Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7401 del 17/03/2020

Cassazione civile sez. I, 17/03/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 17/03/2020), n.7401

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 5581/2015 proposto da:

Be Think Sove Execute S.p.a., già Data service S.p.a., nella

qualità di incorporante per fusione della Cni Informatica e

telematica S.p.a. (già Intel S.p.a.), nella persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv.

Giovanni Francesco Biasiotti Mogliazza, ed elettivamente domiciliata

presso il suo studio in Roma, giusta delega in calce al ricorso per

cassazione;

– ricorrente –

contro

Equitalia S.p.a. (già CNC – Centro nazionale di Coordinamento di

attività telematiche ed operative per la Riscossione S.p.a., prima

ancora Consorzio Nazionale Obbligatorio tra i Concessionari del

Servizio di Riscossione dei tributi ed altre entrate di pertinenza

dello Stato e di Enti pubblici), nella persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Carlo

Mirabile ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di ROMA n. 27/2014,

pubblicata il 7 gennaio 2014.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La società CNI – Informatica e Telematica S.p.a. ha convenuto in giudizio la committente CNC S.p.a. chiedendo il compenso, quale corrispettivo ovvero a titolo di indebito arricchimento, per la registrazione di dati delle dichiarazioni dei redditi della differenza rispetto al minore importo fatturato spettante per 412 caratteri a modello di dichiarazione (a fronte di 461,7 caratteri effettivamente registrato) pari a Euro 68.256.836,9 caratteri, per l’ammontare di Lire 339.523.579, chiedendo anche la corresponsione degli interessi moratori nella misura di Lire 59.300.000 al tasso del 19,25%, per ritardato pagamento delle fatture rispetto ai tempi convenuti.

2. Il tribunale di Roma, con sentenza n. 21671 del 12 ottobre 2005, in parziale accoglimento della domanda attrice, condannava il Centro CNC a corrispondere la somma di Euro 16.377,50, a titolo di interessi moratori, oltre interessi anatocistici su detto importo dalla domanda.

3. Avverso detta sentenza ha proposto appello la CNI – Informatica e Telematica S.p.a., al quale ha resistito il Centro CNC, presentando appello incidentale.

4. La Corte di appello di Roma ha rigettato l’appello principale e dichiarato inammissibile l’appello incidentale, compensando interamente le spese processuali del grado.

5. La Be Think Sove Execute S.p.a. ricorre in cassazione con sei motivi.

6. La Equitalia S.p.a. ha presentato controricorso.

7. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta la violazione del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 e degli artt. 117 – 119 del relativo regolamento emanato con R.D. 23 maggio 1924, n. 827, in combinato disposto con l’art. 1657 c.c. e con gli artt. 1418,1429 e 1421 c.c., anche per falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e afferma la nullità del contratto inter partes perchè in violazione di norme imperative e la dovuta applicazione delle condizioni contrattuali della concessione amministrativa.

1.1 Il motivo è inammissibile

Giova premettere che secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).

In altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle (Cass., 3 gennaio 2014, n. 51).

Nel caso in esame, l’ampio ed articolato motivo presenta profili di inammissibilità in quanto viene dedotta la violazione di una pluralità di disposizioni normative, omettendo di precisare le affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie (o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità), genericamente richiamate nella intestazione del motivo, e senza ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla violazione di una determinata norma, impedendo così alla Corte regolatrice di adempiere al suo compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass., 9 marzo 2012, n. 3721).

Nel caso di specie, il ricorrente richiama nella illustrazione del motivo parti della motivazione della sentenza impugnata e svolge contestazioni riguardo ad essa, ma non evidenzia in relazione a quale specifico vizio ed a quale specifica norma, le parti della motivazione richiamate si assumono in contrasto, continuando a sostenere che CNC in quanto concessionario del Ministero delle Finanze era tenuto a riconoscere a CNI, quale compenso per l’attività di registrazione dei modelli 740, lo stesso corrispettivo previsto nella Convenzione stipulata tra Ministero e CNC, limitandosi quindi a ribadire le medesime censure sollevate dinanzi alla Corte territoriale e sovrapponendo alle argomentazioni della Corte le proprie senza prospettare differenti profili fondativi delle doglianze sollevate.

Ciò che sarebbe stato necessario a fronte delle specifiche motivazioni contenute nella sentenza impugnata che, peraltro, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati da questa Corte con riferimento al contratto di subappalto.

Peraltro dalla sentenza impugnata emerge che:

– la Corte territoriale non ha provveduto d’ufficio ai sensi degli artt. 1418 e 1419 c.c., ad integrare le clausole del rapporto contrattuale CNI – CNC nel senso auspicato dall’appellante, odierna ricorrente, perchè, come ha espressamente motivato, la CNI non aveva indicato specifiche norme imperative e avendo fatto soltanto un generico riferimento al R.D. n. 2440 del 1923 e al relativo Regolamento attuativo emanato con R.D. n. 827 del 1923;

– il contratto di appalto era stato autorizzato dal Ministero delle Finanze senza alcuna indicazione delle condizioni contrattuali applicabili al sub appaltatore, con ciò rimettendo alla libera determinazione delle parti contraente il contenuto del programma obbligatorio, avuto riguardo anche al prezzo unitario e complessivo dei servizi informatici oggetto del contratto;

– il rapporto contrattuale era bilaterale, tra CNC e CNI (non era presente il Ministero delle Finanze) con contenuto più limitato rispetto a quello concessorio, come è stato accertato anche dalla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel giudizio di primo grado, che ha esaminato i due differenti capitolati allegati alla convenzione e al contratto di subappalto.

Inoltre, la Corte territoriale ha richiamato le ragioni spiegate nella sentenza di primo grado secondo cui non sussisteva alcun obbligo per la CNC sub-committente di applicare i medesimi prezzi praticati dal Ministero committente principale con la convenzione del 24 luglio 1991, poichè si trattava di contratto di sub-appalto, autorizzato dal Ministero delle Finanze e stipulato iure privatorum e non trovava applicazione il divieto di subappalto a prezzi inferiori rispetti a quelli praticati dalla committente perchè introdotto con il D.Lgs. n. 157 del 1995, art. 18 e, quindi, non applicabile a fattispecie insorte nel 1991.

In proposito, questa Corte ha affermato che il contratto di subappalto stipulato dall’appaltatore di un’opera pubblica è strutturalmente distinto dal contratto principale, restando sottoposto alla disciplina del codice civile e del negozio voluto dalle parti, non essendo ad esso applicabili, se non attraverso gli eventuali richiami espressi inseriti nell’accordo, le disposizioni pubblicistiche tipiche dell’appalto di opere pubbliche (Cass., 19 luglio 2018, n. 19296).

L’orientamento della giurisprudenza di legittimità, espressamente richiamato dalla Corte distrettuale, secondo cui il contratto di subappalto stipulato dall’appaltatore di un’opera pubblica costituisce un contratto strutturalmente distinto da quello principale e che, in quanto concluso tra soggetti entrambi privati, rimane sottoposto alla normativa del codice civile ed al contenuto negoziale che le parti hanno inteso conferirgli, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili, se non attraverso eventuali richiami pattizi, le disposizioni d’impronta marcatamente pubblicistica tipiche dell’appalto di opere pubbliche, nel contratto di subappalto non si trasfondano automaticamente i patti e le condizioni dell’appalto (e nel caso in esame della convenzione), trattandosi di contratti che conservano la rispettiva autonomia, con la conseguenza che le parti del primo possono ben regolare il rapporto in modo difforme dal secondo, stabilendo condizioni, modalità e clausole diverse da quelle che nel contratto principale trovano applicazione in attuazione della normativa in tema di appalti pubblici (cfr. Cass., 24 luglio 2000, n. 9684; Cass., 29 maggio 1999, n. 5237).

Alla stregua del regime negoziale, così come ricostruito dalla sentenza impugnata, le conclusioni cui è pervenuta la Corte distrettuale non meritano, quindi, alcuna censura.

2. Con il secondo motivo la società ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti relativamente all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e sulla conseguente violazione dell’art. 2697 c.c., in combinato disposto con l’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e afferma che non era stata eseguita l’indagine sul numero effettivo di carattere battuti a prescindere dall’illegittimo programma di contacaratteri.

2.1 Il motivo è inammissibile.

Ed invero, nel caso in esame non si è verificato alcun omesso esame, poichè la Corte territoriale, richiamando le conclusioni del CTU e la testimonianza resa dal teste D.M. all’udienza del 20 maggio 2003, dipendente CNC, ha affermato che non era possibile computare il numero di caratteri effettivamente digitati dalla parte CNI perchè non era disponibile il software originale depositato dagli operatori CNI per riportare su supporto informatico le dichiarazioni 740/90 in esecuzione dei contratti con la parte CNC e che il programma di calcolo, elaborato personalmente dal D.M., era stata predisposto sulla conta di 142 caratteri.

In sintesi, la Corte territoriale ha accertato che il conteggio dei caratteri effettivamente digitati dalla CNI non era possibile tenuto conto delle risultanze, sia testimoniali, che peritali, acquisite nel giudizio.

Ora l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nell’attuale testo modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicchè sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. 6 settembre 2019, n. 22397).

Non risulta, perciò, censurabile sotto il profilo dedotto la mancata valutazione del numero effettivo di caratteri battuti, poichè la censura sollevata dalla società si risolve, piuttosto, in un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie acquisite nel giudizio.

Orbene, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che come già è stato affermato, attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio (Cass., 10 giugno 2016, n. 11892).

Anche la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità, non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, come sostanzialmente dedotto nel caso in esame, ma solo allorchè si alleghi che il giudice abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., 17 gennaio 2019, n. 1229).

In definitiva la censura sopra descritta è volta, in realtà a sollecitare una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito sulla base delle risultanze istruttorie acquisite al processo che è inammissibile in questa sede.

Anche di recente questa Corte ha affermato il principio che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476).

3. Con il terzo motivo la società ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1655 c.c., in combinato disposto con l’art. 167 c.p.c., in relazione al pagamento delle opere eseguite e in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e afferma che la Corte di appello non aveva considerato che CNC non aveva mai contestato il numero di battute in più eseguite a CNI nel numero indicato.

Il motivo è manifestamente inammissibile, perchè oltre che estremamente generico, la parte non ha specificato il profilo di nullità dedotto con riferimento alla norma dell’art. 1655 c.c., richiamata. Ciò a fronte delle difese della CNC che ha sempre affermato che i caratteri digitati dalla CNI erano 412 e degli accertamenti esperiti nel giudizio, diretti a verificare se la CNI avesse effettivamente digitato un numero maggiore di caratteri e specificamente 461,7, piuttosto che 412.

Non meritano censura, pertanto, le conclusioni della Corte territoriale sulla mancanza di riscontro probatorio degli assunti dell’appellante CNI, miranti a fare coincidere il numero dei caratteri liquidati dal Ministero a CNC, con il numero dei caratteri da CNC riconosciuti a CNI, in modo da pervenire alla determinazione giudiziale di un maggiore compenso rispetto a quello già liquidato e percepito.

4. Con il quarto motivo la società ricorrente lamenta la falsa applicazione dell’art. 1284 c.c., al caso di specie e la conseguente violazione dell’art. 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e il concorrente omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e afferma che la società attrice non aveva richiesto gli interessi moratori o convenzionali, ma il maggior danno ex art. 1223 c.c..

4.1. Il motivo è inammissibile, perchè non coglie la ragione del decidere posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass., 10 agosto 2017, n. 19989).

La Corte territoriale, infatti, afferma, richiamando pag. 16 dell’atto di appello, che mancava uno specifico motivo di impugnazione essendosi CNI limitata a contestare genericamente la natura degli interessi anatocistici dal tribunale, che, a suo dire, non erano convenzionali, ma nulla dicendo sul requisito costitutivo della forma scritta ex art. 1284 c.c., comma 3, nella fattispecie assente, per determinare consensualmente gli interessi nella misura del 19,25% superiore a quella legale.

A fronte di ciò il ricorrente doveva, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegare l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò fosse avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (Cass., 13 giugno 2018, n. 15430).

Peraltro in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione la decisione assume valore definitivo in conseguenza del principio del giudicato (Cass., 21 gennaio 2004, n. 967).

5. Con il quinto motivo la società ricorrente lamenta la violazione dell’art. 167 c.p.c., in relazione al pagamento del maggior danno ex artt. 1223 e 1224 c.c. e in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, affermando che la mancata contestazione della domanda (contestata solo nell’an in quanto prescritta) avrebbe dovuto ritenersi valida anche per la domanda ex art. 1224 c.c., che invece era stata rigettata perchè non provata.

5.1 Quanto argomentato in ordine al precedente motivo, assorbe l’ulteriore profilo sollevato dalla ricorrente in ordine alla mancata contestazione da parte della CNC della natura e dell’ammontare degli interessi richiesti al tasso del 19,25%, anche se la Corte, pur nella mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, ha affermato che la contestazione della CNC era ininfluente, in quanto la scrittura concernente la determinazione degli interessi in misura superiore a quella legale era costitutiva del rapporto.

6. Con il sesto motivo la società ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1224 c.c., in combinato disposto con l’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., in relazione alla mancata corresponsione del maggior danno da interessi bancari passivi, affermando che la Corte avrebbe dovuto riconoscere il maggior danno senza necessità di prova specifica alcuna, salva la prova data del ricorso al credito bancario.

6.1 Il motivo è infondato.

Va, tuttavia, corretta la motivazione della Corte territoriale.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass., Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499).

Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva.

In particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. (Cass., Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499).

Nel caso in esame, tuttavia, il ricorrente ha formulato la domanda di risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, in modo estremamente generico, limitandosi a chiedere il “maggior danno ex art. 1224 c.c.” senza neppure dedurre che, nel periodo di interesse, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi era stato superiore al saggio degli interessi legali.

7. Il ricorso va, conclusivamente, rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonchè al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2020

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