Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7423 del 07/03/2022

Cassazione civile sez. I, 07/03/2022, (ud. 01/02/2022, dep. 07/03/2022), n.7423

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 28278/2015 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Renato Cesarini

n. 97, presso lo studio dell’Avvocato Daniela Etna, (Studio EFGP

& Partners), rappresentato e difeso dall’Avvocato Rosalba

Padroni, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Fondo Pensioni per il Personale della Banca Commerciale Italiana in

liquidazione, in persona dei liquidatori pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, Via Marcello Prestinari n. 13, presso lo studio

dell’Avvocato Massimo Pallini, rappresentato e difeso dagli Avvocati

Enrico Brugnatelli, Francesco Brugnatelli, e Pietro Ichino, giusta

procura in calce al controricorso e procura in calce alla memoria di

nomina di nuovo difensore;

– controricorrente –

avverso il decreto del Tribunale di Milano pubblicato il 26/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

1/2/2022 dal cons. Dott. Alberto Pazzi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Il Tribunale di Milano, con decreto pubblicato in data 26 ottobre 2015, rigettava l’opposizione proposta da M.M. per ottenere l’ammissione allo stato passivo del Fondo pensioni per il personale BCI in liquidazione del credito di Euro 11.638,05 vantato ai sensi dell’art. 27 dello statuto del Fondo, introdotto dalla riforma del 1999.

Il giudice del merito riteneva applicabile detto articolo (che prevedeva l’attribuzione a lavoratori con determinati requisiti delle plusvalenze realizzate, a partire dall’anno 2000, attraverso la dismissione del patrimonio immobiliare del Fondo) solo al normale esercizio dell’attività dell’ente e non anche alla fase finalizzata alla sua cessazione, in quanto tale disposizione era stata abrogata implicitamente con accordo sindacale del 10 dicembre 2004, a seguito della decisione di destinare il ricavato della liquidazione dell’intero patrimonio del Fondo (invece che delle sole plusvalenze) non più alle categorie di pensionati o pensionabili ai quali si rivolgeva l’art. 27, ma ai dipendenti già andati in pensione all’epoca della riforma che avevano optato per la percezione di una rendita e ai dipendenti ancora in attività alla data del 10 dicembre 2004.

Escludeva, inoltre, che risultasse così violato il disposto dell’art. 2117 c.c., secondo cui il datore di lavoro è responsabile nei confronti dei lavoratori per la distrazione dell’integrità patrimoniale del Fondo di riferimento, giacché nella vicenda in esame non vi era stata alcuna distrazione del patrimonio dalla funzione previdenziale, bensì una modificazione legittima e ragionevole dei criteri di distribuzione.

Ad analoga soluzione si doveva comunque arrivare anche ipotizzando la perdurante vigenza del predetto art. 27.

L’accordo del 16 dicembre 1999, infatti, dava atto che la banca aveva comunicato a tutte le organizzazioni sindacali il recesso dagli accordi che costituivano la fonte del precedente regime e che il nuovo accordo sarebbe stato sottoposto all’adesione individuale di tutti i vecchi iscritti, in mancanza della quale si sarebbe determinata la cessazione dell’iscrizione al fondo.

Il ricorrente apparteneva alla categoria convenzionalmente definita come dei non aderenti, non avendo aderito alla riforma del 1999 ed avendo così ottenuto la liquidazione immediata del suo intero “zainetto”.

Ne discendeva l’impossibilità per il medesimo di pretendere l’applicazione di una norma dettata a disciplina del nuovo ente, al quale non era mai stato iscritto.

2. M.M. ha proposto ricorso per la cassazione del decreto prospettando quattro motivi di doglianza; il Fondo Pensioni per il personale della Banca Commerciale Italiana in liquidazione ha resistito con controricorso.

Parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

3. Il primo motivo denuncia la violazione ed errata applicazione dell’art. 3 dell’accordo del 16 dicembre 1999 tra la Banca Commerciale Italiana e le organizzazioni sindacali, dell’accordo del 10 dicembre 2004 e del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 3: l’interpretazione offerta dal primo giudice al tenore dell’accordo del 10 dicembre 2004 risulterebbe – in tesi di parte ricorrente – in aperto contrasto con quanto disposto ai punti 3.1 e 3.2 dell’accordo del 16 dicembre 1999 (che non erano stati mai abrogati da alcuna fonte istitutiva di pari grado, nel senso stabilito dal D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 3), dato che l’accordo successivo era stato stipulato non tanto per fornire una disciplina definitiva sulle posizioni previdenziali degli aventi diritto, quanto invece per far fronte a carenze di liquidità del Fondo, alla necessità di avviare la fase di estinzione ed all’esigenza di normare gli aspetti organizzativi del Fondo medesimo.

4. Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., perché il tribunale non avrebbe interpretato l’accordo del 10 dicembre 2004 secondo i criteri ermeneutici dettati dalle norme civilistiche; in particolare – secondo il ricorrente – il giudice del merito non avrebbe tenuto conto di elementi da ritenersi concludenti, come il contenuto di documenti di provenienza datoriale e sindacale in ordine all’interpretazione del precedente accordo del 1999, dando invece rilevanza ad un fatto – l’inerzia dei sindacati – oltreché insussistente, anche inidoneo ad assurgere a criterio interpretativo, ed avrebbe pertanto attribuito all’accordo un significato contrastante con i principi generali del sistema previdenziale.

5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 2117 c.c., norma posta a garanzia dei diritti quesiti del dipendente, titolare di una posizione previdenziale a formazione progressiva costituita da un capitale in via di accumulo, vincolato a beneficio di tutti gli iscritti al Fondo e non incondizionatamente azzerabile.

Il ricorrente osserva che la disapplicazione dell’art. 27 dello statuto ha avuto come diretta conseguenza la distrazione del patrimonio del Fondo, il quale, pur essendo soggetto a vincolo di indisponibilità, è stato distribuito in modo difforme alla previsione contrattuale e in violazione del canone di ragionevolezza, in vantaggio di un differente criterio di ripartizione, individuato sulla scorta di non meglio specificate regole di diritto, in virtù del quale le plusvalenze realizzatesi andrebbero ripartite solo in favore di coloro i quali non vennero interessati dalle decurtazioni verificatesi alla fine degli anni ‘90.

6. Il quarto motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 27 del vigente statuto del Fondo: l’interpretazione del tribunale, secondo cui l’articolo in questione non sarebbe applicabile ai lavoratori usciti dal Fondo prima della realizzazione delle plusvalenze, non sarebbe condivisibile, dato che l’unico limite imposto da tale disposizione è costituito dall’iscrizione al Fondo prima del 28 aprile 1993 e dal fatto di prestare ancora servizio alla data del 1 gennaio 2000.

7. Il primo motivo, con il quale si pretende di richiedere l’esame diretto, da parte della Corte di legittimità, dell’accordo stipulato dalle fonti istitutive di un Fondo di previdenza complementare valorizzando implicitamente le dimensioni dell’azienda operante sull’intero territorio nazionale, è inammissibile, non potendo farsi diretto esame, in sede di legittimità, degli accordi collettivi aziendali e di norme statutarie (Cass. 35178/2021).

8. Per le ulteriori censure, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, vanno ribaditi gli argomenti già svolti da questa Corte (con una serie di decisioni di coincidente tenore rese rispetto a censure sovrapponibili a quelle proposte in questa sede; v. Cass. 22267/2021; nello stesso senso Cass. 36923/2021, Cass. 36708/2021, Cass. 36227/2021, Cass. 36228/2021, Cass. 35985/2021, Cass. 35976/2021, Cass. 35178/2021, Cass. 32553/2021, Cass. 32536/2021) al fine di affermarne l’infondatezza.

8.1 Il decreto impugnato ha accertato che:

i) con accordo collettivo stipulato il 16 dicembre 1999 fra le “fonti istitutive del Fondo Pensioni” (vale a dire la Banca e le associazioni sindacali dei lavoratori dipendenti della banca) venne disposta, per quanto qui interessa, anche la modificazione dell’art. 27 dello statuto del Fondo, approvata dalla Commissione di vigilanza sui Fondi Pensione (C.O.V.I.P.) il 20 dicembre 2000, relativa alla ripartizione fra i soggetti espressamente indicati in tale clausola delle plusvalenze realizzate, a partire dall’anno 2000, nel comparto immobiliare del patrimonio del Fondo rispetto alla sua consistenza all’ultima data di valorizzazione(il contenuto dell’art. 27 è riprodotto nelle pagg. 6 e 7 del decreto);

ii) con accordo collettivo stipulato il 10 dicembre 2004 fra le stesse “fonti istitutive” venne deciso di procedere alla liquidazione del Fondo, con conseguente – per quanto qui interessa – vendita anche dell’intero suo patrimonio immobiliare; si stabilì, inoltre, che il relativo ricavato sarebbe stato ripartito con le modalità indicate nel decreto, divergenti da quelle previste dal citato art. 27 dello statuto per le plusvalenze conseguite dalle vendite di immobili avvenute a partire dall’anno 2000;

iii) lo statuto del Fondo non conteneva “alcuna disposizione diretta a disciplinare la liquidazione dell’ente e la ripartizione del suo patrimonio”;

iv) il consiglio di amministrazione del Fondo, nel periodo intercorso “tra la seconda metà del 2005 e l’inizio del 2006”, liquidò “l’intero patrimonio immobiliare” dell’ente, ricavando “Euro 1.106 mln”, con realizzazione di una plusvalenza di “Euro. 536,2 mln”; il 13 giugno 2006 dispose l’avvio del procedimento di estinzione del Fondo, con “ripartizione delle successive disponibilità patrimoniali proporzionalmente suddivise tra iscritti attivi e pensionati, in ragione dell’ammontare complessivo di zainetti e riserve”; il 21 novembre 2006 accertò l’estinzione del Fondo “per l’impossibilità sopravvenuta dell’originario scopo e per la compiuta realizzazione dello scopo derivante dalla trasformazione”;

v) il Prefetto, su richiesta del consiglio di amministrazione, dichiarò l’estinzione del Fondo il 20 dicembre 2006 e il Presidente del Tribunale nominò i liquidatori.

8.2 Ciò posto, risulta evidente – come già rilevato dalle precedenti pronunce di questa Corte -, dall’esame del tenore della motivazione del decreto impugnato relativo ai rapporti fra il contenuto dell’art. 27 dello statuto del Fondo (avente la sua fonte nell’accordo fra le “fonti istitutive” del Fondo del 16 dicembre 1999) e il contenuto dell’accordo fra le stesse “fonti istitutive” del Fondo del 10 dicembre 2004, che nel caso di specie non si trattò “dell’abrogazione dell’art. 27 dello Statuto e della precedente disciplina, ma solo di una deroga alle vecchie previsioni in relazione alla liquidazione dell’intero Fondo, sicché non colgono nel segno i motivi di ricorso…che fanno riferimento alla non abrogazione delle norme pregresse: in altri termini, le vecchie norme non si applicano non in quanto abrogate, ma in quanto non si riferiscono alla liquidazione del Fondo, disciplinato solo dalle norme successive” (così, in motivazione, Cass. 22267/2021).

L’affermazione, contenuta nel decreto impugnato, secondo cui l’effetto dell’accordo del 10 dicembre 2004 fu quello “di abrogare, pur implicitamente, l’art. 27 dello statuto” è giuridicamente non corretta (anche perché nella disciplina legale delle associazioni riconosciute sono contemplate solo modificazioni statutarie esplicite): la stessa, però, va di necessità letta unitamente all’affermazione, che si rinviene nella stessa frase, secondo cui tale clausola statutaria è “in concreto incompatibile con la volontà delle parti di destinare il ricavato della liquidazione dell’intero patrimonio del Fondo non più alle categorie di pensionati e pensionabili cui si rivolgeva l’art. 27, ma esclusivamente a due categorie: quella di chi, all’epoca della riforma, era già andato in pensione e percepiva la relativa rendita e di quanti al 10/12/2004 erano ancora in attività”.

Il decreto impugnato, quindi, è solo da correggere, ex art. 384 c.c., u.c., nella parte in cui reca l’affermazione dell’avvenuta “abrogazione implicita” della clausola, tramite l’espunzione di tale affermazione.

8.3 Sono per contro conformi a diritto le affermazioni, desumibili dal decreto impugnato, secondo cui:

i) l’art. 27, in quanto diretto a disciplinare i diritti dei lavoratori nel caso di dismissioni di parte del patrimonio immobiliare appartenente al Fondo funzionali al perseguimento dello scopo suo proprio, è di per sé inidoneo, in mancanza di altra clausola dello statuto che ne richiami il contenuto per il caso di liquidazione generale del patrimonio dell’ente, a disciplinare i diritti conseguenti alla decisione, di fonte pattizia, di disporre la liquidazione generale del patrimonio dell’ente (compresa la parte costituita da proprietà di beni immobili), tenuto conto che lo scopo dismissivo perseguito con la liquidazione generale non è funzionale al conseguimento dello scopo originario dell’ente nel cui ambito si inseriva la clausola statutaria in discorso;

ii) il citato accordo collettivo del 10 dicembre 2004 ben poteva, dunque, prevedere modalità, diverse da quelle indicate da tale clausola statutaria, di ripartizione delle plusvalenze conseguite dai prezzi di vendita di tutte le proprietà di beni immobili appartenenti al Fondo.

8.4 Quanto alla conformità alla legge del contenuto dell’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, la recente giurisprudenza di questa Corte, in precedenza evocata, non ha mancato di evidenziare (ribadendo sul punto i principi affermati da Cass. 12751/1992, Cass. 16635/2003, Cass. 21234/2007, Cass. 13960/2014) che “nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le modificazioni “in peius” per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), che riguarda il rapporto fra contratto collettivo ed individuale” (così, in motivazione, per tutte, Cass. 22267/2021).

Invero, l’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, non avendo alcuna incidenza di segno negativo sul patrimonio delle persone che avevano già acquisto il diritto al trattamento pensionistico prima della modificazione dell’art. 27 dello statuto (come detto avvenuta per effetto dell’accordo del 16 dicembre 1999) e avevano, dunque, già ricevuto il trattamento pieno, così facendo affidamento anche per il futuro sulla consistenza quantitativa di tale trattamento, “appare ragionevole e rispettoso del dettato normativo di cui al D.Lgs. n. 124 del 1993, che ammette che, in presenza di squilibri finanziari nella gestione di fondi di previdenza complementare costituiti per contratto collettivo, la stessa contrattazione può rideterminare la disciplina delle prestazioni” (così, in motivazione, per tutte, Cass. 22267/2021).

8.5 II Tribunale ha accertato, in fatto, che il rapporto fra l’odierno ricorrente e il Fondo cessò prima della stipula dell’accordo collettivo del 10 dicembre 2004, giacché egli non aderì al nuovo Fondo e ottenne la liquidazione immediata del proprio “zainetto”.

Riguardo a un simile rapporto va ribadito il principio (affermato da Cass. 22267/2021 e ripreso dalle successive ordinanze con riferimento a figure pur tra loro diverse, quali le persone non aderenti alla riforma del Fondo del 1999, le persone aderenti alla riforma del 1999 ma andate in pensione prima del 2004, conseguendo la prestazione in forma di capitale, ovvero i c.d. anticipati, ossia le persone che hanno fruito dell’anticipazione del trattamento, in presenza dei motivi per i quali detta anticipazione era possibile prima della scadenza) secondo cui non ha diritto a ricevere la parte di plusvalenze conseguite dal prezzo ricavato dalla vendita di immobili in sede di liquidazione generale del patrimonio del Fondo chi, come il ricorrente, ha ottenuto la liquidazione della propria quota in capitale, con conseguente cessazione della sua iscrizione al Fondo.

In altri termini i lavoratori sono cessati dal Fondo incassando il proprio “zainetto” (ossia la propria quota capitalizzata individuale da erogare in caso di cessazione dell’iscrizione al Fondo: cfr. Cass. 21224/2007), in toto o pro quota mediante riscossione di un’anticipazione a valere sullo “zainetto” medesimo.

Costoro, “sino a quando hanno mantenuto la loro partecipazione al Fondo, hanno beneficiato, in ragione della quota detenuta, dei rendimenti annuali del Fondo, mediante attribuzione proporzionale ai loro “zainetti” individuali.

I medesimi, nel momento i cui hanno riscosso lo “zainetto” (potendolo poi investire liberamente in altri impieghi disponibili e ponendosi al riparo dei rischi connessi con il futuro andamento del Fondo, inclusa la sua insolvenza) o chiesto un’anticipazione, hanno sciolto ogni rapporto con il Fondo, rimanendo di conseguenza estranei alle sue sorti successive.

Tale conclusione è “coerente con la natura del Fondo, che è a contribuzione definita, seguendo un regime nel quale è fissato il livello di contribuzione (sulle caratteristiche di detti fondi, v. Cass. 9042/2012), restando le prestazioni fluttuanti e variabili in relazione ai rendimenti del patrimonio. I fondi di tale natura, infatti, operano come i fondi comuni di investimento, sicché chi ritira in tutto o in parte il proprio investimento, quale che sia il relativo motivo, da quel momento in poi ha diritto solo al rendimento del Fondo per la sola eventuale parte dell’investimento residuo” (così, sempre in motivazione, Cass. 22267/2021).

La posizione dell’odierno ricorrente, dunque, è diversa da quella dei pensionati percettori di rendita e degli attivi che non abbiano mai ricevuto anticipazioni, in ragione del totale venir meno del suo rapporto con il Fondo in epoca antecedente la liquidazione dell’ente.

Il che non solo spiega le previsioni della liquidazione solo in favore di questi ultimi da parte della disciplina del 2004, correttamente letta dalla decisione impugnata, nel pieno rispetto dei criteri ermeneutici codificati (nello stesso senso, in fattispecie analoga, Cass. 23416/2017), ma priva pure di pregnanza la denuncia della violazione dell’art. 2117 c.c., che non può essere effettuata da chi abbia visto venir meno i propri rapporti con il Fondo rispetto a vicende successive alla sua fuoriuscita.

9. Per tutto quanto sopra esposto il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2022

 

 

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