Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7427 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 25/02/2010, dep. 26/03/2010), n.7427

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.P., F.F., C.F., P.

P., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA TOSCANA 1,

presso lo studio dell’avvocato CERULLI IRELLI GIUSEPPE, rappresentati

e difesi dall’avvocato CAVALLUCCI EUGENIO, giusta delega a margine

del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1193/2006 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 26/09/2006 R.G.N. 1552/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/02/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato GIOVANNI GIUSEPPE GENTILE per delega GIAMMARIA

PIERLUIGI;

udito l’Avvocato CERULLI IRELLI GIUSEPPE per delega CAVALLUCCI

EUGENIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per inammissibilità o rigetto del

ricorso.

 

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Firenze, depositato il 24.2.2003, B.P., F.F., C. F. e P.P., assunti dalla società Poste Italiane s.p.a. con contratti a tempo determinato, decorrenti dal maggio 2002 e con scadenza nell’ultima decade di agosto dello stesso anno, “per far fronte agli incrementi di attività o esigenze produttive particolari e di carattere temporaneo, connesse alla gestione degli adempimenti ICI, che non possono essere soddisfatte con il personale in servizio”, rilevavano la illegittimità del termine apposto ai contratti in questione in quanto stipulati per un periodo di tempo superiore rispetto alla effettiva gestione dei menzionati adempimenti ICI. Chiedevano pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto ai predetti rapporti di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione degli stessi in contratti a tempo indeterminato, con condanna della società alla riassunzione in servizio ed alla corresponsione delle retribuzioni non corrisposte.

Con sentenza in data 13.1.2004 il Tribunale adito accoglieva la domanda e dichiarava la natura a tempo indeterminato dei rapporti in questione, condannando la società convenuta al ripristino dei rapporti ed al pagamento in favore dei ricorrenti della retribuzione, con accessori, dalla data di notifica del ricorso.

Avverso tale sentenza proponeva appello la società Poste Italiane s.p.a. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e rilevando la effettiva sussistenza, nel periodo in cui i lavoratori erano stati assunti con i predetti contratti a termine, delle esigenze indicate nella causale della assunzione.

Avverso la stessa sentenza proponevano altresì appello incidentale i lavoratori in questione, chiedendo il riconoscimento delle retribuzioni da data anteriore a quella statuita in sentenza.

La Corte di Appello di Firenze, con sentenza in data 19.9.2006, rigettava entrambe le impugnazioni.

In particolare la Corte territoriale rilevava che i contratti in questione, sebbene fornissero una circostanziata specificazione delle concrete ragioni poste a fondamento della stipulazione dei predetti contratti a termine, erano stati peraltro stipulati per un periodo superiore rispetto alla effettiva e concreta gestione degli adempimenti ICI, circostanza che rendeva insussistente il nesso causale richiesto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, tra le esigenze dedotte e l’assunzione dei lavoratori.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la società Poste Italiane s.p.a. con due motivi di impugnazione.

Resistono con controricorso i lavoratori intimati.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione ed erronea applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Rileva in particolare che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto, in base ad una non corretta interpretazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e ad una non corretta valutazione delle prove assunte, che nella fattispecie in esame mancasse la prova del nesso causale tra le disposte assunzioni e le necessità aziendali, argomentando dalla circostanza che gli adempimenti ICI, posti a base della assunzioni temporanee, si erano esauriti nel mese di giugno, mentre i relativi contratti a termine avevano una durata sino al mese di agosto.

Osserva la ricorrente che gli effetti riflessi di incremento del lavoro ordinario degli uffici postali, a causa del pagamento a fine giugno dei versamenti d’imposta, si erano prolungati per un cospicuo lasso di tempo, siccome emerso dalla compiuta istruttoria, di talchè l’assunto della Corte territoriale si appalesava infondato in diritto e sorretto da motivazione contraddittoria ed insufficiente.

Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione del disposto di cui agli artt. 210 e 421 c.p.c., avendo la Corte territoriale omesso qualsiasi statuizione in merito alla richiesta formulata dalla società appellante di esibizione della documentazione (libretti di lavoro e buste paga) al fine di consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti dai dipendenti per attività svolte alle dipendenze ovvero nell’interesse di terzi.

Posto ciò, rileva il Collegio che in corso di causa è stato depositato un verbale di conciliazione in sede sindacale in data 19.1.2009 concernente la controversia fra Poste Italiane e F. F.; dal suddetto verbale di conciliazione, debitamente sottoscritto dal lavoratore interessato, oltre che dal rappresentante delle Poste Italiane s.p.a., risulta che le parti hanno raggiunto un accordo transattivo concernente la controversia de qua, dandosi atto dell’intervenuta amichevole e definitiva conciliazione a tutti gli effetti di legge; ed analoghi verbali di conciliazione in sede sindacale, rispettivamente del 4.2.2009 e del 23.9.2008, risultano depositati con riferimento ai dipendenti C.F. e P. P..

Ad avviso del Collegio i suddetti verbali di conciliazione si palesano idonei a dimostrare la cessazione della materia del contendere nel giudizio di Cassazione ed il conseguente sopravvenuto difetto di interesse delle parti a proseguire il processo; alla cessazione della materia del contendere consegue pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso nei confronti dei lavoratori sopra indicati in quanto l’interesse ad agire, e quindi anche ad impugnare, deve sussistere non solo nel momento in cui è proposta l’azione o l’impugnazione, ma anche nel momento della decisione in relazione alla quale, ed in considerazione della domanda originariamente formulata, va valutato l’interesse ad agire (Cass. S.U. 29 novembre 2006 n. 25278).

In definitiva il ricorso nei confronti dei predetti dipendenti deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse; tenuto conto del contenuto dell’accordo transattivo intervenuto tra le parti, si ritiene conforme a giustizia compensare integralmente tra le stesse le spese del giudizio di cassazione.

Il giudizio prosegue pertanto esclusivamente nei confronti di B.P., atteso che la nota del 10.5.2004 con il quale lo stesso faceva presente alla Poste Italiane s.p.a. di non avere più interesse al rientro in servizio, non può essere interpretata nel senso che sia venuta meno ogni situazione di contrasto tra le parti.

Posto ciò, rileva il Collegio che il primo motivo del gravame proposto dalla società datoriale non è fondato.

Deve premettersi che il D.Lgs. n. 368 del 2001, recante l’attuazione della Direttiva 1999/70 CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEP e dal CES, costituisce la nuova ed esclusiva fonte regolatrice del contratto di lavoro a tempo determinato, in sostituzione della L. n. 230 del 1962 e della successiva legislazione integrativa, ti preambolo della citata Direttiva 1999/70, premesso che con la risoluzione del 9 febbraio 1999 il Consiglio dell’Unione europea ha invitato le parti sociali a tutti i livelli a negoziare accordi per modernizzare l’organizzazione del lavoro, comprese forme flessibili di lavoro, al fine di rendere le imprese produttive e competitive e di realizzare il necessario equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza, evidenzia che l’accordo quadro in questione stabilisce principi generali e requisiti minimi con l’obiettivo di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, nonchè di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. Per tale ragione, accogliendo la richiesta delle parti sociali stipulanti e su proposta della Commissione europea, il Consiglio a norma dell’art. 4 dell’accordo sulla politica sociale – ora inserito nel trattato istitutivo della Comunità europea – ha emanato la direttiva in questione, imponendo agli Stati membri di conformarsi ad essa, adottando tutte le prescrizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti (art. 2).

Il legislatore nazionale, nell’adempiere al suo obbligo comunitario, ha emanato il D.Lgs. n. 368 del 2001, il quale nel testo originario, vigente all’epoca del contratto ora in questione, all’art. 1, prevede, al comma 1, che è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo e, al comma 2, che l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1.

E’ stata altresì prevista, contestualmente all’entrata in vigore del citato D.Lgs. (24 ottobre 2001), l’abrogazione della L. n. 230 del 1962, della L. n. 79 del 1983, art. 8 bis della L. n. 56 del 1987 art. 23 e di tutte le disposizioni di legge incompatibili (ari. 11, comma 1).

Il quadro normativo che emerge è, dunque, caratterizzato dall’abbandono del sistema rigido previsto dalla L. n. 230 del 1962 – che prevedeva la tipizzazione delle fattispecie legittimanti, sistema peraltro già oggetto di ripensamento come si evince dalle disposizioni di cui alla L. n. 79 del 1983 e alla L. n. 56 del 1987, art. 23 – e dall’introduzione di un sistema articolato per clausole generali, in cui l’apposizione del termine è consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Tale sistema, al fine di non cadere nella genericità, impone al suo interno un fondamentale criterio di razionalizzazione costituito dal già rilevato obbligo per il datore di lavoro di adottare l’atto scritto e di specificare in esso le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo adottate.

Devesi peraltro rilevare che il D.Lgs. n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro, in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse (in relazione anche alla relativa estensione spaziale e temporale) e quindi il controllo di effettività delle stesse.

Non è dubbio che è questo il significato del termine “specificate” usato dal D.Lgs. citato, art. 1, comma 2, con riferimento alle predette ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, siccome de resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo da attuazione.

Ritenuta pertanto la necessità di tale indicazione particolareggiata, osserva il Collegio che correttamente la Corte territoriale, dopo aver rilevato che i contratti in questione avevano avuto una decorrenza certamente ulteriore rispetto alla effettiva e concreta “gestione” degli adempimenti ICI, ha ritenuto la carenza di prova del nesso causale tra assunzione e necessità aziendale.

Ed in proposito ha rilevato, in maniera assolutamente coerente e logica, che sebbene fosse ragionevole e verosimile ritenere che i riflessi di incremento del lavoro ordinario degli uffici postali, a causa del pagamento a fine giugno dei versamenti d’imposta, si fossero prolungati – siccome rilevato dalla società datoriale – per alcune settimane successivamente alla scadenza, doveva peraltro escludersi, e comunque la circostanza non era suffragata da alcun riscontro probatorio, che tali effetti riflessi, in termini di “maggior traffico di lavoro”, si fossero protratti sino a tutto il mese di agosto, ossia per un lasso di tempo protrattosi per circa due mesi successivamente al compimento dei suddetti adempimenti ICI, e comunque per oltre un mese successivamente al periodo di “emergenza” ICI che poteva ritenersi esaurito nel periodo di alcune settimane dopo la scadenza dei pagamenti ovvero tutt’al più entro il mese di luglio.

Sul punto osserva il Collegio che assolutamente non coerente alla fattispecie in esame si appalesa il richiamo operato dalla società ricorrente alla pronuncia di questa Corte n. 8421 del 17.11.1987, atteso che tale pronuncia, nell’affermare l’infondatezza dell’assunto secondo cui nel caso di rapporti a tempo determinato il motivo legittimante all’origine l’apposizione del termine dovesse permanere durante tutto il corso del rapporto medesimo, si riferisce all’ipotesi in cui il motivo legittimante sia venuto meno anticipatamente rispetto al previsto; nel caso di specie, per contro, il motivo legittimante, secondo le previsioni, era destinato ad esaurirsi già nel mese di giugno, e si verte in tema di successiva protrazione degli effetti riflessi, e cioè della fissazione di un termine che andava ben oltre il fisiologico perdurare delle necessità correlate alla causale utilizzata.

In ordine alla rilevata non corretta interpretazione da parte della Corte territoriale delle risultanze probatorie, dalle quali sarebbe per contro emersa la perdurante sussistenza della causale dei contratti in questione, il Collegio rileva innanzi tutto la genericità della deduzione difensiva, senza alcun riferimento agli specifici elementi probatori di cui si assume l’erronea interpretazione.

A ciò deve aggiungersi che, per consolidato indirizzo giurisprudenziale, la valutazione delle risultanze probatorie involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale sul punto non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (Cass. sez. lav., 20.3.2008 n. 7600; Cass. sez. lav., 8.3.2007 n. 5286; Cass. sez. lav., 15.4.2004 n. 7201; Cass. sez. lav., 7.8.2003 n. 11933; Cass. sez. lav., 9.4.2001 n. 5231).

E pertanto, dal momento che il giudice di merito ha illustrato le ragioni che rendevano pienamente contezza delle ragioni del proprio convincimento e dell’iter motivazionale attraverso cui lo stesso era pervenuto alla valutazione delle risultanze probatorie poste a fondamento della propria decisione (facendo espresso riferimento agli esiti della prova testimoniale assunta), resta escluso il controllo sollecitato in questa sede di legittimità. Il vizio non può invero consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove rispetto a quello dato dal giudice di merito, cui spetta in via esclusiva individuare le fonti del suo convincimento e a tal fine valutare le prove e controllarne la concludenza.

In conclusione, il motivo si risolve in parte qua in un’inammissibile istanza di riesame della valutazione del giudice d’appello, fondata su tesi contrapposta al convincimento da esso espresso, e pertanto non può trovare ingresso (Cass. sez. lav., 28.1.2008 n. 1759).

Il detto motivo non può pertanto trovare accoglimento.

Del pari infondato è il secondo motivo di gravame concernente l’accertamento dell’aliunde perceptum.

Quanto alla richiesta di esibizione del libretto di lavoro, si rammenta che la L. 10 gennaio 1935, n. 112, istitutiva del libretto di lavoro, è stata abrogata ad opera del D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, art. 8, lett. a).

Quanto alle ulteriori richieste di esibizione rileva il Collegio che la deduzione dell’aliunde perceptum quale fatto idoneo a limitare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro presuppone la allegazione e dimostrazione da parte dello stesso, in quanto soggetto interessato ad ottenere la suddetta limitazione, dello svolgimento da parte del dipendente di una diversa attività lavorativa e quindi dell’esistenza di ulteriori fonti di guadagno idonee a determinare una riduzione del danno.

In assenza di siffatta allegazione e dimostrazione, la richiesta di parte datoriale di esibizione di documenti non può trovare accoglimento assumendo una funzione meramente esplorativa e risolvendosi in buona sostanza nell’esenzione della parte dall’onere probatorio posto a carico di tale parte.

Ne consegue che neanche sotto questo profilo il ricorso può trovare accoglimento.

Il gravame proposto nei confronti del B. va pertanto rigettato ed a tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di F. F., C.F. e P.P. e compensa fra gli stessi e la società Poste Italiane s.p.a. le spese processuali;

rigetta il ricorso nei confronti di B.P. e condanna la ricorrente alla rifusione nei confronti dello stesso delle spese del presente giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 55,00, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

 

 

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