Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7380 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 02/02/2010, dep. 26/03/2010), n.7380

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 32297-2006 proposto da:

G.M., titolare dell’omonima ditta individuale,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA MERCEDE 52, presso lo

studio dell’avvocato MENGHINI MARIO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CARAPELLE ROBERTO, giusta mandato a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIRISCOSSIONI S.P.A.;

– intimata –

e contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore avv.to S.

G.P., in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. –

Società di Cartolarizzazione dei Crediti INPS, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati COSSO

BENEDETTA, CORRERA FABRIZIO, CORETTI ANTONIETTA, giusta mandato in

calce alla copia notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 1184/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 24/07/2006 R.G.N. 685/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/02/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO CURZIO;

udito l’Avvocato MENGHINI MARIO;

udito l’Avvocato SGROI ANTONINO per delega CORETTI ANTONIETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

G.M. chiede l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Torino, pubblicata il 24 luglio 2006, che ha rigettato l’appello contro la decisione con la quale il Tribunale di Torino aveva respinto la sua opposizione a cartella esattoriale dell’importo di 19.873,15, per omissioni contributive e sanzioni relative al periodo maggio 1996 – dicembre 2000.

Il ricorso è articolato in tre motivi.

L’INPS, anche quale mandatario di S.C.C.I. spa, ha depositato delega Uniriscossioni spa non ha svolto alcuna attività difensiva.

Il ricorrente ha depositato una memoria per l’udienza.

1) Con il primo motivo si denunzia violazione dell’art. 2115 c.c. e art. 1966 c.c., comma 2, in combinato disposto con l’art. 1988 c.c..

Con il relativo quesito si chiede di stabilire “se tali norme siano preclusive di ogni disponibilità del diritto contributivo, sia in senso affermativo che negativo della sussistenza dell’obbligo di versamento salva espressa disposizione di legge autorizzativa del riconoscimento”.

Il motivo è infondato.

I contributi omessi riguardano vari lavoratori per vari periodi. In sentenza si da atto che il G. ha riconosciuto il debito contributivo, in quanto 1) in sede di audizione personale ha contestato solo le ore lavorate da un dipendente e lo straordinario di un altro dipendente; 2) ha presentato istanza di dilazione di pagamento. I giudici di merito hanno concordemente ritenuto, anche considerando il contenuto della dichiarazione sottoscritta per chiedere la dilazione, che egli abbia riconosciuto il debito.

La tesi sostenuta dal ricorrente è che egli non poteva disporre del suo debito, riconoscendo di esservi tenuto, e ciò in forza dell’art. 2115 c.c., comma 3.

E’ una tesi non condivisibile. L’art. 2115 c.c., sancisce la “nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere obblighi relativi alla previdenza o all’assistenza”. E’ evidente che i piani sono diversi e che la previsione di nullità di accordi tra le parti finalizzati ad eludere gli obblighi contributivi, non può essere utilizzata per affermare che il datore di lavoro non possa ammettere di essere debitore sul piano contributivo.

2) Il secondo motivo denunzia violazioni di legge e vizi di motivazione per il fatto che la Corte avrebbe deciso facendo prevalere il contenuto delle dichiarazioni rese in sede ispettiva rispetto alle testimonianze poi rese in un giudizio diverso promosso da un lavoratore ( P.) nei confronti del G. e avrebbe omesso un analitico confronto delle deposizioni rese dai testi violando l’obbligo di valutare le prove secondo il prudente apprezzamento.

Trattasi di valutazioni di merito che il giudice ha l’obbligo di motivare. Ma se, come nel caso in esame, la motivazione sussiste, è priva di contraddizioni ed è sufficiente (in questo caso essa è più che sufficiente, essendo articolata e completa), in sede di giudizio di legittimità non si può procedere ad una terza valutazione del merito.

3) L’ultimo motivo concerne l’obbligo di contribuzione per le prestazioni rese da un lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno: A.S..

Il ricorrente sostiene che il combinato disposto dell’art. 2126 c.c., del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22 e della L. n. 689 del 1981, art. 1 deve “essere interpretato come preclusivo della possibilità per l’INPS di recuperare in via coattiva la contribuzione … dal datore di lavoro che abbia occupato lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno”.

La tesi è basata su due argomenti.

In primo luogo, il ricorrente sostiene che poichè, assumendo un lavoratore extracomunitario, ha commesso un reato e gli è stata applicata la relativa sanzione penale (ammenda di L. 1.000.000 con decreto penale di condanna), ciò comporterebbe che non può essere sottoposto ad altre sanzioni.

In secondo luogo, il G. sostiene che la medesima norma, vietando la conclusione di contratti di lavoro con extracomunitari, vieta la relativa regolarizzazione contributiva.

La tesi è del tutto priva di fondamento.

Il datore di lavoro ha l’obbligo di versare i contributi all’INPS in relazione alle retribuzioni dovute (in base alla contrattazione collettiva) al lavoratore (cfr. L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, e della L. 7 dicembre 1989, n. 389, art. 1).

L’obbligo contributivo è una conseguenza automatica dell’obbligo retributivo. Per stabilire se sussiste l’obbligo contributivo bisogna pertanto verificare se il datore di lavoro dell’extracomunitario senza permesso di soggiorno abbia l’obbligo di corrispondergli la retribuzione per il lavoro svolto.

Il contratto di lavoro stipulato con il lavoratore extracomunitario privo del permesso di soggiorno è un contratto in violazione di legge. L’occupazione di lavoratori privi del permesso di soggiorno (o con permesso di soggiorno scaduto, revocato o annullato) costituisce reato (del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 22, comma 12, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Ed, infatti, nel caso in esame, nei confronti del G. è stato emesso un decreto penale di condanna alla pena di L. un milione di ammenda.

L’illegittimità del contratto è quindi fuori discussione. Essa, però, in base a quanto stabilito dal codice civile, non comporta ineluttabilmente il venir meno del diritto del lavoratore alla retribuzione per il lavoro eseguito.

La materia è regolata dall’art. 2126 c.c., che così dispone: “La nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa (comma 1).

Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla retribuzione (comma 2)”.

Il lavoratore extracomunitario assunto con un contratto di lavoro in violazione dell’art. 22, cit. testo unico sull’immigrazione rientra nella fattispecie dell’art. 2126 c.c..

Rientra nella previsione del comma 1, perchè l’illegittimità del contratto deriva dalla mancanza del permesso di soggiorno e non attiene nè alla causa (funzione economico sociale del contratto di lavoro), nè all’oggetto del contratto, costituito dalla prestazione di lavoro erogata, sempre che la stessa sia una prestazione di lavoro lecita, cosa che nel caso in esame nessuno discute (in senso conforme, sebbene con riferimento al quadro normativo anteriore al t.u. del 1998, cfr. Cass., Sez. 50, 13 ottobre 1998, n. 10128).

Ma la fattispecie in esame rientra anche, e soprattutto, nella previsione del secondo comma della norma codicistica. Infatti, dalla lettura della norma violata (art. 22, cit. T.U.) si evince che tra le sue finalità vi è anche quella di garantire al lavoratore straniero condizioni di vita e di lavoro adeguate. Funzionali a questo fine sono le disposizioni che impongono al datore di lavoro di esibire “idonea documentazione indicante le modalità di sistemazione alloggiativa per il lavoratore” (comma 2) e subordinano il rilascio al datore di lavoro del nulla osta per l’assunzione “al rispetto delle prescrizioni del contratto collettivo di lavoro” (comma 5).

Se, quindi, la disciplina del permesso di soggiorno ha (anche) la finalità di tutelare il lavoratore straniero, la sua violazione è “violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro” (dell’art. 2126 cod. civ., comma 2) e quindi, ai sensi dell’art. 2126 c.c., qualora il contratto venga dichiarato nullo, il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione per il lavoro eseguito.

Questo esito interpretativo risulta coerente con la razionalità complessiva del sistema, laddove si consideri che, se si permettesse al datore di lavoro che ha occupato lavoratori extracomunitari in violazione di legge di essere esentato dagli oneri retributivi e contributivi, si altererebbero le regole basilari del mercato e della concorrenza, consentendo a chi viola la legge sull’immigrazione di fruire di condizioni incisivamente più vantaggiose rispetto a quelle cui è soggetto il datore di lavoro che rispetta la legge.

Quanto, infine, alla obiezione del ricorrente sulla duplicità delle sanzioni cui risulterebbe sottoposto, qualora, oltre alla sanzione penale, gli venisse inflitta anche la sanzione del pagamento coattivo dei contributi omessi, appare evidente che, a parte la considerazione generale per cui la previsione di una sanzione penale non assorbe eventuali sanzioni civili, deve, più radicalmente, sottolinearsi che il pagamento dei contributi non può essere definito una sanzione, ma è semplicemente uno degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro.

Pertanto, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione all’INPS delle spese del giudizio di legittimità. Nulla sulle spese della controparte che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese in favore dell’INPS, liquidandole in 10,00 Euro, nonchè 2.500,00 Euro per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali. Nulla per le spese nei confronti di Uniriscossioni spa.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

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