Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7431 del 18/03/2020

Cassazione civile sez. I, 18/03/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 18/03/2020), n.7431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4642/2019 proposto da:

D.N., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Mazzini N. 8

presso lo studio dell’avvocato Cecchini Cristina Laura che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Feroci Consuelo;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei

Portoghesi 12 Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1906/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 11/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/01/2020 dal Cons. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata in data 11.09.2018, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Ancona ha rigettato la domanda di D.N., cittadina del Senegal, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale e, in subordine, di quella umanitaria.

Il giudice di merito ha ritenuto, in primo luogo, insussistenti i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, trattandosi di vicenda di natura privata che la ricorrente avrebbe potuto risolvere chiedendo la protezione al proprio Stato (costei aveva riferito di essere fuggita dal Senegal a seguito delle aggressioni sia fisiche che verbali perpetrate da alcuni uomini incaricati da un uomo facoltoso che la voleva in moglie con il consenso della sua famiglia, ma senza che la stessa fosse d’accordo).

Il giudice d’appello ha, inoltre, ritenuto inesistenti i requisiti per il riconoscimento della protezione sussidiaria in ragione dell’insussistenza di una situazione di violenza diffusa e generalizzata nel paese di provenienza del ricorrente.

Il ricorrente non è stato, altresì, ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari, difettando in capo allo stesso i presupposti per il riconoscimento di una sua condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione D.N. affidandolo a due motivi.

Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, della direttiva 2004/83/CE e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 14.

Lamenta la ricorrente che il convincimento dei giudici di merito si è fondato esclusivamente sul racconto dallo stesso fornito alla Commissione, mentre il potere istruttorio ufficioso di cui dispone il giudice in materia avrebbe imposto la formulazione di proprie domande per fondare un autonomo convincimento sul suo racconto, tenuto anche conto che aveva richiesto negli atti del giudizio di essere sentito con interrogatorio non formale.

2. Il motivo presenta è inammissibile.

Le censure svolte dal ricorrente in ordine sia al giudizio di credibilità formulato dalla Corte territoriale, sia alla dedotta necessità di una sua nuova audizione non colgono la ratio decidendi del provvedimento impugnato.

Infatti, la Corte d’Appello, a differenza del giudice di primo grado, non ha affatto evidenziato la mancanza di credibilità della vicenda narrata dalla richiedente, quanto che, trattandosi di vicenda di natura privata, in alcun modo collegata alla situazione socio politica del Senegal, la ricorrente avrebbe potuto rivolgersi alle Autorità del suo paese e denunciare le minacce ed aggressioni subite, non comprendendosi i motivi per cui la stessa non aveva, invece, richiesto la protezione al proprio Stato.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Lamenta il ricorrente che la mancanza di una situazione di pericolo nel paese di origine non preclude l’accesso al permesso umanitario, risultando idonea in tal senso una qualsiasi lesione di diritti umani di particolare entità.

4. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, in primo luogo, non è sufficiente la generica deduzione della violazione dei diritti fondamentali nel Paese d’origine. Sul punto, questa Corte ha già affermato che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini, Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, la ricorrente non solo non ha neppure dedotto, se non in modo molto generico, la lesione in Senegal dei diritti umani, non correlando tale allegazione alla sua condizione personale se non con il mero riferimento alla propria vicenda narrata che, pur ritenuta attendibile dai giudici di merito, non era tale da determinare in capo alla richiedente il pericolo di grave danno alla vita o alla persona.

Costei avrebbe, infatti, potuto ricevere piena tutela attraverso la richiesta di protezione alle autorità del proprio Stato, richiesta inspiegabilmente non formulata dalla medesima.

Infine, in ordine alla dedotta integrazione del ricorrente nel paese di accoglienza, la giurisprudenza di questa Corte ha condivisibilmente ritenuto che tale elemento può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.100,00, oltre S.P.A.D..

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, se dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2020

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