui non è pertinente la L.Fall., art. 46), il motivo si incentra su due questioni: il riconoscimento del danno come danno in re ipsa e la quantificazione del danno.

4.3 Per quanto concerne la prima, non può non riconoscersi che, come ogni genere di danno, il danno da occupazione sine titulo giammai può essere in re ipsa, in quanto ontologicamente si distingue dall’evento dannoso, essendone una conseguenza. Pertanto, l’an del danno deve essere provato da chi ne chiede il risarcimento, e ciò vale anche per il c.d. danno figurativo, cioè, appunto, per il danno da mancata disponibilità di un immobile occupato senza titolo da terzi. Il che è stato recentemente chiarito dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, che ha dissolto ogni ambiguità atta a erroneamente facilitare, se non ad esonerare in tale fattispecie l’adempimento dell’onere probatorio (v. per tutti Cass. sez. 3, 21 settembre 2015 n. 18494). Peraltro, nel caso in esame il danno non è stato identificato dal giudice d’appello come danno in re ipsa, avendo chiaramente indicato la corte territoriale quali, secondo la sua valutazione, sono state le conseguenze dannose della mancata disponibilità dell’immobile per la società assegnataria (“la mancata disponibilità del compendio immobiliare per circa un anno ha ritardato i lavori e la conseguente realizzazione dei profitti derivanti dalla vendita dei nuovi alloggi”). La censura, quindi, non è accoglibile.

4.4 Per quel che concerne, poi, il quantum del danno, a parte la condivisibilità del rilievo del giudice d’appello sulla natura di metodo di liquidazione propria della determinazione del valore locatizio dell’immobile, deve darsi atto che le varie argomentazioni, sopra sintetizzate, si coagulano, a ben guardare, in una richiesta di revisione di accertamento di fatto, che al giudice di legittimità è preclusa, per cui, in conclusione, anche questo motivo integralmente non merita accoglimento.

5. Il quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 273, 274 e 295 c.p.c., perchè il procedimento penale nel quale il gip del Tribunale di Trento avrebbe chiesto determinate indagini avrebbe dovuto giustificare la sospensione necessaria di questo giudizio, previa parziale riunione della querela di falso per connessione al già pendente giudizio principale di falso. Motivo, questo, del tutto privo di consistenza, poichè da un lato il giudizio relativo alla querela di falso, come ha evidenziato il giudice d’appello, si è concluso dando luogo a giudicato, e dall’altro un procedimento (e non un processo) penale non può supportare alcuna soprassessoria in un giudizio civile (cfr. art. 3 c.p.p.).

6. Il quinto motivo, infine, formalmente denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 92 e 95 c.p.c. e D.M. n. 3912 del 1990, art. 5, comma 4, in realtà non ha a sua volta alcuna consistenza, poichè trae le sue argomentazioni dalla riunione che avrebbe dovuto essere fatta tra le varie cause, riunione che non essendo avvenuta non può certo generare alcuna conseguenza giuridica; e per di più lo stesso motivo rileva che la determinazione delle spese rientra nel potere discrezionale del giudice.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. La peculiare natura della vicenda, anche dal punto di vista processuale, giustifica la compensazione delle spese del grado. Sussistono D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, ai sensi del comma 1 bis dello stesso articolo, a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso prenotato a debito D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 11, essendo stata la ricorrente ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

PQM

Rigetta il ricorso compensando le spese processuali del grado.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello prenotato per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2017

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