Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7412 del 23/03/2017


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Cassazione civile, sez. III, 23/03/2017, (ud. 18/01/2017, dep.23/03/2017),  n. 7412

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6811-2013 proposto da:

IMPRESA C. E FIGLI SRL, (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore Ing. C.M., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DEL POZZETTO 122, presso lo studio

dell’avvocato PAOLO CARBONE, che la rappresenta e difende giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, V.CICERONE 44,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CARLUCCIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato CLAUDIO CONSALES giusta procura a margine del

controricorso;

ASSOCIAZIONE CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA ED ASSISTENZA A FAVORE DEI

RAGIONIERI E PERITI COMMERCIALI, in persona del Presidente e Legale

Rappresentante pro tempore Rag. S.P., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA A. BERTOLONI 26-B, presso lo studio

dell’avvocato MASSIMILIANO BRUGNOLETTI, che la rappresenta e difende

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 244/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 17/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LORETA UTTARO per delega;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO BRUGNOLETTI;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il presente giudizio trae origine dalla riunione di quattro differenti procedimenti.

1.1. Con atto di citazione notificato nel 1999, l’Associazione Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei ragionieri e dei periti commerciali convenne in giudizio l’arch. M.M. per sentir accertare il negligente adempimento dello stesso ai propri obblighi professionali, relativamente all’incarico di progettazione e direzione dei lavori per la ristrutturazione di un edificio da adibire a sede della Associazione, e sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti, conseguenti alla necessità di eseguire interventi di ripristino.

Il M. si costituì in giudizio, chiedendo il rigetto delle domande attrici e, in via subordinata, l’autorizzazione a chiamare in causa, al fine di essere manlevato, l’impresa appaltatrice C. e Figli S.r.l., la quale non aveva rispettato il progetto ed aveva omesso di sottostare alle segnalazioni effettuate nella qualità di direttore dei lavori. In via riconvenzionale, chiese il risarcimento dei danni.

Si costituì in giudizio anche l’impresa appaltatrice, contestando la propria responsabilità e chiedendo il rigetto della domanda attrice.

1.2. Con un secondo atto di citazione, l’Associazione convenne in giudizio sia l’arch. M., sia l’impresa C. e Figli, al fine di sentir accertare il negligente adempimento dei loro obblighi per non aver preventivamente verificato la tenuta statica del solaio sul quale dovevano essere installati gli impianti di condizionamento e, per l’effetto, sentirli condannare al risarcimento dei relativi danni.

Si costituirono in giudizio entrambi i convenuti, ciascuno deducendo la propria irresponsabilità. L’arch. M. chiese, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni.

1.3. L’Associazione promosse inoltre opposizione avverso il decreto ingiuntivo richiesto ed ottenuto dall’arch. M. per ottenere il pagamento della sua parcella, sul presupposto della cattiva esecuzione della opera professionale dallo stesso prestata.

Si costituì in giudizio il M., deducendo l’infondatezza delle contestazioni della Associazione e chiedendo la conferma del decreto ingiuntivo opposto essendo provata l’esistenza del credito ed essendo già integrata sia la decadenza che la prescrizione di cui all’art. 2226 c.c.

1.4. Infine, l’Impresa C. e Figli convenne in giudizio l’Associazione per sentirla condannare al pagamento in suo favore dei compensi e dei maggiori importi spettanti in relazione ai lavori eseguiti nell’immobile oggetto del giudizio, al risarcimento dei danni subiti a causa della illegittima escussione della fideiussione prevista nel contratto, alla restituzione della garanzia contrattuale nonchè al pagamento dei lavori eseguiti in un diverso immobile, applicando gli interessi su dette somme in misura del tasso pagato dall’Impresa alla banca. Chiese inoltre di dichiarare non dovuta qualsiasi penale.

Si costituì l’Associazione, deducendo di avere incamerato la fideiussione a seguito dei verbali di non collaudabilità dell’opera per una serie di vizi relativi ai lavori mal eseguiti dall’impresa e chiedendo comunque l’autorizzazione a chiamare in causa l’arch. M. in quanto parte delle contestazioni avrebbe riguardato il cattivo operato dello stesso.

Non essendo stata operata la relativa chiamata, il M. intervenne volontariamente, affermando che l’elaborazione progettuale dei lavori era stata corretta e che le variazioni erano dovute a modifiche richieste dell’Associazione, divenute poi atti aggiuntivi; che gli atti contabili fino all’ottavo SAL erano stati accettati senza riserve dall’impresa che solo tardivamente aveva introdotto riserve; che comunque le operazioni di collaudo dovevano considerarsi nulle in quanto svolte senza che egli fosse mai stato invitato a partecipare.

1.5. Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 14854/2004, condannò l’arch. M.M. e l’Impresa C., in solido fra loro, a corrispondere all’Associazione il costo di ripristino delle colonne di aspirazione del sistema di ripresa dell’impianto di condizionamento, risultate di dimensioni inferiori a quelle progettualmente previste e l’Associazione a corrispondere all’impresa l’importo del deposito illegittimamente incamerato mediante esclusione della corrispondente garanzia bancaria; in parziale accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo, ridusse l’importo dovuto dalla Cassa all’arch. M. a titolo di compenso professionale.

2. La decisione è stata integralmente confermata dalla Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 244 del 17 gennaio 2012.

3. Avverso tale decisione, propone ricorso in Cassazione l’Impresa C. e Figli S.r.l., sulla base di sei motivi illustrati da memoria.

3.1. Resistono con controricorso illustrato da memoria l’Associazione Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, nonchè l’arch. M.M..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, l’Impresa deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 112 c.p.c. “perchè il giudice non ha esaminato interamente la richiesta di inammissibilità di condanna in solido dell’appaltatore e dell’architetto M. ex art. 1667 e 1668 c.c.” e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la contraddittorietà e l’insufficienza della sentenza “in quanto, da un lato, è stato correttamente riconosciuto che la responsabilità dell’appaltatore è diversa da quella del prestatore d’opera intellettuale ma, dall’altro, il giudice non ne ha tratto le dovute conseguenze dichiarando inammissibile l’azione di responsabilità nei confronti dell’appaltatore”.

Il giudice del gravame, per valutare in modo completo l’eccezione di inammissibilità della domanda formulata dall’impresa C., avrebbe dovuto valutare se l’azione della committente nei confronti dell’appaltatore fosse stata proposta nel rispetto dei termini di prescrizione e decadenza di cui all’art. 1667 c.c., il quale dispone che l’azione di responsabilità per vizi o difformità in tema di appalto non può essere esperita nei confronti dell’appaltatore se il committente ha accettato l’opera e le difformità e se l’azione stessa non viene proposta entro due anni dalla consegna dell’opera e senza essere preceduta dalla denuncia dei vizi entro 60 giorni dalla scoperta.

Tali termini, espressamente previsti in relazione alle azioni per l’eliminazione dei vizi dell’opera a spese dell’appaltatore o di riduzione del prezzo, si applicherebbero anche all’azione risarcitoria dei danni derivanti dalle difformità o dai vizi dell’opera.

Nella specie, la committente avrebbe tenuto un comportamento equivalente all’accettazione dell’opera consegnata, non avendo provveduto a comunicare i risultati del collaudo entro termini ragionevoli, posto che le prime contestazioni nei confronti dell’appaltatore risalivano a due anni dopo la consegna.

Inoltre, l’azione proposta dalla committente non sarebbe stata proceduta da alcuna contestazione formale da parte della committente, nè a domanda di risarcimento del danno sarebbe stata proposta entro i due anni dalla consegna dell’opera.

La decisione del giudice di secondo grado sarebbe altresì contraddittoria perchè avrebbe riconosciuto la responsabilità in solido tra professionista e appaltatore senza tenere conto che la responsabilità dell’appaltatore segue un regime totalmente differente rispetto a quella del direttore dei lavori.

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Dal ricorso, infatti, non è possibile desumere se il ricorrente abbia effettivamente formulato nei precedenti gradi di giudizio l’eccezione di inammissibilità della domanda che il giudice di secondo grado avrebbe valutato in modo non completo e contraddittorio.

4.2. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1176, 1667 e 1668 c.c. per non aver rilevato il giudice del gravame che la committente ha rinunciato alla solidarietà nei confronti dell’appaltatore e per aver erratamente ritenuto che l’impresa C. sia responsabile dei danni lamentati dalla committente”.

La domanda di risarcimento del danno nei confronti dell’appaltatore sarebbe, oltre che inammissibile, anche infondata, essendo stato dimostrato che l’appaltatore avrebbe diligentemente adempiuto la propria obbligazione, consistente unicamente nell’ottemperare alle direttive imposte dal direttore dei lavori.

Ciò sarebbe stato riconosciuto anche dal direttore dei lavori che, dopo aver esaminato le opere eseguite dall’appaltatore, avrebbe dichiarato che le stesse risultavano conformi alle direttive da lui imposte oltre che al progetto e al contratto.

Con il terzo motivo, invece, la ricorrente denuncia, in via subordinata, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè degli artt. 1299 e 1223 c.c., per non aver correttamente rilevato il giudice del gravame nel caso di specie che la responsabilità dell’impresa C. è inferiore rispetto quella del direttore dei lavori e che comunque la committente durante il giudizio non ha dimostrato che i danni richiesti siano ricollegabili al comportamento dell’appaltatore”.

Il giudice del gravame avrebbe dovuto valutare in quale proporzione ciascuno dei debitori avesse contribuito a realizzare il danno lamentato dall’Associazione, in previsione dell’esercizio dell’azione di regresso da parte di uno degli obbligati in solido.

La ricorrente avrebbe avuto responsabilità minori rispetto al direttore dei lavori risultando dimostrato che essa aveva diligentemente adempiuto la propria prestazione e mancando qualsiasi prova che il danno lamentato dall’Associazione fosse ricollegabile ad un comportamento della medesima ricorrente.

I motivi possono essere congiuntamente considerati e sono entrambi inammissibili, per plurime ragioni.

Innanzitutto, per difetto di autosufficienza del ricorso.

Per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), infatti, il ricorso per cassazione deve contenere, tra l’altro, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito.

Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porte il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (cfr. da ultimo Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 26-07-2016, n. 15430).

Nella specie, invece, le argomentazioni utilizzate dalla sentenza impugnata non vengono riportate nei motivi di ricorso in esame, che da tali argomentazioni prescindono totalmente.

Inoltre, i motivi si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, che ha riconosciuto il concorso di responsabilità dell’impresa per aver eseguito i lavori “in difformità del progetto originario”, senza aver espresso “alcuna valutazione critica dello stesso”, nè esercitando alcun controllo “sull’idoneità ed adeguatezza dei lavori da eseguire”.

Si tratta perciò di richieste dirette all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

4.3. Con il quarto motivo, l’impresa appaltatrice lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 1218 e 1382 c.c. e s.s. per aver la decisione di secondo grado condannato l’impresa C. al pagamento della penale, previsto per il ritardo della consegna dei lavori, nonostante il ritardo fosse imputabile esclusivamente all’arch. M.”.

Il giudice del gravame, per riconoscere il diritto della committente a riscuotere la penale, avrebbe dovuto valutare se il ritardo fosse imputabile alla impresa appaltatrice.

Nella fattispecie, come confermato dal collaudatore nominato dalla stessa committente, l’impresa C. aveva osservato diligentemente la tempistica imposta dal direttore dei lavori.

Non si configurerebbe, quindi, alcun inadempimento colpevole.

Anche questo motivo è inammissibile, sia perchè è teso ad ottenere una nuova valutazione del merito della controversia, preclusa al giudice di legittimità, sia perchè, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la ricorrente non provvede alla trascrizione dei documenti su cui si fonderebbero le argomentazioni contenute motivo, che vengono solo genericamente richiamati, senza che ne sia neppure indicata la sede di produzione.

4.5. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. per non aver riconosciuto la sentenza di secondo grado che l’accertato inadempimento della committente, riguardo la restituzione della clausola fideiussoria, abbia determinato nei confronti dell’appaltatore il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali verso la committente, e per non avere altresì riconosciuto all’appaltatore il diritto al compenso per i lavori realizzati in esecuzione dell’appalto”.

L’impresa avrebbe, sin dai primi atti difensivi, indicato come danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenze che, con elevata probabilità, sarebbero dovute all’illegittima ritenzione della cauzione fideiussoria da parte della committente e l’Associazione non li avrebbe contestati.

In particolare, a seguito dell’inadempimento da parte della committente dell’obbligo di restituire la garanzia, l’appaltatrice avrebbe subito un forte discredito nei confronti degli istituti bancari, con cui avrebbe interrotto i rapporti, riportando danni patrimoniali risarcibili oltre che un danno alla propria immagine.

Anche questo motivo è inammissibile.

La ricorrente, infatti, non riporta la sede in cui avrebbe dedotto le conseguenze pregiudizievoli del comportamento della committente. Nè risultano indicati i mezzi di prova che smentirebbero le puntuali affermazioni della sentenza impugnata, secondo cui “la domanda non può essere accolta in difetto di qualsiasi prova del pregiudizio sofferto, sia in riferimento alla divulgazione di fatti effettivamente pregiudizievoli (assolutamente non documentati riguardo al contenuto ed alle forme di divulgazione) sia alla prospettata richiesta di rientro delle esposizioni debitorie dell’epoca”.

4.6. Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1372 c.c., nonchè errata valutazione, per non aver riconosciuto il giudice del gravame il diritto dell’impresa C. al compenso dei lavori aggiuntivi eseguiti, realizzati, consegnati ed accettati dal committente”.

La tardiva contabilizzazione dei lavori realizzati dall’impresa, necessari per far fronte alle carenze progettuali e all’inadeguatezza della direzione dei lavori, non potrebbe essere addebitata all’appaltatore, essendo attività riservata al direttore dei lavori, il quale non avrebbe registrato o avrebbe registrato fittiziamente gran parte dei lavori.

Tale errata contabilizzazione non solo non sarebbe contestata, ma sarebbe stata riconosciuta nelle successive perizie.

L’impresa avrebbe contestato immediatamente la mancata contabilizzazione dei lavori aggiuntivi richiesti dall’arch. M., non appena venutane a conoscenza.

L’Associazione avrebbe accettato le opere aggiuntive senza contestazioni, facendole quindi rientrare nel regolamento contrattuale.

Sarebbe stata controparte a dover provare che tra i lavori accettati non vi fossero quelli per cui si chiedeva il compenso.

La censura è inammissibile, poichè si limita a riproporre le difese formulate dall’Impresa C. in appello, prescindendo totalmente dalle ragioni della sentenza impugnata, la quale ha evidenziato: che non è chiaro come “la contabilizzazione del direttore dei lavori non avrebbe consentito all’impresa di contestare immediatamente i maggiori e/o diversi lavori da essa stessa svolti, rinviando ad un momento successivo la puntuale quantificazione”; che l’appaltatrice, quanto ai lavori asseritamente realizzati dopo la sottoscrizione dei primi otto SAL, “non ne indica l’effettiva durata, nè lo specifico periodo… nè se gli stessi derivano da inadempimenti imputabili o meno all’impresa,… non dà contezza del materiale che sarebbe stato lasciato a disposizione del committente, se non indicando il valore in danaro, nè del tipo dei maggiori oneri finanziari conseguiti alla ritardata emissione del conto finale”; che la medesima appaltatrice “non allega nemmeno le ragioni che avrebbero imposto ulteriori interventi “dopo la fine dei lavori”, che potrebbero essere stati determinati anche da fatti imputabili all’impresa stessa”.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento a favore dell’Associazione Cassa Nazionale e Previdenza ed Assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali alle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 10.200,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge; e a favore dell’arch. M. che liquida in Euro 8.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di Cassazione, il 18 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2017

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