Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7397 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 16/02/2010, dep. 26/03/2010), n.7397

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresentata e difende,

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OTRANTO

47, presso lo studio dell’avvocato ROMEO FRANCESCO, rappresentato e

difeso dall’avvocato DI PARDO SALVATORE, giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23 8/2005 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 11/08/2005 R.G.N. 183/04;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

16/02/2010 dal Consigliere Dott. IANNIELLO Antonio;

udito l’Avvocato MICELI MARIO con delega PESSI ROBERTO;

udito l’Avvocato IACOVINO VINCENZO per delega DI PARDO SALVATORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Campobasso, con sentenza depositata l’11 agosto 2005, ha confermato integralmente la sentenza del 13 maggio 2003, con la quale il Tribunale di Campobasso aveva accolto la domanda di impugnazione, ex art. 18 S.L., del licenziamento per giusta causa comunicato in data 9 ottobre 2001 da Poste Italiane s.p.a. al proprio dipendente D.G.M., ai sensi degli artt. 51, 52 e 54 del C.C.N.L. del gennaio 2001 applicabile al rapporto, a seguito della contestazione di essere stato destinatario, ex art. 444 c.p.p., di una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, per il reato di cui agli artt. 81, cpv., 640 cpv. e 340 c.p., per non avere, dal luglio 1998 al gennaio 1999, rispettato gli orari di lavoro presso le agenzie postali di (OMISSIS), ledendo, con tali comportamenti, il rapporto fiduciario con la societa’ ed evidenziando la sua inidoneita’ dal punto di vista professionale.

In proposito, la Corte territoriale, interpretando le norme del C.C.N.L. invocate, ha escluso che l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. sia riconducibile all’ipotesi di “condanna passata in giudicato”, ivi considerata ai fini del possibile licenziamento senza preavviso ed ha comunque escluso che i fatti imputati al lavoratore fossero irrimediabilmente lesivi del vincolo fiduciario e dunque tali da giustificare il licenziamento intimato.

Per la cassazione di tale sentenza propone ora ricorso la societa’, affidandolo ad un unico articolato motivo.

Resiste con controricorso l’intimato.

Ambedue le parti hanno depositato memorie difensive ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 — Col ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., dell’art. 18 S.L., dell’art. 12 preleggi (in riferimento all’art. 54 del C.C.N.L. 2001), dell’art. 444 c.p.p. e dell’art. 1362 c.c. e segg. nonche’ il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

La Corte avrebbe errato nel valutare non equiparabile alla sentenza di condanna quella cd. di patteggiamento pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p..

A parte infatti che le S.U. penali di questa Corte hanno affermato che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti e’ equiparabile a quella di condanna, salvo che per i pochi effetti specificatamente disciplinati in maniera diversa, il problema andava risolto sul piano della interpretazione della volonta’ contrattuale collettiva, da condurre non solo sulla base del criterio testuale, ma anche – data la particolare natura del contratto collettivo, destinato a disciplinare una serie indeterminata di rapporti di lavoro – facendo riferimento alla volonta’ oggettiva delle parti, al criterio dell’interpretazione complessiva e sistematica nonche’ a quello dell’equo contemperamento degli interessi in gioco.

Dalla corretta applicazione nel caso in esame dei criteri di ermeneutica contrattuale sarebbe infatti risultato che, con l’espressione “condanna”, i contraenti collettivi avevano inteso riferirsi anche all’ipotesi, a questa di significato analogo anche sul piano del sentire comune, dell’applicazione della pena a seguito del c.d. patteggiamento.

Secondo la ricorrente, inoltre, la Corte territoriale sarebbe incorsa in un ulteriore errore laddove aveva valutato i fatti contestati al dipendente come non sufficientemente gravi da meritare il licenziamento.

Se infatti la Corte avesse tenuto conto, nel compiere siffatta valutazione in ordine alla gravita’ dell’inadempimento nel caso di specie – come avrebbe dovuto in base ai principi vigenti in materia – delle mansioni di particolare importanza attribuite al ricorrente, dell’affidamento nella correttezza dell’adempimento del servizio affidatogli, non solo da parte del datore di lavoro ma anche del pubblico nonche’ del valore sintomatico che la condotta contestata al dipendente proiettava sulle aspettative di futuri adempimenti, non avrebbe potuto non concludere nel senso della irreparabile lesione del vincolo fiduciario del rapporto.

La societa’ conclude pertanto chiedendo la cassazione della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.

2. – Il ricorso e’ infondato.

Va infatti rilevato che il ragionamento iniziale della Corte territoriale nella sentenza impugnata si muove proprio, come auspicato dalla ricorrente, sul piano dell’interpretazione della norma contrattuale collettiva che collega la sanzione del licenziamento per giusta causa al caso in cui il dipendente abbia subito una condanna penale passata in giudicato, per concludere – a seguito di considerazioni partite dall’analisi del tenore letterale della disposizione e proseguite nella ricerca della effettiva volonta’ delle parti collettive anche attraverso criteri di interpretazione complessiva e sistematica (quali la considerazione della diversita’ di significato della ipotesi di condanna penale rispetto a quella di c.d. patteggiamento sul piano dell’accertamento dei fatti e della responsabilita’ dell’autore, il fatto che il contratto collettivo fosse posteriore alla legge che aveva introdotto il patteggiamento e pur non ne facesse menzione ai fini indicati etc.) – nel senso di escludere dall’ambito della norma contrattuale l’ipotesi di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevista dall’art. 444 c.p.p..

Come e’ noto, nel regime antecedente il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (e quindi, D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ex art. 2 e ex art. 27, comma 2, con riguardo ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate antecedentemente alla data del 2 marzo 2006, come nel caso di specie), l’interpretazione di un contratto collettivo e’ qualificabile come giudizio di fatto riservato ai giudici di merito e censurabile in questa sede di legittimita’ unicamente per violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale o per carenza o contraddittorieta’ della motivazione.

Nel caso in esame, a fronte della interpretazione che la Corte territoriale ha reso della norma collettiva invocata, la ricorrente omette anzitutto di riprodurre il testo della norma contrattuale, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso (su cui cfr., ex ceteris, recentemente Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09) e inoltre enuncia, richiamando alcune sentenze di questa Corte, i criteri che occorre seguire nella interpretazione di un contratto collettivo, senza peraltro indicare in che senso la sentenza impugnata se ne sarebbe discostata.

Quanto poi al preteso vizio di motivazione sul punto, la ricorrente si limita a proporre una diversa interpretazione della norma contrattuale collettiva (di per se’, sicuramente inammissibile come censura in sede di legittimita’: Cass. 2 novembre 2007 n. 23848), sostenendola unicamente col richiamo di analoghe pronunce di giudici di merito interpretative della medesima norma contrattuale nel senso affermato dalla ricorrente e che questa Corte avrebbe ritenuto non censurabili (in effetti, v. di recente Cass. 26 marzo 2008 n. 7866).

Una tale deduzione non tiene peraltro conto dei ricordati limiti del controllo di legittimita’ su tali operazioni interpretative dei giudici di merito, che fisiologicamente possono condurre a ritenere non censurabili in questa sede anche opposte interpretazioni della medesima norma collettiva.

3 – In ogni caso, la Corte territoriale (in considerazione del fatto che la sentenza di patteggiamento, seppure equiparata, quanto agli effetti, alla sentenza di condanna, in mancanza di una espressa previsione di deroga – cfr. Cass. sez. un. penali 23 maggio 2006 n. 17781 -, non contiene un accertamento di fatti e di responsabilita’ e quindi non esime il datore di lavoro dal compiere una autonoma valutazione circa la sussistenza dei fatti addebitati e la relativa gravita’, valutazione soggetta quindi al possibile controllo giudiziario), ha valutato i fatti addebitati al lavoratore inadempimenti non talmente gravi da ledere in maniera irreparabile il rapporto fiduciario e quindi le aspettative sulla correntezza e sulla correttezza del successivo svolgimento del rapporto.

Tale valutazione di merito – condotta sulla base della considerazione del tipo dei compiti affidati al dipendente, in una occasione anche di direzione di un ufficio postale, valutato peraltro come di minore importanza, della durata limitata dei suoi ritardi in entrata o anticipi in uscita dal lavoro (comunque senza alterazione degli strumenti di rilevazione delle presenze) e quindi del modesto impatto sulla funzionalita’ complessiva del servizio, desunto anche da altre circostanze significative nonche’ dell’assenza di precedenti disciplinari a suo carico – viene ora apoditticamente censurata dalla ricorrente per pretesa omissione della considerazione di parametri legali di valutazione da ritenere fondamentali, i quali viceversa risultano correttamente tenuti presenti dai giudici di merito nell’esame delle circostanze del caso, come sopra evidenziato.

Trattasi, pertanto anche in questo caso, della mera contrapposizione, alla articolata valutazione della Corte d’appello, di apprezzamenti diversi delle medesime circostanze di fatto acquisite, quasi a sollecitare da parte di questa Corte un impossibile giudizio di terza istanza, estraneo al nostro Ordinamento processuale.

4 – Concludendo, in base alle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della ricorrente a rimborsare al resistente le spese di questo giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 36,00 per spese ed Euro 2.000,00, oltre accessori, per onorari.

Cosi’ deciso in Roma, il 16 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

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