Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7386 del 07/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 07/03/2022, (ud. 23/02/2022, dep. 07/03/2022), n.7386

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11799/2013 R.G. proposto da:

FGA Investimenti s.p.a. (già ITCA s.p.a.), in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Corrado

Magnani e dall’Avv. Maria Antonelli, giusta procura speciale in

calce al ricorso per cassazione, elettivamente domiciliata presso lo

studio del secondo Avvocato, in Roma, Piazza Gondar, n. 22;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato e

presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 34/24/2012, depositata il 13 giugno 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 febbraio

2022 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Torino (n. 108/4/2009) che aveva accolto il ricorso della FGA Investimenti s.p.a. (già ITCA Produzione s.p.a.) relativamente all’ammortamento dei terreni ed all’indeducibilità dei costi per servizi intercompany, ai fini Ires, per l’anno 2005. Il giudice d’appello, dopo aver rigettato l’eccezione preliminare sollevata, evidenziava che il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 7, aveva natura innovativa, e non interpretativa, laddove stabiliva l’indeducibilità del costo delle aree occupate dalla costruzione di fabbricati strumentali all’impresa, ma, anche per il passato non era possibile dedurre le quote di ammortamento del valore di un terreno sul quale insisteva un immobile. Il sottostante terreno era dotato di autonoma funzionalità che non veniva meno con la sovrastante edificazione, sicché se ne desumeva la separata considerazione ai fini dell’ammortamento; il valore del terreno in quanto non deperibile o consumabile non poteva, ai sensi dell’art. 2426 c.c., essere sistematicamente ammortizzato, a differenza della sovrastante costruzione che aveva, in sé, invece, un deperimento, soprattutto in riferimento ai fabbricati industriali necessitanti di continui ammodernamenti e ricostruzioni con il progredire delle tecniche di produzione industriale. Nel costo dei fabbricati industriali non poteva essere incluso anche il valore delle sottostanti terreni, a differenza di quanto espressamente stabilito per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione amministrativa. Il valore del terreno, comprese le aree pertinenziali, sul quale insisteva il fabbricato non era fiscalmente ammortizzabile anche prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006. Quanto alla deducibilità dei costi derivanti dal contratto intercompany, il giudice di prime cure aveva errato nell’applicare il principio della ripartizione dell’onere della prova; infatti, quanto ai costi di “regia” gravava sulla capogruppo che intendeva dedurre per intero i costi per la gestione delle attrezzature e dei locali utilizzati anche da altre società del gruppo, l’onere di provare l’esistenza e l’inerenza dei costi. Era necessario, dunque, che la controllata traesse dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima fosse obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata. Nella specie, la società si era limitata a produrre solo alcune schede contabili ed alcune fatture, oltre ad un contratto di prestazione di servizi, privo di data certa anteriore alla verifica tributaria, in violazione dell’art. 2704 c.c., quindi non opponibile all’Amministrazione finanziaria. Tra l’altro, i giudici di prime cure avevano qualificato la contestazione dell’Ufficio come presunta condotta elusiva della società contribuente FGA investimenti, ma tale assunto era infondato in quanto l’avviso di accertamento concerneva la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e non la realizzazione di un’ipotesi di abuso del diritto. Infondata era poi la doglianza della società che riteneva, in presenza di un consolidato fiscale, che il soggetto destinatario dell’attività di rettifica dovesse essere la società consolidante e non, come nel caso concreto, le singole società consolidate. In realtà la normativa faceva riferimento al controllo delle dichiarazioni delle singole società. Neppure fondata era la doglianza relativa all’assoluta indeterminatezza del richiamo alla norma di legge sulla cui base l’Ufficio aveva operato la rettifica, in quanto la contribuente aveva criticato efficacemente, con argomentate tesi giuridiche, l’avviso di accertamento. Ne’ era fondata l’ulteriore eccezione per cui, trattandosi di consolidato fiscale, vi sarebbe stata comunque la compensazione di utili e perdite sicché vi era assenza di sottrazione di gettito. In realtà la tassazione di gruppo era la mera aggregazione di redditi imponibili, con somma algebrica dei risultati fiscali conseguiti da ciascuna società a differenza dal consolidato civilistico. Ne’ vi era stata una doppia imposizione in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163, a seguito della pretesa “neutralità” dei costi e dei ricavi all’interno del gruppo. Neppure era condivisibile la lamentela in ordine ad un generale principio di intangibilità, ai fini fiscali, dei corrispettivi pattuiti della società.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società contribuente FGA investimenti, depositando anche memoria scritta.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Anzitutto, si rigetta l’eccezione preliminare di mancanza di autosufficienza del ricorso per cassazione presentato dalla contribuente. Invero, il ricorso per cassazione, pure nella sua stringatezza, quanto alla descrizione del fatto, consente comunque la piena comprensione delle doglianze sollevate dalla società contribuente.

1.1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir, e dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Per la società costituiva circostanza pacifica quella dell’esistenza del costo di “regia” o intercompany. Con riferimento, però, all’inerenza di tali costi solo impropriamente, ed erroneamente poteva parlarsi di onere di dimostrazione a carico di una delle parti e, quindi, con riguardo ai componenti negativi di reddito del contribuente. Tra l’altro, costituivano fatti incontroversi: l’effettività dei costi addebitati alla contribuente, all’epoca ITCA Produzione s.p.a.; la loro oggettiva inerenza all’esercizio dell’impresa trattandosi di costi di natura amministrativa, “consulenziale” e gestionale; l’utilizzazione esclusiva di tali servizi da parte della contribuente.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello, avendo ritenuto non sufficiente la produzione del contratto intercompany, delle fatture, e delle schede contabili allegati al processo verbale di constatazione, avrebbe violato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109. I costi, peraltro, erano stati utilizzati interamente ed esclusivamente dalla società contribuente quale unica produttrice di ricavi. I costi, poi, erano inerenti in quanto il corrispettivo dei servizi è consistito nel “ribaltamento” dei costi sostenuti dalla capogruppo. La prova dei fatti costitutivi sui costi non era necessariamente documentale, ma poteva provenire anche dalla prova presuntiva; vigeva inoltre, il principio di libertà delle forme, sicché potevano essere stipulati anche contratti verbali, pienamente efficaci nei confronti dell’Amministrazione finanziaria; gli obblighi di documentazione erano solo quelli previsti dalla legge o da altra norma imperativa, quindi scritture contabili, registrazioni, emissione di fatture. Il contratto intercompany (cost sharing) era efficace, nonostante la mancanza di data certa. La scrittura privata era stata, infatti, portata ad esecuzione.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e dell’art. 2704 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 “. Il giudice d’appello, nell’affermare che la scrittura privata che documentava il contratto di cost sharing era inopponibile all’Amministrazione finanziaria, avrebbe violato l’art. 2704 c.c.. In realtà l’assenza di data certa non esclude l’efficacia probatoria del contratto intercompany.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Il giudice d’appello, nel ritenere che la contribuente non aveva adempiuto all’onere della prova in ordine all’inerenza dei costi, non avrebbe esplicitato l’iter logico-giuridico attraverso il quale era pervenuta a tale conclusione. Dinanzi alle prodotte schede contabili e fatture emesse in relazione ai servizi prestati, il giudice d’appello ha, del tutto apoditticamente, affermato che tali documenti non permettevano di valutare la sussistenza di tali costi, né la non inerenza. Mancherebbe, dunque, una spiegazione logica alla decisione, non comprendendosi perché le schede contabili e le fatture siano, in sé, prive di valenza probatoria.

5. I primi quattro motivi, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di stretta connessione, sono infondati.

5.1. I fatti di causa possono essere sintetizzati in questo modo; in questo procedimento si tratta dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), per IRES relativa all’anno 2005, emesso dalla Agenzia delle entrate, Ufficio di (OMISSIS), sulla base di un processo verbale di constatazione redatto il (OMISSIS) dalla Guardia di Finanza di Torino, nei confronti della ITCA, quale società consolidante della ITCA Produzione, ora FGA Investimenti, quindi ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 127; con tale avviso di accertamento si recuperavano a tassazione due importi: ammortamenti indeducibili relativi a terreni per l’importo di Euro 26.093,91; elementi negativi di reddito non deducibili per mancanza del requisito della certezza e dell’inerenza per l’importo di Euro 2.346.000,00.

Dal controricorso emerge in modo chiaro la composizione del gruppo societario, in cui la società ITCA Produzione s.p.a., facente parte del gruppo ITCA, nell’anno 2005, era interamente partecipata dalla ITCA Tools s.p.a. ed entrambe, a loro volta, erano controllate dalla I.T.C.A. s.p.a. che, a decorrere dal (OMISSIS), ha assunto la denominazione FGA investimenti s.p.a. (cfr. controricorso dell’Agenzia delle entrate). Le società, a partire dal 2004, avevano aderito al consolidato nazionale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 117, nell’ambito del quale la I.T.C.A. s.p.a. era la società consolidante.

5.2. Va premesso che il fenomeno giuridico ed economico dei gruppi aziendali, operanti in collegamento nel territorio dello Stato, ha comportato il diffondersi di operazioni aziendali di tipo difensivo che, nate per la più conveniente allocazione dell’imponibile tra le società associate, sono spesso sfociate in vere e proprie operazioni elusive (Cass. n. 17955 del 2013), il che comporta una particolare rigore, in linea generale, nella valutazione delle operazioni intercompany che hanno destato anche l’attenzione dell’OCSE (Cass. n. 16480 del 2014; Cass., sez. 5, 6 luglio 2021, n. 19166).

Costituisce, infatti, principio giurisprudenziale consolidato quello per cui, in materia di costi c.d. infragruppo, ovvero laddove la società capofila di un gruppo di imprese decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi tra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione, l’onere della prova in ordine all’esistenza ed all’inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinché il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile ed adeguatamente documentata (Cass., sez. 5, 6 luglio 2021, n. 19166; Cass., 14 dicembre 2018, n. 32422; Cass. n. 23027 del 2015; Cass. n. 8808 del, 2012; Cass. n. 11949 del 2012).

5.3.Da ciò consegue che la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali e sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) è subordinata all’effettività ed inerenza della spesa in ordine all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che ne sia derivato a quest’ultima, non ritenendosi sufficiente l’esibizione del contratto riguardante le prestazioni di servizi forniti dalla controllante alle controllate e la fatturazione dei corrispettivi (Cass., sez. 5, 22 marzo 2021, n. 8001; Cass., 18 luglio 2014, n. 16480), richiedendosi, al contrario, la specifica allegazione di quegli elementi necessari per determinare l’utilità effettiva o potenziale conseguita dalla consociata che riceve il servizio (Cass. n. 16480 del 2014; Cass. n. 14016 del 1999; in relazione ai costi di regia cfr. Cass., 4 ottobre 2017, n. 23164).

In particolare, si tratta di verificare la sostanza aziendale ed economica dell’operazione intervenuta e di metterla a confronto con analoghe operazioni realizzate, in circostanze comparabili, in condizioni di libero mercato tra soggetti indipendenti e di valutarne la conformità a queste e l’utilità obiettiva.

Rileva, dunque, il principio dell’arm’s lenght, ossia quello di garantire che il prezzo praticato e le condizioni stabilite in transazioni tra soggetti collegati siano i medesimi previsti nei rapporti tra soggetti terzi indipendenti (cfr. OECD, Transfer Pricing Guidelines, 2017). L’Amministrazione finanziaria è tenuta a contestare non il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese di un gruppo, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale.

5.4. Spetta, dunque, alla contribuente, secondo i criteri generali, fornire tutti gli elementi atti a supportare la deducibilità dei costi sostenuti per ottenere i servizi prestati dalla controllante, tra i quali l’effettiva utilità dei costi stessi per la controllata, anche se a quei costi non corrispondono direttamente ricavi in senso stretto (Cass., 5 dicembre 2018, n. 31405)

5.5. Peraltro, è stata ritenuta legittima la prassi amministrativa (C.M. n. (OMISSIS) del (OMISSIS)) che, al di là della forfettizzazione percentuale dei costi di addebitati dalla capogruppo alle controllate, subordina la deducibilità dei costi derivanti da accordi contrattuali sui servizi prestati dalla controllante (cost sharing agreements) all’effettività e all’inerenza della spesa all’attività di impresa esercitata dalla controllata ed al reale vantaggio che deriva a quest’ultima (Cass., 11 novembre 2015, n. 23027), senza che rilevino in proposito quelle esigenze di controllo della capogruppo, peculiari della sua funzione di shareholder (Cass., 18 luglio 2014, n. 16480).

5.6. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, e risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184; Cass. n. 9466 del 2017).

5.7. Nella specie, la contribuente, società controllata, si è limitata a produrre un contratto stipulato con la società controllante (ITCA s.p.a.) e l’altra società controllata (ITCA Tools s.p.a.), in cui le prestazioni vengono descritte in modo del tutto generico e superficiale. Tale contratto, peraltro, come evidenziato dal giudice d’appello non era munito di data certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c., sicché era inopponibile all’Amministrazione finanziaria. La Commissione regionale ha anche sottolineato l’assoluta genericità delle fatture relative ai rapporti tra le varie società, neppure in regola ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21.

Pertanto, non v’e’ stata alcuna violazione della regola di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.; a fronte della contestazione specifica dell’Agenzia delle entrate, la contribuente si è limitata alla produzione di un contratto intercompany del tutto generico, che, al più, poteva rappresentare un “contratto quadro”, che necessitava di ulteriori impegni negoziali, con allegazione di fatture altrettanto imprecise. La motivazione del giudice d’appello, in piena aderenza agli elementi istruttori in atti, è del tutto congrua ed articolata, non tralasciando alcuna circostanza fattuale (“in altri termini le prove precostituite offerte non sono altro che copie di alcune schede contabili e di alcune fatture che nulla aggiungono agli elementi di causa. Ne’ l’assolvimento del suddetto peso processuale fu assolto mediante la produzione in atti del contratto di prestazione di servizio da cui sarebbe derivata la ripartizione delle suddette spese. Tuttavia, preliminarmente all’esame nel merito del contenuto di tale contratto è doveroso valutare la critica su tale patto svolta dall’Ufficio, ovvero che la mancanza di data certa anteriore la verifica tributaria precluderebbe il dispiegarsi dei suoi effetti nei confronti dei terzi, da cui l’ufficio”). Continua il giudice d’appello affermando che “a parte la produzione in atti dei documenti allegati al PVC e il sopra descritto contratto, la contribuente non fornì a questa Commissione altri elementi tali da far ritenere assolto l’onere della dimostrazione dei costi su di essa incombenti”.

Il contenuto del contratto viene riportato nel controricorso, oltre che nella motivazione della sentenza del giudice di prime cure (cfr. pagina 10 del controricorso), ed è rappresentato dalla scrittura privata del 15 aprile 2005, con cui le società del gruppo, ossia I.T.C.A. s.p.a., quale consolidante, ITCA Tools s.p.a., consolidata, e I.T.C.A. Produzione s.p.a., società contribuente consolidata, hanno convenuto che “in base alle proprie strutture organizzative, capacità e risorse operative, di prestarsi, a tempo indeterminato, reciproca assistenza nei vari adempimenti amministrativi, contabili, civilistici e fiscali”. All’esito di tale accordo i costi della società consolidante (I.T.C.A. s.p.a.) e della controllata (ITCA Tools s.p.a.) sono stati interamente addebitati alla I.T.C.A. produzione s.p.a., unica società produttiva del gruppo. I costi, relativi all’anno 2005, per le spese sostenute dalla società ITCA Tools e dalla I.T.C.A. erano, rispettivamente, per Euro 708.000,00 e per Euro 1.138.000,00, per un ammontare complessivo di Euro 2.346.000,00. Tali spese erano state considerate come un’unica prestazione di servizio complessa, imponibile ai fini Iva.

Le richieste di ulteriore documentazione da parte dell’Agenzia delle entrate non sono state esaudite, in quanto la contribuente, come risulta dal PVC, ha dichiarato di non aver formalizzato nulla al riguardo “poiché implicitamente rendicontate ed accettate nell’ambito degli ordinari rapporti infra gruppo” (cfr. anche pagina 7 dell’avviso di accertamento, trascritto in parte nel controricorso dell’Agenzia). Pertanto, come correttamente rilevato dal giudice d’appello, nella sua completa motivazione, alla generica scrittura intercompany non è seguita la produzione di alcun contratto specifico tra le parti, attestante l’esistenza alla natura delle prestazioni effettivamente rese.

5.8. E’ del tutto fuori centro la doglianza della società, che ritiene l’assoluta pacificità della esistenza delle spese sostenute da essa per le prestazioni asseritamente resa in suo favore da parte della società controllante I.T.C.A. s.p.a. e della società controllata ITCA Tools (cfr. pagine 4 e 5 del ricorso per cassazione “nel caso in esame i fatti, allegati nel ricorso introduttivo a prova della esistenza e della inerenza dei costi, erano pacifici in causa”). In realtà, sempre dal ricorso per cassazione emerge che l’Agenzia delle entrate non aveva ritenuto in alcun modo pacifici i fatti, ma aveva solo evidenziato che i costi delle pretese prestazioni erano stati addebitati tutti alla società contribuente (controdeduzioni dell’Agenzia delle entrate in prime cure “i costi delle predette società, sulla scorta dei citati accordi intercompany, risultavano essere stati interamente addebitati alla I.T.C.A. produzione s.p.a. in quanto, come affermato da ultimo, anche nel ricorso, unica società produttiva del gruppo”). Inoltre, nell’avviso di accertamento si dà atto della assenza di documentazione dei costi sostenuti dalla società contribuente (cfr. pagina 22 del controricorso “per quanto attiene al requisito della documentabilità, si sottolinea come debba essere assicurato in ogni fase della transazione, dalla prova dell’evidenza dell’attività svolta, alla ragionevolezza del corrispettivo pattuito sino al carattere oggettivo di ripartizione dei costi adottato dalla capogruppo”), con la precisazione che “oltre al principio generale della inerenza e della certezza sopra menzionati, occorre in ultimo tenere presente il requisito della congruità, attraverso il quale i costi in analisi devono essere suddivisi tra le varie consociate in relazione ai benefici che ciascuna può ottenere dalla loro utilizzazione”. Sempre nell’avviso di accertamento si rileva che “alla luce di quanto sopra esposto e della carenza di documentazione esibita non si ritengono sussistenti i prescritti requisiti di inerenza, certezza e congruità richiesti dalle norme generali sui componenti negativi del reddito di impresa”. L’assenza di documentazione e, quindi di certezza, dei costi viene ribadito dall’Amministrazione nelle controdeduzioni nel giudizio di prime cure ove si afferma che “controparte non ha cercato di proporre una benché minima difesa sull’altro rilievo sollevato dall’ufficio sempre con riferimento alla violazione dell’art. 109 Tuir, sotto il diverso profilo dell’omessa documentabilità dei costi asseritamente sostenuti” (cfr. pagina 23, costituzione in giudizio dell’Ufficio); tanto più che l’atto di appello dell’Ufficio mirava proprio a censurare la sentenza di prime cure che aveva omesso di pronunciarsi proprio su tale profilo (omessa dimostrazione del requisito della certezza e, quindi, di quello dell’inerenza dei costi), in un contesto di evasione di imposta, e non di elusione fiscale, sub specie di abuso del diritto, come erroneamente affermato dalla Commissione provinciale.

E’ evidente, poi, stante il tenore estremamente generico del contratto intercompany, che le fatture e le schede contabili, essendo compilate anch’esse in modo assolutamente generico, non erano sufficienti a dare la prova della esistenza dei servizi asseritamente espletati in favore della società contribuente, sia dalla società controllante I.T.C.A. s.p.a. sia dall’altra società controllata ITCA Tools. Inoltre, il contratto sottoscritto dalle società, per essere opponibile all’amministratore fiscale, deve essere munito di data certa, ai sensi dell’art. 2704 c.c.. Si è affermato, infatti, che il legislatore ha inteso ampliare il concetto di terzo cui fa riferimento l’art. 2704 c.c., comprendendovi anche l’Amministrazione finanziaria, titolare di un diritto di imposizione collegato al negozio documentato e suscettibile di pregiudizio per effetto di esso (Cass., sez. 5, 17 dicembre 2008, n. 29451, seppure relativa ad imposta di registro; Cass., sez. 5, 5 marzo 2021, n. 6159, in tema di Ici; Cass., sez. 5, 19 febbraio 2014, n. 3937, sempre in tema di imposta di registro). La Commissione regionale ha enucleato in modo chiaro e trasparente il proprio ragionamento logico deduttivo per giungere alla conclusione che la contribuente non aveva in alcun modo dimostrato l’esistenza, oltre che l’inerenza, dei costi.

Come riportato nel controricorso, infatti, la fattura n. (OMISSIS) emessa il 15 novembre 2006 dalla ITCA Tools conteneva quale causale quella del “ribaltamento spese enti centrali”; allo stesso modo la fattura n. (OMISSIS) emessa il (OMISSIS) dalla I.T.C.A. s.p.a. conteneva la generica causale “ribaltamento spese enti centrali anno 2005”.

6. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1.2. e 3.2., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Il giudice d’appello ha ritenuto che i terreni pertinenziali agli stabilimenti industriali non fossero ammortizzabili. In realtà, le quote di ammortamento riferibili ad “aree parcheggi”, aventi natura pertinenziale, sono deducibili, ai sensi del principio contabile nazionale n. 16 nella considerazione che, pur essendo i terreni in via di principio non ammortizzabili, in quanto insuscettibili di deperimento e consumo, quelli su cui insistono fabbricati perdono la loro originaria natura ed autonoma utilità per assumere una diversa funzionalità inscindibile con quella del fabbricato sul cui valore ammortizzabile devono essere ricompresi. Del resto, a conferma della ammortizzabilità dei cespiti suddetti, il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 7, con la disposizione chiaramente innovativa, e con decorrenza dal periodo di imposta successivo a quello in esame (2006), ha stabilito che sono deducibili le quote di ammortamento relative ai fabbricati strumentali, ma al “netto” del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Il giudice d’appello, da un lato, ha ritenuto che il D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 7, fosse norma innovativa, quindi non applicabile per il pregresso, ma, dall’altro, ha affermato che, anche prima dell’entrata in vigore di tale norma nuova, le pertinenze immobiliari non erano ammortizzabili. In realtà, prima dell’innovazione legislativa si riteneva che le pertinenze (nella specie terreni costituenti pertinenze di capannoni industriali) non avevano una propria autonoma disciplina, ma seguivano il regime dei beni principali, con la conseguenza che ad esse si applicava lo stesso trattamento giuridico previsto per i beni principali dalle disposizioni che regolano la determinazione del reddito di impresa, ivi inclusi gli ammortamenti. Peraltro, la nuova norma non ha natura interpretativa, in assenza di un contrasto interpretativo manifestatosi a livello di orientamenti giurisprudenziali. Inoltre, la fonte della (pretesa) norma interpretativa, e quindi retroattiva, è il decreto-legge, che è diverso dall’atto legislativo indicato dallo statuto (legge ordinaria), ma funzionale ad esigenze sicuramente diverse da quelle della legge di interpretazione autentica. La norma in esame ha, allora, carattere innovativo e quindi contribuisce a valorizzare, per il passato, la soluzione della possibilità di ammortamento per i terreni pertinenziale a stabilimenti industriali.

6.1. Il motivo infondato, pur dovendosi correggere la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

6.2. Deve premettersi che l’ammortamento è il processo tecnico contabile attraverso il quale si ripartisce nei vari esercizi l’onere del deperimento e del consumo relativo alla utilizzazione di beni strumentali, a “fecondità ripetuta” (che non esauriscono la loro utilità in un solo esercizio e quindi partecipano al processo produttivo aziendale in più esercizi), i cui costi vengono ripartiti in quote pluriennali. questa Corte, con riferimento al reddito di impresa e con riguardo ai presupposti per l’ammortamento, ha ritenuto che esso può effettuarsi con beni suscettibili di deperimento e consumo dopo un certo numero di anni, sì da essere sostituiti quando non risultino più funzionali allo scopo per il quale sono stati acquistati (Cass., sez. 5, 24 maggio 2013, n. 12924). Infatti, dal reddito di impresa sono deducibili le quote di ammortamento dei beni utilizzati per un limitato periodo di tempo, perché soggetti a logorio fisico o economico, tant’e’ che la disciplina fiscale, dei diversi coefficienti di ammortamento tiene espressamente conto dell’effettivo tasso di usura al quale sono soggetti i beni strumentali in relazione all’impiego cui essi vengono singolarmente destinati (Cass., n. 22021 del 2006; Cass., n. 1404 del 2013).

6.3. Tali coefficienti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, sono stabiliti per classi omogenee di beni, in base al normale periodo di deperimento e consumo nei vari settori produttivi. Pertanto, le quote annue di ammortamento calcolate in base ad essi risultano più alte, se il bene (come un apparecchio meccanico) ha un tasso di deperimento più rapido rispetto ad altri (come i beni immobili).

6.4. Nel corso degli anni la giurisprudenza di questa Corte si è sviluppata nel senso di considerare con maggiore attenzione la possibilità di ammortamento dei beni, estendendone l’orizzonte.

6.5. La prima pronuncia sul tema attiene all’ammortamento degli impianti di aria condizionata. Si è ritenuto che la più intensa utilizzazione delle strutture aziendali, certamente conseguente ai doppi turni di lavorazione, non e’, di per sé, idonea a giustificare le maggiori quote dell’ammortamento “accelerato”, in difetto di prova, gravante sul contribuente, a mezzo di idonea documentazione, che l’intensità di utilizzazione dei beni è superiore “a quella normale del settore”, secondo la prescrizione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 3, (Cass., sez. 5, 13 ottobre 2006, n. 22034).

Pertanto, è ben possibile per il contribuente fornire la prova della più intensa utilizzazione delle strutture aziendali, in modo da applicare un coefficiente di ammortamento più elevato. In genere, infatti, le quote annue di ammortamento calcolate in base ai coefficienti risultano più alte, se il bene (come un apparecchio meccanico) ha un tasso di deperimento più rapido rispetto ad altri (come i beni immobili). Se l’Ufficio ritiene applicabile un coefficiente più basso per l’immobile, cui inerisce l’impianto di condizionamento, grava sul contribuente l’onere di provare la maggiore intensità di utilizzo del bene e, quindi, la maggiore deteriorabilità nel tempo.

6.6. Successivamente questa Corte si è pronunciata sulle costruzioni inerenti gli impianti di distribuzione di carburante, e si è ritenuto che, ai sensi del D.M. 21 dicembre 1998, emesso in base al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, (ora D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102), le costruzioni esistenti negli impianti stradali di distribuzione dei carburanti non sono riconducibili alla categoria “Oleodotti-Serbatoi-Impianti stradali di distribuzione”, per la quale la tabella dedicata al “Gruppo IX-Industrie Manifatturiere Chimiche – Specie 2 – raffinerie di petrolio, produzione e distribuzione di benzina e petroli per usi vai, di oli lubrificanti e residuati, produzione e distribuzione di gas di petrolio liquefatto” prevede un coefficiente di ammortamento del 12,5%, ma a quella “Fabbricati destinati all’industria”, per cui la medesima tabella prevede un coefficiente del 5,5 % (Cass., sez. 5, 11 aprile 2008, n. 9497; poi anche Cass., sez. 5, 24 maggio 2013, n. 12924). La medesima decisione (Cass., 9497/2008) ha affermato la impossibilità di ammortamento per i terreni, ma poi è stata superata dalla pronuncia a sezioni unite di questa Corte (Cass., sez. un., 26 aprile 2017, n. 10225).

7. V’e’ stata poi la decisione a sezioni unite di questa Corte (sent. n. 10225 del 2017), sopra citata (seguita da Cass., sez. 5, 25 novembre 2020, n. 26805 e Cass., sez. 5, 20 novembre 2020, n. 26492, che hanno condiviso il giudizio del giudice di merito per cui la “indivisibilità” tra opere murarie e impianto di smaltimento rifiuti, sotto il profilo del medesimo grado di deperibilità della “vita utile” di entrambe le categorie di bene nel corso degli anni, conducevano ad individuare la medesima aliquota di ammortamento del 10%, sia per i macchinari sia per gli edifici), che ha chiarito i termini della questione, soprattutto in relazione all’ammortamento dei terreni su cui insiste un impianto di distribuzione di carburante. Si è ritenuto che, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Pertanto, ai fini dell’ammortamento di un bene rileva la limitazione nel tempo della proficua “utilizzazione” produttiva del bene, non la durata della sua fisica esistenza. Ciò che rileva è l’utilità economica secondo un piano produttivo, cioè la durata della “vita utile” del bene strumentale, che va intesa come periodo di tempo nel quale ci si attende che il bene sia utilizzato produttivamente. Pertanto, l’ammortamento consiste nella ripartizione per competenza (con metodo sistematico e razionale) del costo di acquisizione di beni con riferimento alla loro “vita utile”, negli anni in cui la loro utilità funzionale ed economica si connette al processo produttivo dell’impresa partecipando al risultato dei singoli esercizi, in rapporto al deperimento fisico o tecnologico o economico di essi “in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Il deperimento che va considerato è quello indotto dall’impiego produttivo del bene strumentale di durata pluriennale, quindi dall’utilizzo stimato del potenziale apporto fornito all’attività di impresa. Si e’, quindi, chiarito che il valore da ammortizzare va individuato nella differenza tra il valore dell’immobilizzazione ed il suo presumibile valore residuo al termine del periodo di “vita utile” e corrisponde al valore il cui ammortamento negli esercizi futuri troverà, secondo una ragionevole prognosi, adeguata copertura con i ricavi correlati all’utilizzo del bene.

Alla vita utile del bene fanno riferimento non solo il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102-bis, comma 2 (introdotto dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 325), relativo all’ammortamento dei beni materiali strumentali per l’esercizio di alcune attività regolate, ma anche la L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 239, relativo ai beni costituenti giacimenti, sia pure in zone di mare.

7.1. Per il principio di “derivazione” del bilancio tributario dal bilancio civilistico di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 83, poi, in difetto di specifiche diverse disposizioni, valgono anche per l’ordinamento fiscale le disposizioni civilistiche in tema di redazione del bilancio, compresi i principi contabili nazionali ed internazionali.

7.2. Il paragrafo 58 dello Ias 16 prevede che “i terreni e gli edifici sono beni separabili e sono contabilizzati separatamente, anche quando vengono acquistati congiuntamente”. Si precisa poi che “con qualche eccezione, come cave e siti utilizzati per discariche, i terreni hanno una vita utile illimitata e quindi non vengono ammortizzati”. Gli edifici, invece, “hanno una vita utile limitata e perciò sono attività ammortizza bili”.

Al paragrafo 59 dello Ias 16, poi, si chiarisce che “se il costo del terreno include i costi di smantellamento, rimozione e ripristino, la parte relativa al ripristino del terreno è ammortizzata durante il periodo in cui si ottengono i benefici derivanti dal sostenere i costi.

In alcuni casi, il terreno stesso può avere una vita utile limitata, nel quale caso questo è ammortizzato in modo da riflettere i benefici che ne derivano”.

8. Come correttamente osservato dalla società contribuente nel motivo di ricorso, la possibilità che il terreno abbia una “vita utile” di durata inferiore a quella “materiale” è affermata nei principi contabili, nazionali ed internazionali. In particolare, il principio nazionale OIC 16 relativo alle immobilizzazioni materiali, al paragrafo D.XI, stabilisce che “nel caso in cui il valore dei fabbricati incorpori anche quello dei terreni sui quali essi insistono, il valore dei terreni va scorporato ai fini dell’ammortamento sulla base di stime. In quei casi, invece, in cui il terreno ha un valore in quanto vi insiste un fabbricato, se lo stesso viene meno il costo di bonifica può azzerare quello del terreno, con la conseguenza che anche esso va ammortizzato “.

8.1. Una conferma della possibilità dell’ammortamento del costo dei terreni strumentale all’impresa si rinveniva nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, originario comma 10, poi soppresso per motivi diversi dalla pretesa incompatibilità, il quale stabiliva che “il costo dei fabbricati strumentali non suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni è assunto al netto del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Può tuttavia essere assunto al lordo del costo stesso per i fabbricati costruiti o acquistati prima dell’entrata in vigore del presente decreto”; sicché, in alcuni casi, sarebbe stato possibile ammortizzare il costo del terreno insieme con quello del fabbricato sovrastante (costo al lordo).

Pertanto, è possibile che il terreno strumentale all’esercizio dell’impresa abbia una “vita utile” più limitata rispetto alla sua materiale esistenza, e ciò può in concreto avvenire quando, al termine dell’uso produttivo, il terreno non sia più utilizzabile in modo proficuo in ragione del suo deperimento (economico se non fisico). In tali ipotesi rientrano ovviamente, le aree adibite a cave, torbiere e discariche, come pure i terreni su cui insistono impianti di distribuzione di carburante, ove rileva il costo economico della bonifica.

9. La Corte, poi, a sezioni unite, ha precisato che non rileva l’intervenuto D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 7, secondo cui, ai fini del calcolo delle quote di ammortamento deducibili, il costo dei fabbricati strumentali deve essere assunto al netto del costo delle aree occupate dalla costruzione e di quelle che ne costituiscono pertinenza. Tale disposizione, infatti, non solo non è applicabile, ratione temporis, alla fattispecie, ma deve comunque essere intesa nel senso che il costo dei terreni occupati dal fabbricato (ancorché separatamente individuato) è ammortizzabile, ove ciò sia eccezionalmente consentito dalle norme sopra ricordate. Le medesime considerazioni valgono anche per il D.L. n. 262 del 2006, convertito dalla L. n. 286 del 2006, nel quale si ribadisce, chiarendo alcuni dettagli, l’impostazione del predetto D.L. n. 223 del 2006.

Si è precisato che non è pertinente neppure il principio più recente OIC 16, del 2016, per cui “se il valore dei fabbricati incorpora anche quello dei terreni sui quali insistono, il valore del fabbricato va scorporato, anche in base a stime, per essere ammortizzato”; lo scorporo non esclude l’ammortamento del costo del terreno, ove ne ricorrano le eccezionali condizioni.

9.1. Si è anche affermato che con riferimento alla questione sulla pertinenza del terreno rispetto al fabbricato, ai fini dell’ammortizzabilità del costo del terreno, è irrilevante sia che questo costituisca pertinenza dell’impianto di distribuzione, sia che tale impianto sia considerato incorporato per accessione al suolo su cui sorge. Il terreno può essere ammortizzato soltanto se ha una “vita utile” temporalmente più limitata rispetto alla sua materiale esistenza. Si esclude, allora, che la accessione al suolo dell’impianto o il nesso pertinenziale con il medesimo impianto possano trasformare in limitata, una vita utile del terreno che sia, invece, in concreto e diverse, illimitata. Si precisa che non può essere eseguita l’impostazione espressa nella sentenza di questa Corte (Cass., n. 3516 del 2006), ossia proprio quella citata dalla contribuente FG Investimenti nel motivo di ricorso, per cui, ai fini della tassazione del reddito di impresa, il costo di un terreno costituente pertinenza di un capannone industriale è suscettibile di essere ammortizzato allo stesso modo del costo del capannone. Come evidenziato, infatti, per l’ammortizzabilità occorre avere riguardo alla concreta “vita utile” del terreno in sé, senza automatismi interpretativi sostanzialmente ed arbitrariamente abrogativi dell’art. 2426 c.c..

L’art. 2426 c.c., comma 1, n. 2, stabilisce che “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. In generale, dunque, i terreni strumentali hanno un “vita utile” illimitata e come tali non sono suscettibili di ammortamento, ma vi sono ipotesi specifiche ed eccezionali in cui anche terreni hanno un “vita utile” temporalmente più limitata rispetto alla loro materiale esistenza.

10.Nella specie il motivo di ricorso non indica in alcun modo quale sia lo stato del terreno su cui insiste l’immobile, ma si limita a fare riferimento alla porzione di terreno per cui v’e’ controversia, unicamente con un laconico “aree e parcheggi”, sicché non sono neppure allegate quelle condizioni eccezionali e speciali in cui anche i terreni possono essere oggetto di ammortamento, per possibile perdita di “vita utile”, come affermato dalle sezioni unite di questa Corte.

11. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della società e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la società a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 8.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 1, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2022

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