Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7401 del 07/03/2022

Cassazione civile sez. I, 07/03/2022, (ud. 30/09/2021, dep. 07/03/2022), n.7401

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MARULLI Marco – rel. Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17016/2020 proposto da:

C.B., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa

dall’avvocato Antonio Gemelli, giusta procura in calce al ricorso

– ricorrente –

contro

Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica Regionale

della Calabria – Distretto Territoriale di Reggio Calabria,

subentrata all’ATERP della Provincia di Reggio Calabria, in persona

del commissario straordinario pro tempore, domiciliata in Roma,

Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di

Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe De Leo,

giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

nonché contro

Comune di San Giovanni di Gerace, in persona del sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma, Via Paolo Mercuri n. 8, presso lo

studio dell’avvocato Paolo Maria Gemelli, rappresentato e difeso

dall’avvocato Cesare Augusto Placanica, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 34528/2019 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, pubblicata il 27/12/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/9/2021 dal Pres. Dott. MARCO MARULLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VITIELLO Mauro, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. C.B. ha chiesto la revocazione dell’ordinanza 35428/2019 del 27.12.2019 con la quale questa Corte, rigettandone il ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria 667/2017, ha reputato infondata perché prescritta la domanda proposta dalla ricorrente, in concorso con gli altri coeredi, per il ristoro dei danni patiti in conseguenza dell’attività usurpativa posta in essere dal Comune di San Giovanni di Gerace che nel (OMISSIS) aveva occupato e quindi irreversibilmente trasformato, realizzandovi un intervento di edilizia residenziale pubblica, alcuni fondi già di proprietà del defunto C.F..

Nel respingere il predetto gravame, questa Corte confermava, circa i primi tre motivi di esso, l’assunto enunciato dal giudice di secondo grado in ordine alla prescrizione della pretesa dichiarata nell’occasione sul presupposto che la domanda dei coeredi C. aveva fatto seguito ad un’analoga domanda proposta dal loro dante causa, domanda andata perenta per successiva estinzione del giudizio per inattività delle parti, di modo che decorrendo la prescrizione a mente dell’art. 2945 c.c., comma 3, dalla prima domanda, risalente al 26.8.1985, essa si era compiuta all’atto della nuova domanda in data 1.7.1997; respingeva il quarto motivo reputando che le doglianze ivi declinate irrilevanti ai fini della cassazione della sentenza impugnata, giudicava inammissibile il quinto non essendo sindacabile in sede di legittimità la statuizione in ordine alla disposta compensazione delle spese di lite e dichiarava l’inconferenza del sesto, non formulando esso alcuna critica diretta alle statuizioni della sentenza impugnata.

Il ricorso oggi proposto per la revocazione della detta sentenza si vale di quattro motivi, al quale resistono il Comune di San Giovanni di Gerace e l’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica Regionale della Calabria, entrambi con controricorso e memorie.

Requisitorie del P.M. ex art. 380-bis1 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo di ricorso la C. lamenta l’errore di fatto in cui l’impugnata ordinanza di questa Corte sarebbe incorsa nell’aver omesso la disamina del motivo di ricorso inteso a denunciare l’erroneità della decisione d’appello, laddove essa annette decisivo rilievo, ai fini della prescrizione dichiarata, all’intervenuta cancellazione dal ruolo per inattività delle parti della domanda a suo tempo proposta da C.F., malgrado le irregolarità emergenti al riguardo dagli atti processuali che avrebbero dovuto condurre l’adito giudice di merito a prendere atto della sua nullità e, quindi, della conseguente illegittimità della successiva estinzione.

Con il secondo motivo di ricorso la C. censura il pensiero di questa Corte per l’errore di fatto da essa consumato nell’apprezzamento di atti istruttori rilevanti ai fini della pronuncia e, segnatamente, delle risultanze scaturenti dalle CTU versate in atti, evidenzianti che almeno fino al 2004 i lavori di trasformazione edilizia dei fondi oggetto di usurpazione erano ancora in corso, di talché, non decorrendo in tal caso la prescrizione, il diritto risarcitorio degli attori non poteva ritenersi prescritto.

Con il terzo motivo di ricorso la C. si duole dell’errore di fatto che avrebbe portato questa Corte ad ignorare le ragioni dell’originario ricorso ad essa, condensate nella duplice deduzione che la Corte d’Appello aveva giustificato la propria decisione per mezzo di argomenti estranei al contraddittorio tra le parti e che la composizione del collegio giudicante era stato oggetto di ripetute modificazioni in violazione del principio di immodificabilità del giudice.

Con il quarto motivo di ricorso la C. prende posizione circa l’omissione addebitata all’ordinanza di questa Corte, fonte anch’essa di errore di fatto, in punto al motivo deducente l’omessa pronuncia del giudice d’appello sulla domanda di indennizzo per indebito arricchimento, atteso che, contrariamente a quanto ivi ritenuto, ovvero che il motivo fosse generico e perciò inammissibile e che le controparti avessero eccepito la novità della relativa domanda, da tutti i pregressi atti del giudizio emergeva inoppugnabilmente la tempestività di essa e dunque la scrutinabilità del motivo.

3. Tutti i sopradetti motivi, esaminabili congiuntamente in quanto accomunati dal medesimo vizio, vanno dichiarati inammissibili e si sottraggono perciò al chiesto sindacato revocatorio.

E’ ben noto alla stessa ricorrente, come ancora di recente si è sintetizzato da questa Corte, che “l’errore di fatto rilevante ai fini della revocazione della sentenza, compresa quella della Corte di cassazione, presuppone l’esistenza di un contrasto fra due rappresentazioni dello stesso oggetto, risultanti una dalla sentenza impugnata e l’altra dagli atti processuali; il detto errore deve: a) consistere in un errore di percezione o in una mera svista materiale che abbia indotto, anche implicitamente, il giudice a supporre l’esistenza o l’inesistenza di un fatto che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, sempre che il fatto stesso non abbia costituito oggetto di un punto controverso sul quale il giudice si sia pronunciato, b) risultare con immediatezza ed obiettività senza bisogno di particolari indagini ermeneutiche o argomentazioni induttive; c) essere essenziale e decisivo, nel senso che, in sua assenza, la decisione sarebbe stata diversa” (Cass., Sez. VI-II 10/06/2021, n. 16439).

Più in dettaglio va qui ribadito il convincimento che l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a costituire motivo di revocazione si configura come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato (Cass., Sez. H, 24/09/2020, n. 20113; Cass., Sez. IV, 5/11/2018, n. 28143; Cass., Sez. VI-IV, 15/03/2018, n. 6405); così come del pari si impone di considerare che, proprio in vista del fondamento obiettivo che deve assistere l’errore percettivo commesso dal giudice, fra i requisiti necessari della revocazione occorre che il fatto oggetto di supposta esistenza o di supposta inesistenza non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi, dovendo pertanto escludersene la ricorrenza qualora l’asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice (Cass., Sez. I, 4/04/2019, n. 9527; Cass., Sez. I, 15/12/2011, n. 27094; Cass., Sez. IV, 16/11/2000, n. 14840).

Si ricava da ciò l’assunto che, consistendo l’errore revocatorio nell’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, esulano dalla previsione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, sia gli errori di diritto, tanto che si concretino nell’obliterazione delle norme applicabili alla specie che nella distorsione della loro effettiva portata, che gli errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perché siffatto tipo di errore, se fondato, costituisce al più un errore di giudizio e non un errore di fatto (Cass., Sez. U, 11/04/2018, n. 8984).

4. Nella ribadita certezza dunque che l’errore rilevante a mente dell’art. 395 c.p.c., n. 4, non è configurabile in rapporto al ragionamento decisorio quando esso, anche nella sua dimensione processuale, non abbia la consistenza del fatto e la sua allegazione sia operata solo in funzione della revisione del giudizio in punto di diritto che ha determinato l’esito insoddisfacente della lite, le doglianze ricorrenti si svuotano prestamente di ogni pretesa pregnanza revocatoria.

E’ indubbio, invero, che allorché la ricorrente con i motivi in disamina si dolga dell’omessa pronuncia riguardo alle anomalie della cancellazione o alla domanda di indebito arricchimento e, ancor più, laddove rivendichi un diverso responso in ordine alle indicazioni eccepibili della CTU o alle questioni valorizzate in modo indebito dal decidente di secondo grado, intenda propriamente sollecitare solo una revisione del ragionamento decisorio sviluppato dall’ordinanza qui impugnata, che risulta tanto più inesperibile quanto più evidente appaia che gli errori lamentati, pur formalmente denunciati con riferimento al pronunciamento di questa Corte, non investano solo affermazioni compiute da quest’ultima, ma l’apprezzamento di merito ed il giudizio all’esito di esso reso dalla Corte d’Appello, quasi ad ipotizzare che il giudizio di revocazione costituisca, quando abbia ad oggetto come qui un provvedimento di questa Corte, un quarto “grado” di giudizio in cui sia possibile rinnovare il sindacato di merito e, come qui, quello di legittimità a fronte di un complessivo esito della lite che lascia insoddisfatti.

Altrettanti ostacoli il mezzo qui proposto rinviene sul piano della sua ammissibilità anche guardando alla natura dell’errore denunciato, che non attiene ad un fatto storico e spaziale nel senso precisato dalla giurisprudenza di questa Corte e che a causa della sua oggettività non richiede alcuna particolare attività interpretativa perché balza agli occhi in modo incontestabile concretandosi, come si dice, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile. Al contrario gli errori che la ricorrente imputa all’ordinanza impugnata e, riflessamente, alla sentenza d’appello, hanno tutti un’intrinseca valenza giuridica in quanto è il ragionamento in diritto che vi si legge – e, per quanto essa ribadisce dei convincimenti del giudice d’appello, anche di quello fatto proprio dalla sentenza oggetto di ricorso – che diviene bersaglio diretto di critica, sicché per aver ragione delle rimostranze a cui il ricorso mette capo non basta la lettura degli atti, ma occorre interrogarsi sulla congruità in diritto delle singole proposizioni che ne sono oggetto, il che porta però, come ben si comprende, a snaturare la straordinarietà e le finalità del mezzo impugnatorio qui azionato. Così quando la ricorrente allega il silenzio dell’ordinanza impugnata sulle anomalie della cancellazione ovvero sulla domanda di indebito arricchimento, oltre a riferire una circostanza processuale inveritiera – che già ne priva l’assunto di ogni riflesso revocatorio – e a non allinearsi alle rationes al riguardo enunciate (si legge nella motivazione del provvedimento impugnato, quanto alla prima, che l’omissione imputata alla Corte d’Appello “non può comportare la cassazione della sentenza per l’assorbente ragione che le supposte irregolarità o l’andamento anomalo del giudizio intrapreso dal padre dell’odierna ricorrente sono qui irrilevanti in quanto non intaccano la declaratoria di estinzione del giudizio”; e, quanto alla seconda, che “la sub censura dedotta col quarto motivo, in riferimento all’omesso esame della domanda di indennizzo per ingiustificato arricchimento è inammissibile per la sua genericità”), oggetto di doglianza non è esattamente la circostanza denunciata, ma l’apprezzamento fattone da questa Corte, che non avrebbe correttamente interpretato le risultanze del processo, e, dunque, ciò di cui ci duole non è un incontestabile errore percettivo, ma semmai ancora una volta un mero errore di giudizio. Ancora più esplicita questa connotazione si rende al cospetto dei riflessi argomentativi, che si vorrebbero ritrarre dalla CTU, in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione della domanda risarcitoria, che, oltre a non accordarsi con il quadro di diritto lumeggiato dall’ordinanza al paragrafo 20, già a principiare dalla loro stessa illustrazione sottintendono una revisione del ragionamento decisorio nella valutazione delle risultanze processuali, che colloca la doglianza in parola manifestamente al di fuori dal perimetro del giudizio revocatorio, come del resto al di fuori essa sarebbe stata anche dal perimetro del semplice giudizio di legittimità, trattandosi come pure ammette la ricorrente, di circostanza direttamente estrapolata da un atto istruttorio. E non diversa è pure la conclusione che si impone in relazione alle doglianze che fanno capo alla pretesa violazione del contraddittorio e alle modificazioni intervenute nella composizione dell’organo giudicante, l’una e l’altra evidenziando temi decisionali che affondano le loro radici nella sfera valutativa delle risultanze di causa rimesse all’apprezzamento del giudice decidente, di talché già in via astratta – e quindi a prescindere dalle ragioni che vi oppone in concreto l’ordinanza (cfr. l’incipit di paragrafo 16 riguardo alla prima doglianza ovvero il paragrafo 14 riguardo alla seconda) – oggetto di denuncia si palesa non già “un’abbaglio” di questo rilevante a mente dell’art. 395 c.p.c., n. 4, ma ancora una volta il giudizio che trova espressione nell’ordinanza impugnata.

5. Non meno significativo è poi, nella stessa chiave preclusiva, considerare che su tutte le questioni oggetto di illustrazione nei motivi di ricorso l’ordinanza di che trattasi ebbe a prendere posizione, sicché, pronunciandosi in tal modo su punti controversi del giudizio, viene meno l’ulteriore condizione di ammissibilità del mezzo azionato imposta dall’art. 395 c.p.c., n. 4.

Cadono, per vero su questo versante, all’esame degli atti, le doglianze esternate con il primo ed il quarto motivo di ricorso, posto che rispetto alle questioni che vi sono sollevate la Corte non ha mancato di far conoscere il proprio pensiero, giudicando, come si è visto, irrilevante la prima allegazione ed inammissibile la seconda; e cadono pure le doglianze rappresentate con il secondo e con il terzo motivo di ricorso, considerato che in relazione alla prima, soffermandosi sul quadro di diritto scaturito a seguito dell’arresto delle SS.UU. di questa Corte 735/2015, l’ordinanza si è data cura di rendere coerente il confronto processuale con il mutato assetto impresso dalla materia dall’arresto delle SS.UU. e, nel far ciò, ha pure indirettamente smentito la decisività dell’argomento che si sarebbe voluto eccerpire dalla CTU; mentre riguardo alle doglianze di cui al terzo motivo di ricorso, fanno premio nella stessa direzione le osservazioni che si leggono ai paragrafi 14 e 16 dell’ordinanza, tutte, pur in disparte da loro tenore, indiscutibilmente rappresentative di un pronunciamento sulle medesime.

6. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico del ricorrente del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di ciascuna parte controricorrente in Euro 6400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 30 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2022

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