Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7436 del 07/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 07/03/2022, (ud. 23/02/2022, dep. 07/03/2022), n.7436

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1865/2014 R.G. proposto da:

FGA Investimenti s.p.a. (già ITCA s.p.a.), in persona del legale

rappresentante pro tempore, e nella qualità di incorporante di ITCA

Produzione, rappresentata e difesa dall’Avv. Corrado Magnani e

dall’Avv. Maria Antonelli, giusta procura speciale in calce al

ricorso per cassazione, elettivamente domiciliata presso lo studio

del secondo Avvocato, in Roma, Piazza Gondar, n. 22;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato e

presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 66/24/2012, depositata il 29 novembre 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 23 febbraio

2022 dal Consigliere D’Orazio Luigi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva l’appello principale proposto dall’Agenzia delle entrate, in relazione alla domanda di deducibilità dell’ammortamento dei terreni e dei costi intercompany, ai fini Irap 2005, e rigettava l’appello incidentale proposto dalla ITCA Produzione s.p.a. (pta FGA Investimenti s.p.a.), in relazione alla indeducibilità, ai fini Irap, dei costi da “distacco” di personale da ITCA Tools s.p.a. alla contribuente, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Torino (n. 104/4/2009) che aveva accolto parzialmente il ricorso della contribuente relativamente all’ammortamento dei terreni ed all’indeducibilità dei costi per servizi intercompany. Il giudice d’appello, dopo aver rigettato l’eccezione preliminare sollevata, per mancata produzione in giudizio del PVC notificato alla società il 31 marzo 2008, evidenziava che il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 7, aveva natura innovativa, e non interpretativa, laddove stabiliva l’indeducibilità del costo delle aree occupate dalla costruzione di fabbricati strumentali all’impresa, ma, anche per il passato non era possibile dedurre le quote di ammortamento del valore di un terreno sul quale insisteva un immobile. Quanto alla deducibilità dei costi derivanti dal contratto intercompany, il giudice di prime cure aveva errato nell’applicare il principio della ripartizione dell’onere della prova; infatti, quanto ai costi di “regia” gravava sulla capogruppo che intendeva dedurre per intero i costi per la gestione delle attrezzature e dei locali utilizzati anche da altre società del gruppo, l’onere di provare l’esistenza e l’inerenza dei costi. Nella specie, la società si era limitata a produrre solo alcune fatture, con causale genetica (“ribaltamento spese enti centrali”) oltre ad un contratto di prestazione di servizi, indeterminato, privo di data certa anteriore alla verifica tributaria, in violazione dell’art. 2704 c.c., quindi non opponibile all’Amministrazione finanziaria.

Il giudice d’appello rigettava il gravame incidentale proposto dalla società, in relazione alla indeducibilità di dei costi per distacco di personale da ITCA Tools a favore della contribuente, ai fini Irap, per l’anno 2005. La società, infatti, affermava che non vi sarebbe mai stato un effettivo distacco di personale, ma “unicamente il ribaltamento di spese per il personale utilizzato da ITCA Tools s.p.a. presso la sede della società accertata per servizi utili a quest’ultima”. In realtà, nella specie, la fattura relativa al costo del personale utilizzato presso la società accertata recava espressamente la causale: “distacco di personale”. Era, dunque, irrilevante che la società distaccante, ossia la ITCA Tools, non avesse correttamente contabilizzato il relativo corrispettivo, in quanto la società accertata, ai sensi del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, non doveva e neppure poteva portare in deduzione la relativa spesa ai fini Irap. Pertanto, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava legittimo l’accertamento dell’Ufficio anche in ordine alla indeducibilità ai fini Irap, sia delle quote di ammortamento del costo dei terreni, sia delle spese per ribaltamento servizi.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società contribuente FGA investimenti, depositando anche memoria scritta.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Anzitutto, si rigetta l’eccezione preliminare di mancanza di autosufficienza del ricorso per cassazione presentato dalla contribuente. Invero, il ricorso per cassazione, pure nella sua stringatezza, quanto alla descrizione del fatto, consente comunque la piena comprensione delle doglianze sollevate dalla società contribuente.

1.1. Con il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102 e della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1.2. e 3.2., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello ha ritenuto che i terreni pertinenziali agli stabilimenti industriali non fossero ammortizzabili. In realtà, le quote di ammortamento riferibili ad “aree parcheggi”, aventi natura pertinenziale, sono deducibili, ai sensi del principio contabile nazionale n. 16 nella considerazione che, pur essendo i terreni in via di principio non ammortizzabili, in quanto insuscettibili di deperimento e consumo, quelli su cui insistono fabbricati perdono la loro originaria natura ed autonoma utilità per assumere una diversa funzionalità inscindibile con quella del fabbricato sul cui valore ammortizzabile devono essere ricompresi. Del resto, a conferma della ammortizzabilità dei cespiti suddetti, il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 7, con disposizione chiaramente innovativa, e con decorrenza dal periodo di imposta successivo a quello in esame (2006), ha stabilito che sono deducibili le quote di ammortamento relative ai fabbricati strumentali, ma al “netto” del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Il giudice d’appello, da un lato, ha ritenuto che il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 7, fosse norma innovativa, quindi non applicabile per il pregresso, ma, dall’altro, ha affermato che, anche prima dell’entrata in vigore di tale norma nuova, le pertinenze immobiliari non erano ammortizzabili. In realtà, prima dell’innovazione legislativa si riteneva che le pertinenze (nella specie terreni costituenti pertinenze di capannoni industriali) non avevano una propria autonoma disciplina, ma seguivano il regime dei beni principali, con la conseguenza che ad esse si applicava lo stesso trattamento giuridico previsto per i beni principali dalle disposizioni che regolano la determinazione del reddito di impresa, ivi inclusi gli ammortamenti. Peraltro, la nuova norma non ha natura interpretativa, in assenza di un contrasto interpretativo manifestatosi a livello di orientamenti giurisprudenziali. Inoltre, la fonte della (pretesa) norma interpretativa, e quindi retroattiva, è il decreto-legge, che è diverso dall’atto legislativo indicato dallo statuto (legge ordinaria), ma funzionale ad esigenze sicuramente diverse da quelle della legge di interpretazione autentica. La norma in esame ha, allora, carattere innovativo e quindi contribuisce a valorizzare, per il passato, la soluzione della possibilità di ammortamento per i terreni pertinenziale a stabilimenti industriali.

1.2. Il motivo è infondato, anche se deve essere corretta la motivazione del giudice di appello ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

1.3. Deve premettersi che l’ammortamento è il processo tecnico contabile attraverso il quale si ripartisce nei vari esercizi l’onere del deperimento e del consumo relativo alla utilizzazione di beni strumentali, a “fecondità ripetuta” (che non esauriscono la loro utilità in un solo esercizio e quindi partecipano al processo produttivo aziendale in più esercizi), i cui costi vengono ripartiti in quote pluriennali. Questa Corte, con riferimento al reddito di impresa e con riguardo ai presupposti per l’ammortamento, ha ritenuto che esso può effettuarsi con beni suscettibili di deperimento e consumo dopo un certo numero di anni, sì da essere sostituiti quando non risultino più funzionali allo scopo per il quale sono stati acquistati (Cass., sez. 5, 24 maggio 2013, n. 12924). Infatti, dal reddito di impresa sono deducibili le quote di ammortamento dei beni utilizzati per un limitato periodo di tempo, perché soggetti a logorio fisico o economico, tant’e’ che la disciplina fiscale, dei diversi coefficienti di ammortamento tiene espressamente conto dell’effettivo tasso di usura al quale sono soggetti i beni strumentali in relazione all’impiego cui essi vengono singolarmente destinati (Cass., n. 22021/06; Cass., n. 1404/2013).

1.4. Tali coefficienti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, sono stabiliti per classi omogenee di beni, in base al normale periodo di deperimento e consumo nei vari settori produttivi. Pertanto, le quote annue di ammortamento calcolate in base ad essi risultano più alte, se il bene (come un apparecchio meccanico) ha un tasso di deperimento più rapido rispetto ad altri (come i beni immobili).

1.5. Nel corso degli anni la giurisprudenza di questa Corte si è sviluppata nel senso di considerare con maggiore attenzione la possibilità di ammortamento dei beni, estendendone l’orizzonte.

1.6. La prima pronuncia sul tema attiene all’ammortamento degli impianti di aria condizionata. Si è ritenuto che la più intensa utilizzazione delle strutture aziendali, certamente conseguente ai doppi turni di lavorazione, non e’, di per sé, idonea a giustificare le maggiori quote dell’ammortamento “accelerato”, in difetto di prova, gravante sul contribuente, a mezzo di idonea documentazione, che l’intensità di utilizzazione dei beni è superiore “a quella normale del settore”, secondo la prescrizione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 3, (Cass., sez. 5, 13 ottobre 2006, n. 22034).

Pertanto, è ben possibile per il contribuente fornire la prova della più intensa utilizzazione delle strutture aziendali, in modo da applicare un coefficiente di ammortamento più elevato. In genere, infatti, le quote annue di ammortamento calcolate in base ai coefficienti risultano più alte, se il bene (come un apparecchio meccanico) ha un tasso di deperimento più rapido rispetto ad altri (come i beni immobili). Se l’Ufficio ritiene applicabile un coefficiente più basso per l’immobile, cui inerisce l’impianto di condizionamento, grava sul contribuente l’onere di provare la maggiore intensità di utilizzo del bene e, quindi, la maggiore deteriorabilità nel tempo.

1.7. Successivamente questa Corte si è pronunciata sulle costruzioni inerenti gli impianti di distribuzione di carburante, e si è ritenuto che, ai sensi del D.M. 21 dicembre 1998, emesso in base al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102), le costruzioni esistenti negli impianti stradali di distribuzione dei carburanti non sono riconducibili alla categoria “Oleodotti-Serbatoi-Impianti stradali di distribuzione”, per la quale la tabella dedicata al “Gruppo IX-Industrie Manifatturiere Chimiche – Specie 2 – raffinerie di petrolio, produzione e distribuzione di benzina e petroli per usi vai, di oli lubrificanti e residuati, produzione e distribuzione di gas di petrolio liquefatto” prevede un coefficiente di ammortamento del 12,5%, ma a quella “Fabbricati destinati all’industria”, per cui la medesima tabella prevede un coefficiente del 5,5 % (Cass., sez. 5, 11 aprile 2008, n. 9497; poi anche Cass., sez. 5, 24 maggio 2013, n. 12924). La medesima decisione (Cass., 9497/2008) ha affermato la impossibilità di ammortamento per i terreni, ma poi è stata superata dalla pronuncia a sezioni unite di questa Corte (Cass., sez. un., 26 aprile 2017, n. 10225).

2. V’e’ stata poi la decisione a sezioni unite di questa Corte (sent. 2017/10225), sopra citata (seguita da Cass., sez. 5, 25 novembre 2020, n. 26805 e Cass., sez. 5, 20 novembre 2020, n. 26492, che hanno condiviso il giudizio del giudice di merito per cui la “indivisibilità” tra opere murarie e impianto di smaltimento rifiuti, sotto il profilo del medesimo grado di deperibilità della “vita utile” di entrambe le categorie di bene nel corso degli anni, conducevano ad individuare la medesima aliquota di ammortamento del 10%, sia per i macchinari sia per gli edifici), che ha chiarito i termini della questione, soprattutto in relazione all’ammortamento dei terreni su cui insiste un impianto di distribuzione di carburante. Si è chiarito che, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Pertanto, ai fini dell’ammortamento di un bene rileva la limitazione nel tempo della proficua “utilizzazione” produttiva del bene, non la durata della sua fisica esistenza. Ciò che rileva è l’utilità economica secondo un piano produttivo, cioè la durata della “vita utile” del bene strumentale, che va intesa come periodo di tempo nel quale ci si attende che il bene sia utilizzato produttivamente. Pertanto, l’ammortamento consiste nella ripartizione per competenza (con metodo sistematico e razionale) del costo di acquisizione di beni con riferimento alla loro “vita utile”, negli anni in cui la loro utilità funzionale ed economica si connette al processo produttivo dell’impresa partecipando al risultato dei singoli esercizi, in rapporto al deperimento fisico o tecnologico o economico di essi “in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Il deperimento che va considerato è quello indotto dall’impiego produttivo del bene strumentale di durata pluriennale, quindi dall’utilizzo stimato del potenziale apporto fornito all’attività di impresa. Si e’, quindi, chiarito che il valore da ammortizzare va individuato nella differenza tra il valore dell’immobilizzazione ed il suo presumibile valore residuo al termine del periodo di “vita utile” e corrisponde al valore il cui ammortamento negli esercizi futuri troverà, secondo una ragionevole prognosi, adeguata copertura con i ricavi correlati all’utilizzo del bene.

Alla vita utile del bene fanno riferimento non solo il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102-bis, comma 2 (introdotto dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 325), relativo all’ammortamento dei beni materiali strumentali per l’esercizio di alcune attività regolate, ma anche la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 239, relativo ai beni costituenti giacimenti, sia pure in zone di mare.

2.1. Per il principio di “derivazione” del bilancio tributario dal bilancio civilistico di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83, poi, in difetto di specifiche diverse disposizioni, valgono anche per l’ordinamento fiscale le disposizioni civilistiche in tema di redazione del bilancio, compresi i principi contabili nazionali ed internazionali.

2.2. Il paragrafo 58 dello Ias 16 prevede che “i terreni e gli edifici sono beni separabili e sono contabilizzati separatamente, anche quando vengono acquistati congiuntamente”. Si precisa poi che “con qualche eccezione, come cave e siti utilizzati per discariche, i terreni hanno una vita utile illimitata e quindi non vengono ammortizzati”. Gli edifici, invece, “hanno una vita utile limitata e perciò sono attività ammortizzabili”.

Al paragrafo 59 dello Ias 16, poi, si chiarisce che “se il costo del terreno include i costi di smantellamento, rimozione e ripristino, la parte relativa al ripristino del terreno è ammortizzata durante il periodo in cui si ottengono i benefici derivanti dal sostenere i costi.

In alcuni casi, il terreno stesso può avere una vita utile limitata, nel quale caso questo è ammortizzato in modo da riflettere i benefici che ne derivano”.

3. Come correttamente osservato dalla società contribuente nel motivo di ricorso, la possibilità che il terreno abbia un “vita utile” di durata inferiore a quella “materiale” è affermata nei principi contabili, nazionali ed internazionali. In particolare, il principio nazionale OIC 16 relativo alle immobilizzazioni materiali, al paragrafo D.XI, stabilisce che “nel caso in cui il valore dei fabbricati incorpori anche quello dei terreni sui quali essi insistono, il valore dei terreni va scorporato ai fini dell’ammortamento sulla base di stime. In quei casi, invece, in cui il terreno ha un valore in quanto vi insiste un fabbricato, se lo stesso viene meno il costo di bonifica può azzerare quello del terreno, con la conseguenza che anche esso va ammortizzato”.

4. Una conferma della possibilità dell’ammortamento del costo dei terreni strumentale all’impresa si rinveniva nell’originario D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 10, poi soppresso per motivi diversi dalla pretesa incompatibilità, il quale stabiliva che “il costo dei fabbricati strumentali non suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni è assunto al netto del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Può tuttavia essere assunto al lordo del costo stesso per i fabbricati costruiti o acquistati prima dell’entrata in vigore del presente decreto”; sicché, in alcuni casi, sarebbe stato possibile ammortizzare il costo del terreno insieme con quello del fabbricato sovrastante (costo al lordo).

Pertanto, è possibile che il terreno strumentale all’esercizio dell’impresa abbia una “vita utile” più limitata rispetto alla sua materiale esistenza, e ciò può in concreto avvenire quando, al termine dell’uso produttivo, il terreno non sia più utilizzabile in modo proficuo in ragione del suo deperimento (economico se non fisico). In tali ipotesi rientrano ovviamente, le aree adibite a cave, torbiere e discariche, come pure i terreni su cui insistono impianti di distribuzione di carburante, ove rileva il costo economico della bonifica.

5. La Corte, poi, a sezioni unite, ha precisato che non rileva l’intervenuto D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 7, secondo cui, ai fini del calcolo delle quote di ammortamento deducibili, il costo dei fabbricati strumentali deve essere assunto al netto del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Tale disposizione, infatti, non solo non è applicabile, ratione temporis, alla fattispecie, ma deve comunque essere intesa nel senso che il costo dei terreni occupati dal fabbricato (ancorché separatamente individuato) è ammortizzabile, ove ciò sia eccezionalmente consentito dalle norme sopra ricordate. Le medesime considerazioni valgono anche per il D.L. n. 262 del 2006, convertito dalla L. n. 286 del 2006, nel quale si ribadisce, chiarendo alcuni dettagli, l’impostazione del predetto D.L. n. 223 del 2006.

Si è precisato che non è pertinente neppure il principio più recente OIC 16, del 2016, per cui “se il valore dei fabbricati incorpora anche quello dei terreni sui quali insistono, il valore del fabbricato va scorporato, anche in base a stime, per essere ammortizzato”; lo scorporo non esclude l’ammortamento del costo del terreno, ove ne ricorrano le eccezionali condizioni.

5.1. Si è anche affermato che con riferimento alla questione sulla pertinenza del terreno rispetto al fabbricato, ai fini dell’ammortizzabilità del costo del terreno, è irrilevante sia che questo costituisca pertinenza dell’impianto di distribuzione, sia che tale impianto sia considerato incorporato per accessione al suolo su cui sorge. Il terreno può essere ammortizzato soltanto se ha una “vita utile” temporalmente più limitata rispetto alla sua materiale esistenza. Si esclude, allora, che la accessione al suolo dell’impianto o il nesso pertinenziale con il medesimo impianto possano trasformare in limitata, una vita utile del terreno che sia, invece, in concreto e diverse, illimitata. Si precisa che non può essere eseguita l’impostazione espressa nella sentenza di questa corte (Cass., n. 3516 del 2006), ossia proprio quella citata dalla contribuente FG Investimenti nel motivo di ricorso, per cui, ai fini della tassazione del reddito di impresa, il costo di un terreno costituente pertinenza di un capannone industriale è suscettibile di essere ammortizzato allo stesso modo del costo del capannone. Come evidenziato, infatti, per l’ammortizzabilità occorre avere riguardo alla concreta “vita utile” del terreno in sé, senza automatismi interpretativi sostanzialmente ed arbitrariamente abrogativi dell’art. 2426 c.c..

L’art. 2426 c.c., comma 1, n. 2, stabilisce che “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. In generale, dunque, i terreni strumentali hanno un “vita utile” illimitata e come tali non sono suscettibili di ammortamento, ma vi sono ipotesi specifiche ed eccezionali in cui anche terreni hanno un “vita utile” temporalmente più limitata rispetto alla loro materiale esistenza.

6. Nella specie il motivo di ricorso non indica in alcun modo quale sia lo stato del terreno su cui insiste l’immobile, ma si limita a fare riferimento ad una porzione di terreno per cui v’e’ controversia, unicamente con un laconico “aree e parcheggi”, sicché non sono neppure allegate quelle condizioni eccezionali e speciali in cui anche i terreni possono essere oggetto di ammortamento, per possibile perdita di “vita utile”, come affermato dalle sezioni unite di questa Corte

7. Con il secondo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione e falsa applicazione del Tuir, art. 109 e dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Per la società costituiva circostanza pacifica quella dell’esistenza del costo di “regia” o intercompany. Con riferimento, però, all’inerenza di tali costi solo impropriamente, ed erroneamente poteva parlarsi di onere di dimostrazione a carico di una delle parti e, quindi, con riguardo ai componenti negativi di reddito del contribuente. Tra l’altro, costituivano fatti incontroversi: l’effettività dei costi addebitati alla contribuente, all’epoca ITCA Produzione s.p.a.; la loro oggettiva inerenza all’esercizio dell’impresa trattandosi di costi di natura amministrativa, “consulenziale” e gestionale; l’utilizzazione esclusiva di tali servizi da parte della contribuente.

Il giudice d’appello, avendo ritenuto non sufficiente la produzione del contratto intercompany, delle fatture, e delle schede contabili allegati al processo verbale di constatazione, avrebbe violato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. I costi, peraltro, erano stati utilizzati interamente ed esclusivamente dalla società contribuente quale unica produttrice di ricavi. In realtà, per la società la scrittura privata infragruppo del 15 aprile 2000 era specifica, in quanto le società, in base alle proprie strutture organizzative, capacità e risorse operative, si prestavano a tempo determinato reciproca assistenza nei vari adempimenti amministrativi, contabili, civilistici e fiscali. Le fatture, poi, indicavano prestazioni ricollegabili alla scrittura del 15 aprile 2005.

7.1. Il motivo è infondato.

7.2. I fatti di causa possono essere sintetizzati in questo modo; in questo procedimento si tratta dell’avviso di accertamento n. R28090300559/2008, per IRAP relativa all’anno 2005, emesso dalla Agenzia delle entrate, Ufficio di Rivoli, sulla base di un processo verbale di constatazione redatto il 31 marzo 2008 dalla Guardia di Finanza di Torino, nei confronti della ITCA, quale società consolidante della ITCA Produzione, ora FGA Investimenti, quindi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127 (anni 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007); con tale avviso di accertamento si recuperavano a tassazione tre importi: ammortamenti indeducibili relativi a terreni per l’importo di Euro 26.093,91; elementi negativi di reddito non deducibili per mancanza del requisito della certezza e dell’inerenza per l’importo di Euro 2.346.000,00; illegittima detrazione delle spese relative a personale dipendente distaccato da altra società del gruppo per Euro 4.146.000,00. Pertanto, l’Agenzia aveva accertato nei confronti di I.T.C.A. Produzione s.p.a. un recupero a tassazione, ai fini Irap, di Euro 6.518.093,91, con una maggiore imposta dovuta di Euro 277.019,00; era stata anche irrogata la sanzione pecuniaria di Euro 279.083,00.

Dal controricorso emerge in modo chiaro la composizione del gruppo societario, in cui la società ITCA Produzione s.p.a., facente parte del gruppo ITCA, nell’anno 2005, era interamente partecipata dalla ITCA Tools s.p.a. ed entrambe, a loro volta, erano controllate dalla I.T.C.A. s.p.a. che, a decorrere dal 23 giugno 2010, ha assunto la denominazione FGA investimenti s.p.a. (cfr. controricorso dell’Agenzia delle entrate). Le società, a partire dal 2004, avevano aderito al consolidato nazionale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 117, nell’ambito del quale la I.T.C.A. s.p.a. era la società consolidante.

7.3. Va premesso che il fenomeno giuridico ed economico dei gruppi aziendali, operanti in collegamento nel territorio dello Stato, ha comportato il diffondersi di operazioni aziendali di tipo difensivo che, nate per la più conveniente allocazione dell’imponibile tra le società associate, sono spesso sfociate in vere e proprie operazioni elusive (Cass., 17955/2013), il che comporta una particolare rigore, in linea generale, nella valutazione delle operazioni intercompany che hanno destato anche l’attenzione dell’OCSE (Cass., 16480/2014; Cass., sez. 5, 6 luglio 2021, n. 19166).

Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in materia di costi c.d. infragruppo, ovvero laddove la società capofila di un gruppo di imprese decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi tra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione, l’onere della prova in ordine all’esistenza ed all’inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinché il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata (Cass., sez. 5, 6 luglio 2021, n. 19166; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32422; Cass., 23027/2015; Cass., 8808/2012; Cass., 11949/2012).

7.4. Da ciò consegue che la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali e sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) è subordinata all’effettività ed inerenza della spesa in ordine all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che ne sia derivato a quest’ultima, non ritenendosi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi (Cass., sez. 5, 22 marzo 2021, n. 8001; Cass., 18 luglio 2014, n. 16480), richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio (Cass., 16480/2014; Cass., 14016/1999; in relazione ai costi di regia cfr. Cass., 4 ottobre 2017, n. 23164).

In particolare, si tratta di verificare la sostanza aziendale ed economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste e l’utilità obiettiva.

Rileva, dunque, il principio dell’arm’s lenght, ossia quello di garantire che il prezzo praticato e le condizioni stabilite in transazioni tra soggetti collegati siano i medesimi previsti nei rapporti tra soggetti terzi indipendenti (cfr. OECD, Transfer Pricing Guidelines, 2017). L’Amministrazione finanziaria è tenuta a contestare non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese di un gruppo, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.

7.5. Spetta, dunque, alla contribuente, secondo i criteri generali, fornire tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità dei costi sostenuti per ottenere i servizi prestati dalla controllante, tra i quali l’effettiva utilità dei costi stessi per la controllata, anche se a quei costi non corrispondono direttamente ricavi in senso stretto (Cass., 5 dicembre 2018, n. 31405)

7.6. Peraltro, è stata ritenuta legittima la prassi amministrativa (C.M. 22 settembre 1980, n. 32/9/2267) che, al di là della forfettizzazione percentuale dei costi di addebitati dalla capogruppo alle controllate, subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) all’effettività e all’inerenza della spesa all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che deriva a quest’ultima (Cass., 11 novembre 2015, n. 23027), senza che rilevino in proposito quelle esigenze di controllo della capogruppo, peculiari della sua funzione di shareholder (Cass., 18 luglio 2014, n. 16480).

7.7. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, e risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184; Cass., 9466/2017).

7.8. Nella specie, la contribuente, società controllata, si è limitata a produrre un contratto stipulato con la società controllante (ITCA s.p.a.) e l’altra società controllata (ITCA Tools s.p.a.), in cui le prestazioni vengono descritte in modo del tutto generico e superficiale. Tale contratto, peraltro, come evidenziato dal giudice d’appello non era munito di data certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c., sicché era inopponibile all’Amministrazione finanziaria. La Commissione regionale ha anche sottolineato l’assoluta genericità delle fatture relative ai rapporti tra le varie società, neppure in regola ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21.

Pertanto, non v’e’ stata alcuna violazione della regola di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.; a fronte della contestazione specifica dell’Agenzia delle entrate, la contribuente si è limitata alla produzione di un contratto intercompany del tutto generico, che, al più, poteva rappresentare un “contratto quadro”, che necessitava di ulteriori impegni negoziali, con allegazione di fatture altrettanto imprecise. La motivazione del giudice d’appello, in piena aderenza agli elementi istruttori in atti, è del tutto congrua ed articolata, non tralasciando alcuna circostanza fattuale (” in altri termini le prove precostituite offerte non sono altro che copie di alcune schede contabili e di alcune fatture che nulla aggiungono agli elementi di causa. Ne’ l’assolvimento del suddetto peso processuale fu assolto mediante la produzione in atti del contratto di prestazione di servizio da cui sarebbe derivata la ripartizione delle suddette spese. Tuttavia, preliminarmente all’esame nel merito del contenuto di tale contratto è doveroso valutare la critica su tale patto svolta dall’Ufficio, ovvero che la mancanza di data certa anteriore la verifica tributaria precluderebbe il dispiegarsi dei suoi effetti nei confronti dei terzi, da cui l’ufficio”). Continua il giudice d’appello affermando che “a parte la produzione in atti dei documenti allegati al PVC e il sopra descritto contratto, la contribuente non fornì a questa Commissione altri elementi tali da far ritenere assolto l’onere della dimostrazione dei costi su di essa incombenti”.

Il contenuto del contratto viene riportato nel controricorso, oltre che nella motivazione della sentenza del giudice di prime cure (cfr. pagina 10 del controricorso), ed è rappresentato dalla scrittura privata del 15 aprile 2005, con cui le società del gruppo, ossia I.T.C.A. s.p.a., quale consolidante, ITCA Tools s.p.a., consolidata, e I.T.C.A. Produzione s.p.a., società contribuente consolidata, hanno convenuto che “in base alle proprie strutture organizzative, capacità e risorse operative, di prestarsi, a tempo indeterminato, reciproca assistenza nei vari adempimenti amministrativi, contabili, civilistici e fiscali”. All’esito di tale accordo i costi della società consolidante (I.T.C.A. s.p.a.) e della controllata (ITCA Tools s.p.a.) sono stati interamente addebitati alla I.T.C.A. Produzione s.p.a., unica società produttiva del gruppo. I costi, relativi all’anno 2005, per le spese sostenute dalla società ITCA Tools e dalla I.T.C.A. erano, rispettivamente, per Euro 708.000,00 e per Euro 1.138.000,00, per un ammontare complessivo di Euro 2.346.000,00. Tali spese erano state considerate come un’unica prestazione di servizio complessa, imponibile ai fini Iva.

Le richieste di ulteriore documentazione da parte dell’Agenzia delle entrate non sono state esaudite, in quanto la contribuente, come risulta dal PVC, ha dichiarato di non aver formalizzato nulla al riguardo “poiché implicitamente rendicontate ed accettate nell’ambito degli ordinari rapporti infra gruppo” (cfr. anche pagina 7 dell’avviso di accertamento, trascritto in parte nel controricorso dell’Agenzia). Pertanto, come correttamente rilevato dal giudice d’appello, nella sua completa motivazione, alla generica scrittura intercompany non è seguita la produzione di alcun contratto specifico tra le parti, attestante l’esistenza alla natura delle prestazioni effettivamente rese.

8. E’ del tutto fuori centro la doglianza della società, che ritiene l’assoluta pacificità della esistenza delle spese sostenute da essa per le prestazioni asseritamente resa in suo favore da parte della società controllante I.T.C.A. s.p.a. e della società controllata ITCA Tools (cfr. pagine 4 e 5 del ricorso per cassazione “nel caso in esame i fatti, allegati nel ricorso introduttivo a prova della esistenza e della inerenza dei costi, erano pacifici in causa”). In realtà, sempre dal ricorso per cassazione emerge che l’Agenzia delle entrate non aveva ritenuto in alcun modo pacifici i fatti, ma aveva solo evidenziato che i costi delle pretese prestazioni erano stati addebitati tutti alla società contribuente (controdeduzioni dell’Agenzia delle entrate in prime cure “i costi delle predette società, sulla scorta dei citati accordi intercompany, risultavano essere stati interamente addebitati alla I.T.C.A. Produzione s.p.a. in quanto, come affermato da ultimo, anche nel ricorso, unica società produttiva del gruppo”). Inoltre, nell’avviso di accertamento si dà atto della assenza di documentazione dei costi sostenuti dalla società contribuente (cfr. pagina 22 del controricorso “per quanto attiene al requisito della documentabilità, si sottolinea come debba essere assicurato in ogni fase della transazione, dalla prova dell’evidenza dell’attività svolta, alla ragionevolezza del corrispettivo pattuito sino al carattere oggettivo di ripartizione dei costi adottato dalla capogruppo”), con la precisazione che “oltre al principio generale della inerenza e della certezza sopra menzionati, occorre in ultimo tenere presente il requisito della congruità, attraverso il quale i costi in analisi devono essere suddivisi tra le varie consociate in relazione ai benefici che ciascuna può ottenere dalla loro utilizzazione”. Sempre nell’avviso di accertamento si rileva che “alla luce di quanto sopra esposto e della carenza di documentazione esibita non si ritengono sussistenti i prescritti requisiti di inerenza, certezza e congruità richiesti dalle norme generali sui componenti negativi del reddito di impresa”. L’assenza di documentazione e, quindi di certezza, dei costi viene ribadito dall’Amministrazione nelle controdeduzioni nel giudizio di prime cure ove si afferma che “controparte non ha cercato di proporre una benché minima difesa sull’altro rilievo sollevato dall’ufficio sempre con riferimento alla violazione del Tuir, art. 109, sotto il diverso profilo dell’omessa documentabilità dei costi asseritamente sostenuti” (cfr. pagina 23, costituzione in giudizio dell’Ufficio); tanto più che l’atto di appello dell’Ufficio mirava proprio a censurare la sentenza di prime cure che aveva omesso di pronunciarsi proprio su tale profilo (omessa dimostrazione del requisito della certezza e, quindi, di quello dell’inerenza dei costi), in un contesto di evasione di imposta, e non di elusione fiscale, sub specie di abuso del diritto, come erroneamente affermato dalla Commissione provinciale.

E’ evidente, poi, stante il tenore estremamente generico del contratto intercompany, che le fatture e le schede contabili, essendo compilate anch’esse in modo assolutamente generico, non erano sufficienti a dare la prova della esistenza dei servizi asseritamente espletati in favore della società contribuente, sia dalla società controllante I.T.C.A. s.p.a. sia dall’altra società controllata ITCA Tools. Inoltre, il contratto sottoscritto dalle società, per essere opponibile all’amministratore fiscale, deve essere munito di data certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c.. Si è affermato, infatti, che il legislatore ha inteso ampliare il concetto di terzo cui fa riferimento l’art. 2704 c.c., comprendendovi anche l’Amministrazione finanziaria, titolare di un diritto di imposizione collegato al negozio documentato e suscettibile di pregiudizio per effetto di esso (Cass., sez. 5, 17 dicembre 2008, n. 29451, seppure relativa ad imposta di registro; Cass., sez. 5, 5 marzo 2021, n. 6159, in tema di Ici; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2014, n. 3937, sempre in tema di imposta di registro). La Commissione regionale ha enucleato in modo chiaro e trasparente il proprio ragionamento logico deduttivo per giungere alla conclusione che la contribuente non aveva in alcun modo dimostrato l’esistenza, oltre che l’inerenza, dei costi.

Come riportato nel controricorso, infatti, la fattura n. 100011 emessa il 15 novembre 2006 dalla ITCA Tools conteneva quale causale quella del “ribaltamento spese enti centrali”; allo stesso modo la fattura n. 13 emessa il 15 novembre 2006 dalla I.T.C.A. s.p.a. conteneva la generica causale “ribaltamento spese enti centrali anno 2005”.

9. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 2, e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. La società, nell’appello incidentale, ha dedotto che l’Agenzia delle entrate non ha dimostrato che il personale della ITCA Tools, che lavorava presso la società contribuente, fosse stato “distaccato” dalla prima società. Il distacco, ai sensi del D.Lgs. n. 273 del 2003, art. 30, è un istituto attraverso il quale un datore di lavoro, per soddisfare un “proprio” interesse mette a disposizione, temporaneamente, di un altro datore uno o più lavoratori per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. In realtà, ITCA Tools non ha mai inteso distaccare personale presso la I.T.C.A. Produzione ma, semplicemente, effettuare una prestazione di servizio mediante utilizzo del proprio personale presso la sede del cliente. L’amministrazione non avrebbe dimostrato il contrario. Pertanto, in assenza di qualunque distacco di personale, ITCA Tools, proprio in quanto non ha operato alcun distacco, non ha indicato in sede di determinazione della base imponibile ai fini Irap il corrispettivo del servizio effettuato in favore della I.T.C.A. Produzione. Pertanto, se per il soggetto che distacca il proprio personale, gli importi non concorrono alla formazione della base imponibile Irap, allo stesso modo, con riferimento al soggetto che impiega il personale distaccato, tali importi si considerano costi relativi a personale non ammessi in deduzione (neutralizzazione dell’operazione). La ripresa fiscale si è fondata unicamente sulla fattura relativa al costo del personale utilizzato presso la società contribuente, che recava la causale “distacco di personale”. Tuttavia, sarebbe stata necessaria un’indagine volta ad acclarare la vera natura del rapporto tra le 2 società, essendo onere dell’amministrazione dare una configurazione diversa rispetto a quella rappresentata in bilancio. Tali spese erano state iscritte nel conto economico della società contribuente nel conto n. 504510451011, per “prestazioni di manodopera intercompany” alla voce B7, “costi per servizi” rilevante quindi, anche ai fini Irap.

L’operazione, peraltro, era stata assoggettata ad Iva, mentre se fosse stata considerata un prestito di personale sarebbe stata sottoposta al relativo regime fiscale (esenzione). L’indicazione nella fattura della causale, distacco di personale” dimostra l’evidente imprecisione nella redazione della stessa, ma non poteva costituire un semplice indizio della natura di prestito personale affermata dalla sentenza impugnata.

9.1. Il motivo è infondato.

9.2. Anzitutto, si rileva che la ricorrente, pur censurando la sentenza d’appello per violazione di legge, in considerazione dei parametri di cui al D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 2, al D.Lgs. n. 273 del 2003, art. 30 ed all’art. art. 2697 c.c., in realtà chiede una nuova valutazione degli elementi di fatto, già congruamente verificati dal giudice d’appello, non consentita in sede di legittimità.

9.3. Peraltro, il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, all’epoca vigente, prevede al comma 2, che “gli importi spettanti a titolo di recupero di oneri di personale distaccato presso terzi non concorrono alla formazione della base imponibile. Nei confronti del soggetto che impiega il personale distaccato, tali importi si considerano costi relativi a personale non ammessi in deduzione”. Pertanto, in presenza di personale distaccato presso terzi, gli importi che spettano al soggetto distaccante, nella specie la ITCA Tools, non sono soggetti a tassazione, in quanto non concorrono alla formazione della base imponibile; ma, nella specie, come si vedrà, la ITCA Tools ha conteggiato tali importi ai fini della determinazione del reddito di impresa, considerandoli, dunque, come ricavi del contratto di appalto e non come “importi spettanti a titolo di recupero di oneri di personale distaccato”. Quanto, invece, alla posizione del distaccatario, quindi della I.T.C.A. Produzione, tale norma dispone l’indeducibilità dei costi relativi al personale distaccato.

Diventa così dirimente la qualificazione del rapporto intercorso tra le due società, appartenenti al medesimo gruppo.

9.4. Deve anche essere definito il rapporto di distacco, con l’enunciazione dei requisiti indispensabili per la configurazione di tale fattispecie.

9.5. Il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 30, in vigore dal 24 ottobre 2003 al 25 ottobre 2004, prevede, al comma 1, che “l’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa”. Al comma 2 si aggiunge che “in caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore”. Al comma 3, si dispone che “il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato. Quando comporti un trasferimento a una unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive”.

Il D.Lgs. n. 277 del 2003, art. 30, è stato poi modificato a decorrere dal 26 ottobre 2004 e fino al 22 agosto 2013, con l’aggiunta del comma 4-bis, il quale dispone “quando il distacco avvenga in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’art. 27, comma 2”.

L’art. 30 ha subito, poi, una ulteriore modifica, a decorrere dal 23 agosto 2013, con l’introduzione del comma 4-ter, in base al quale “qualora il distacco di personale avvenga tra aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete di impresa che abbia validità ai sensi del D.L. 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 9 aprile 2009, n. 33, l’interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell’operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall’art. 2103 c.c….”. Tale ultima disposizione non è applicabile alla fattispecie in esame, ratione temporis, ma va esaminata con valenza interpretativa.

9.6. Per questa Corte (Cass., sez. 5, 9 giugno 2021, n. 16067), ai fini della individuazione dei perimetri della fattispecie del distacco, deve tenersi conto di tre requisiti indispensabili: l’interesse della distaccante; la temporaneità distacco; il ruolo di datore di lavoro che resta in capo al distaccante.

Invero, si è affermato che la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all’assunzione del lavoratore e l’effettivo beneficiario della prestazione (c.d. distacco o comando) è consentita soltanto a condizione che essa realizzi, per tutta la sua durata, uno specifico interesse imprenditoriale tale da consentirne la qualificazione come atto organizzativo dell’impresa che la dispone, così determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e la conseguente temporaneità del distacco, coincidente con la durata dell’interesse del datore di lavoro allo svolgimento della prestazione del proprio dipendente a favore di un terzo. Il relativo accertamento è riservato al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi (Cass., sez. L, 15 maggio 2012, n. 7517).

Infatti, in caso di distacco del dipendente privato, si determina una mera modifica, con carattere non definitivo, delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, che viene a svolgersi presso un terzo. L’interesse del datore di lavoro, distaccante, a che la prestazione sia resa anche a favore del terzo, costituisce l’elemento di reale qualificazione della fattispecie, oltre che il criterio distintivo dalla variegata fenomenologia dell’interposizione illecita di manodopera (Cass., sez. L, 26 aprile 2006, n. 9557). Il distacco va, dunque, considerato quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, ed è giustificato, sul piano funzionale, dalla permanente connessione con la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante. Pertanto, la temporaneità della destinazione del lavoratore a prestare la propria opera a favore di un terzo, distaccatario, che configura, comunque, uno dei presupposti di legittimità dell’istituto, non richiede che tale destinazione abbia una durata predeterminata, né che essa sia più o meno lunga ossia contestuale all’assunzione del lavoratore, ovvero persista per tutta la durata del rapporto, richiedendosi solo che la durata del distacco coincida con quella dell’interesse del datore di lavoro alla destinazione della prestazione di lavoro a favore di altra organizzazione di impresa (Cass., sez. L, 15 maggio 2012, n. 7517; Cass., sez. L, 25 novembre 2010, n. 23933).

Tali caratteristiche della fattispecie, frutto di elaborazione giurisprudenziale, hanno poi trovato conferma nella successiva evoluzione normativa, di cui appunto al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, ottenendo l’espressa conferma, non solo che il distacco deve soddisfare un interesse proprio del datore di lavoro, ma anche che il lavoratore possa essere messo a disposizione presso altro soggetto solo temporaneamente e per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.

L’interesse per la società distaccante è stato individuato (Cass., sez. 5, 9 giugno 2021, n. 16067), per esempio, nell’esigenza di qualificare il personale in relazione alla realtà produttiva dell’azienda distaccataria ed in vista della creazione di un polo unitario. Deve trattarsi, insomma, di uno specifico interesse imprenditoriale, anche non economico, che consenta però di qualificare il distacco quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, determinandosi una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa ed il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso. Può essere, dunque, valorizzata l’acquisizione di particolari professionalità dei dipendenti, determinata dal distacco dei lavoratori.

L’interesse del distaccante è stato anche individuato nell’incremento della polivalenza professionale del lavoratore distaccato, anche in ipotesi di crisi aziendale temporanea, in attesa della ripresa produttiva (Cass., sez. L, 11 settembre 2020, n. 18959). Proprio le mansioni assegnate, diverse da quelle espletate presso il distaccante, possono costituire un indice sintomatico del perseguito incremento della polivalenza professionale. L’interesse al distacco può essere anche di natura non economica o patrimoniale in senso stretto, e pure di tipo solidaristico; l’importante è che non si risolva in una mera somministrazione di lavoro altrui.

9.7. Per questa Corte, invece, l’interesse del distaccante può essere diversamente configurato nell’ipotesi di gruppo societario. Si è affermato, dunque, che, in caso di distacco di un lavoratore presso una società inserita nel medesimo gruppo di imprese, sussiste uno specifico interesse del datore di lavoro distaccante a contribuire alla realizzazione di una struttura organizzativa comune, in coerenza con gli obbiettivi di maggiore funzionalità del raggruppamento, sicché, pur in un contesto di diversa soggettività giuridica, va esclusa la violazione del divieto di interposizione di manodopera di cui alla L. n. 1369 del 1960, art. 1, “ratione temporis” applicabile, in linea con l’evoluzione normativa dell’istituto di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, comma 4-ter, introdotto dal D.L. n. 76 del 2013, conv. con modif. dalla L. n. 99 del 2013 – nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il distacco di una lavoratrice presso un ufficio di altra società del gruppo che si occupava della gestione amministrativa di tutte le società del raggruppamento – (Cass., sez. L, 21 aprile 2016, n. 8068).

Nel caso di cui sopra, scrutinato da questa Corte, si è affermato che, pur nel contesto di una distinta soggettività giuridica, ciascuna componente del gruppo di imprese sia titolare dell’interesse a concorrere, anche mediante il distacco di propri dipendenti, alla realizzazione di comuni strutture produttive e organizzative, che si pongano in un rapporto di coerenza con gli obiettivi di efficienza e di funzionalità del gruppo stesso, oltre che con il dato unificante di una convergenza di interessi economici, anche intesa come progetto di riduzione attuale o potenziale dei costi di gestione. In tali casi, l’interesse del soggetto distaccante non può essere separato da quello del raggruppamento di cui il soggetto stesso è parte economicamente integrata e risulta anzi direttamente connesso e funzionale all’attuazione di quest’ultimo. Ciò trova conferma, proprio nell’introduzione, ad opera del D.L. 28 giugno 2013, n. 76, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 30, comma 4-ter. Si è precisato, peraltro che il riferimento atecnico alla “automaticità” del sorgere dell’interesse del distaccante, deve essere più esattamente ricondotto entro lo schema della presunzione assoluta; è significativo, infatti, che la disposizione in esame connetta il venire ad esistenza dell’interesse al fatto di base, costituito dall’operare della rete, e cioè ad un fatto, che è ad un tempo giuridico ed economico, della funzionalità del contratto di rete di impresa, con il quale più imprenditori perseguendo scopi comuni in termini di innovazione e di competitività, stabilendo rapporti di collaborazione nell’esercizio delle loro imprese. Pertanto, in presenza dell’inserimento del soggetto distaccante e di quello distaccatario in un medesimo gruppo, si pone in evidenza il carattere sinergico dell’intervento organizzativo volto a costituire un “unico polo” per l’amministrazione del personale dipendente delle società facenti capo ad esso, con la corrispondenza del distacco del lavoratore ad una comune esigenza di razionalità ed economicità del servizio.

In questo caso, comunque, ove si è ritenuto esistente l’istituto del distacco, la lavoratrice era stata distaccata presso l’ufficio di altra società del gruppo, che però si occupava della gestione amministrativa di tutte le società del raggruppamento.

Tuttavia, nel caso in esame è la stessa società ad ammettere, nella redazione della fattura relativa alle spese (n. 100011 del 15 novembre 2006), per l’importo di Euro 4.146.000,00, che i costi dei lavoratori della ITCA Tools, che si trovano ad operare presso la I.T.C.A. Produzione, sono relativi al “distacco di personale”. E’, perciò, la stessa società contribuente ad ammettere l’esistenza dell’istituto del distacco nell’ambito del rapporto contrattuale con la ITCA Tools. Trattasi, quindi, di un indizio grave e preciso in ordine al “distacco” di personale dalla ITCA Tools alla I.T.C.A. Produzione. L’art. 2709 c.c. pattuisce che “i libri e le altre scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore”, sicché anche le fatture, accettate dal destinatario, senza alcuna contestazione, fanno presumere l’esistenza del “distacco di personale”. Per questa Corte, infatti, la fattura commerciale ha non soltanto efficacia probatoria nei confronti dell’emittente, che vi indica la prestazione e l’importo del prezzo, ma può costituire piena prova nei confronti di entrambe le parti dell’esistenza di un corrispondente contratto allorché risulti accettata dal contraente destinatario della prestazione che ne è oggetto (Cass., sez. 2, 21 ottobre 2019, n. 26801; Cass., 13 giugno 2006, n. 13651; Cass., 3 luglio 1998, n. 6502). Pertanto, solo la fattura non accettata o contestata non costituisce di per sé fonte di prova unilaterale a favore di chi le mette, né produce un’inversione dell’onere probatorio secondo i principi ordinari. La fattura non accettata, comunque, quando il rapporto sia contestato fra le parti, ancorché annotata nei libri obbligatori, non può assurgere a prova del negozio ma costituisce al più un mero indizio (Cass., 20 maggio 2004, n. 9593).

Per questa Corte, peraltro, la fattura accettata ha piena efficacia probatoria anche nei confronti di terzi estranei al rapporto contrattuale, in ordine al preesistente contratto ed ai suoi elementi oggettivi e soggettivi quando abbia data certa ai sensi dell’art. 2704 c.c. (Cass., 26 novembre 1979, n. 6190).

Era onere, allora, della società dimostrare che, nonostante la dizione contenuta nella fattura emessa dalla ITCA Tools, in realtà non si trattava di “distacco” di personale da questa società a quella contribuente, ma di una prestazione di servizi, senza che ricorressero i requisiti tipici dell’istituto del distacco. Tale dimostrazione non è stata fornita dalla società, in base al giudizio di merito svolto in modo adeguato ed analitico dal giudice d’appello, non sindacabile in sede di legittimità.

Tra l’altro, la società ha articolato il proprio motivo di ricorso per cassazione solo come violazione di legge, e non come vizio di motivazione o, più precisamente, come omesso esame di fatti decisivi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come declinato a seguito del D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012.

Si legge nella motivazione del giudice di appello che “la fattura relativa al costo del personale utilizzato presso la società accertata recava espressamente la clausola: distacco di personale”. Pertanto, era “irrilevante che la società distaccante non (avesse) correttamente contabilizzato il relativo corrispettivo, dal momento che era la società accertata, a mente del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, che non doveva e neppure poteva portare in deduzione la relativa spesa ai fini Irap”.

Pertanto, la Commissione regionale ha esaminato sia la circostanza relativa alla causale indicata nella fattura emessa dalla ITCA Tools nei confronti della I.T.C.A. produzione, sia la circostanza relativa alla contabilizzazione del corrispettivo da parte della ITCA Tools, che lo ha inserito tra i ricavi dell’impresa, assoggettandolo ad imposta.

Del resto, già il giudice di prime cure, aveva rigettato la doglianza della società evidenziando che la condotta di ITCA Tools s.p.a., che ha indicato gli importi delle prestazioni nella propria dichiarazione dei redditi e, quindi, nel bilancio, come ricavi, assoggettati a tassazione, e non esentati ai fini Irap, non era sufficiente a superare quanto riportato in fattura (“distacco del personale”). Invero, la Commissione provinciale ha ritenuto “non risolutivo quest’ultimo assunto (la condotta contabile di ITCA Tools) e non sufficiente a superare la prova della fornitura della manodopera dimostrata dalla fattura, ovvero da un documento avente valenza fiscale e conseguente rilievo probatorio”. Si è aggiunto sul punto: “Che tale attività sia stata qualificata tra le parti come distacco di personale emerge, peraltro, dalla stessa fattura emessa dalla distaccante nei confronti della società beneficiaria delle prestazioni lavorative, con la quale ITCA Tools s.p.a. qualifica le prestazioni offerte dei propri dipendenti come attività di distacco del personale. Allo stesso tempo I.T.C.A. Produzione s.p.a. non ha fornito validi elementi finalizzati a contrastare le deduzioni offerte dall’Agenzia ed in particolare non ha dimostrato che l’attività svolta in proprio favore non rientrava e non configurava operazione di distacco”.

Tra l’altro, l’argomento dell’errore nell’indicazione in fattura della dizione di “distacco di personale” è stato sollevato dalla società solo in sede di appello, astenendosi comunque la società dal dimostrare una diversa qualificazione del rapporto giuridico rispetto a quella risultante dalla fattura.

10. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “nullità della sentenza per omessa pronuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. La società aveva chiesto, con riferimento alle sanzioni amministrative, l’applicabilità della scriminante di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, per l’obiettiva incertezza della normativa applicabile. La sentenza d’appello ha completamente omesso di esaminare la doglianza della società.

10.1. Il motivo è fondato.

10.2. Infatti, il giudice d’appello non prende in alcun modo in considerazione la doglianza della società in ordine alla applicazione della sanzione, né nello svolgimento del processo né nella parte dedicata alla motivazione.

11. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il quarto motivo di ricorso; rigetta i restanti; cassa la sentenza impugnata in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2022

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