Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7399 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 16/02/2010, dep. 26/03/2010), n.7399

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25923/2006 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 90,

presso LO STUDIO LEGALE ASSOCIATO VACCARO, rappresentato e difeso

dall’Avvocato VACCARO Giovanni, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO Luigi, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega a margine del

ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 657/2005 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 24/10/2005 R.G.N. 1418/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/02/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato VACCARO GIOVANNI;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

B.S. chiede la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Catania, pubblicata il 24 ottobre 2005, che ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Ragusa aveva respinto il suo ricorso di impugnativa del licenziamento intimatogli da Poste italiane spa.

Poste italiane spa si difende con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato una memoria.

Il ricorso consta di un unico motivo, così rubricato: violazione e falsa applicazione di norme di diritto, della L. n. 604 del 1966, art. 6, erroneità ed illegittimità della sentenza impugnata, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Nella esposizione del motivo si critica la sentenza per aver confermato la decisione del Tribunale, concordando con il giudice di primo grado sul fatto che le due missive indirizzate, a seguito del licenziamento, alla società datrice di lavoro non costituiscono impugnativa e che pertanto il ricorrente è incorso nella decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6.

Si aggiunge che i giudici di merito avrebbero anche errato nel rilevare la seconda missiva era sottoscritta dal solo avvocato, il quale non ha provveduto nel termine di decadenza a comunicare la procura.

Ancora, si assume che il termine di decadenza non aveva neanche iniziato a decorrere non avendo la società comunicato i motivi del licenziamento.

Infine, si sostiene che la disciplina della L. n. 604 del 1966, non si applica alle Poste italiane, soggetto invece al decreto legislativo 165 del 2001 (testo unico sul pubblico impiego).

Il ricorso non può essere accolto.

Preliminarmente, deve sottolinearsi che è priva di qualsiasi fondamento la tesi per cui il rapporto di lavoro intercorrente tra le parti, all’epoca dei fatti (successivi alla entrata in vigore del primo contratto collettivo del novembre 1994), era regolato dalla normativa sul pubblico impiego e non da quella di diritto privato. Il rapporto era soggetto alla normativa privatistica e, in tale ambito, alla disciplina dettata dalla Legge del 1966 in materia di licenziamenti.

Il ricorrente, del resto, pone prima di tutto una questione del tutto interna alla applicazione di tale legge. La questione è se le due lettere indirizzate, la prima dal ricorrente, l’altra dall’avvocato, alla società datrice di lavoro, costituiscano impugnativa di licenziamento.

Secondo il ricorrente tali missive, ed in particolare la seconda, costituivano impugnativa di licenziamento. Secondo la Corte e il tribunale, esse contenevano solo una richiesta di accesso ai documenti amministrativi.

Nel ricorso tali lettere vengono riportate solo per stralci, con violazione del criterio dell’autosufficienza.

In ogni caso, la questione che viene posta è una questione di interpretazione di dichiarazioni, quindi una questione di merito. Al più si sarebbe dovuto porre un problema di violazione dei criteri ermeneutici dettati dal codice, ma tale questione non viene neanche adombrata. Nè si indica un punto o più punti della motivazione fornita dalla Corte in cui emergano incongruenze o insufficienze.

Ed invero la motivazione della Corte sul punto risulta analitica, coerente e completa.

Immune quindi da censure.

Il rigetto di questa censura, rende superflua l’analisi della questione concernente la idoneità dell’avvocato a impugnare il licenziamento.

Il terzo punto critico è palesemente infondato. La Corte spiega bene che la motivazione del licenziamento è stata fornita al ricorrente e che comunque questi non ha provato di aver fatto richiesta in tal senso.

Dell’ultima questione posta si è già detto, considerata la sua natura preliminare. Le spese vanno poste a carico del ricorrente per la infondatezza del ricorso che ha riproposto questioni già sottoposte al giudice di appello alla quali la decisione della Corte di Catania aveva dato risposta analitica e completa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione alla controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 17,00, nonchè Euro 3.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

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