Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7360 del 16/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 16/03/2021, (ud. 03/12/2020, dep. 16/03/2021), n.7360

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9349/2017 proposto da:

D.S.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato RAFFAELE FERRARA;

– ricorrente –

contro

GUESS ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DL POPOLO 18,

presso lo studio dell’avvocato AMALIA RIZZO, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati ELISA NERI, DANIELA POGGI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 946/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 06/02/2017 R.G.N. 2153/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza resa pubblica il 6/2/2017, in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, rigettava la domanda proposta da D.S.M. nei confronti della Guess Italia s.r.l. volta a conseguire pronuncia di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatole in data 3/4/2014, per la chiusura dell’unità locale ove la ricorrente era impiegata con inquadramento nel II livello c.c.n.l. commercio e terziario, espletando mansioni di store manager.

Nel pervenire a tali conclusioni la Corte distrettuale muoveva, in estrema sintesi, dal richiamo ai principi affermati da questa Corte in tema di repechage, alla cui stregua in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova della impossibilità del repechage del dipendente licenziato in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione fra i suddetti oneri.

Osservava, tuttavia, il giudice del gravame, che detto principio andava coordinato con quello dell’interesse ad agire del ricorrente, avuto riguardo alle condizioni alle quali sarebbe stato disposto a rimanere inserito nel contesto organizzativo della parte datoriale.

Nello specifico era emerso che la ricorrente aveva chiaramente espresso il proprio interesse ad impugnare il recesso datoriale nella dedotta possibilità di essere ancora utilizzata in una delle sedi della Campania o del basso Lazio; tale possibilità era, peraltro, rimasta esclusa alla stregua della produzione documentale versata in atti dalla parte datoriale.

Questa aveva infatti adeguatamente assolto l’onere assertivo e probatorio sulla stessa gravante, inerente alla impossibilità di continuare ad utilizzare a tempo indeterminato le energie lavorative della reclamata presso una degli esercizi indicati da quest’ultima in Campania, avendo dimostrato altresì di non possedere alcun punto vendita nell’area del basso Lazio.

Avverso tale decisione D.S.M. interpone ricorso per cassazione affidato ad unico motivo al quale oppone difese la società intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 3 e 5 e dell’art. 2697 c.c..

Si addebita ai giudici del gravame di avere solo formalmente asserito di condividere i principi enunciati dalla Corte di legittimità in tema di allegazione e prova della impossibilità di repèchage del dipendente licenziato, concludendo con l’affermazione di un obbligo di collaborazione da parte del lavoratore nell’accertamento di un possibile repechage al fine di esplicitare adeguatamente i termini entro i quali la sentenza non sarebbe inutiliter data. Nell’ottica descritta si prospetta come del tutto insostenibile la tesi fatta propria dalla Corte di merito, di una rinuncia implicita della lavoratrice a qualsiasi altra ricollocazione nel complessivo contesto aziendale, per avere a tal fine indicato solo alcune aree geografiche, in quanto l’indicazione di alcuni dei luoghi di possibile ricollocazione non esaurisce l’onere di allegazione e di prova a carico del datore di lavoro.

2. Il motivo non è fondato per le ragioni di seguito esposte.

La sentenza impugnata non è, infatti, nei suoi esiti applicativi, in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale di legittimità al quale questa Corte ha dato continuità, al fine di consolidarlo, secondo cui in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili, non essendo configurabile sotto il profilo processuale, una divaricazione tra i suddetti oneri (vedi Cass. 22/3/2016 n. 5592, Cass. 13/6/2016 n. 12101, Cass. 5/1/2017 n. 160).

Ed invero, il giudice del gravame nel proprio iter argomentativo, ha innanzitutto vagliato l’incontestata sussistenza di un calo di fatturato e della effettività del processo di contrazione della produzione comprovato dalla chiusura del punto vendita in Napoli cui la ricorrente era addetta quale Responsabile inquadrata nel II livello c.c.n.l. di settore, secondo un approccio che si palesa in sintonia con la costarte giurisprudenza di questa Corte, la quale non ha mai smesso di insegnare che “al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore” restando “saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso” affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito (vedi Cass. 15/2/2017, n. 4015, Cass. 3/5/2017 n. 10699); quindi, ha proceduto ad una accurata interpretazione della domanda attorea.

All’esito di tale procedimento ermeneutico, fondato sullo specifico profilo allegatorio che ha connotato il ricorso introduttivo del giudizio, è quindi pervenuto alla conclusione che l’interesse sotteso alla impugnazione del recesso risiedeva “nella dedotta possibilità di essere ancora utilizzata in una delle sedi lavorative della Campania o al più del basso Lazio”.

Il giudice del gravame ha, dunque, argomentato come la condizione dell’interesse ad agire che qualificava la domanda attorea fosse correlata alla riassunzione in una definita area geografica, la asserita illegittimità del licenziamento traendo fondamento dalla mancata ricollocazione presso i punti vendita in tale area inscritti.

3. Al riguardo, è bene rammentare che secondo l’insegnamento di questa Corte, la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda, è attività riservata al Giudice di merito ed è insindacabile se non nei ridotti limiti in cui:

a) l’errore ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del Giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;

b) l’errore si traduca in un vizio del ragionamento logico decisorio, ma anche in tal caso, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “oetitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere dedotto come vizio di nullità processuale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;

c) ove poi l’errore coinvolga la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, allora in tal caso, la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o al vizio di “error fatti”, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 (in termini vedi ex aliis, Cass. 10/6/2020 n. 11103, cui adde Cass. 24/7/2012 n. 12944 secondo cui anche nel processo del lavoro, l’interpretazione della domanda rientra nella valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità ove motivata in modo sufficiente e non contraddittorio).

4. Nello specifico, tuttavia, la statuizione non risulta validamente censurata sotto alcuno dei profili enunciati, essendosi la ricorrente limitata a dedurre genericamente la violazione dei principi di diritto enunciati in sede di legittimità in tema di ripartizione dell’onus probandi nella materia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e del cd. repechage, ossia della possibilità di utile ricollocazione del lavoratore nell’ambito della struttura organizzativa aziendale, ritenendo del tutto insostenibile la tesi di una rinuncia implicita da parte della lavoratrice a qualsiasi diversa collocazione.

Non ha proceduto, parte ricorrente, ad una analitica critica che investisse il profilo interpretativo della domanda, nè la sua individuazione nei suoi elementi costitutivi, che fosse idonea a smentire l’assunto posto a fondamento della pronuncia impugnata con il quale è stata perimetrata la condizione sottesa alla azione proposta, entro l’ambito geografico esplicitamente definito dalla lavoratrice.

La questione che si pone nel caso in esame attiene, infatti, al significato da attribuire alle espressioni utilizzate nel contenuto della domanda introduttiva, venendo in rilievo pertanto l’interpretazione della domanda che è operazione riservata al giudice del merito, il cui risultato è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (vedi ex aliis, Cass. Sez. L, Sentenza 5/2/2004 n. 2148), e dunque risulti “travisato” il contenuto della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio.

In tal senso, pertanto, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale si sottraggono alle critiche formulate.

5. Le ricordate conclusioni risultano, peraltro, congrue e conformi a diritto perchè si collocano nell’alveo del condiviso orientamento di legittimità, anche di recente consolidatosi, secondo cui in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano al momento del recesso i posti esistenti in azienda ai fini del “repechage”, ove il lavoratore medesimo, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell’impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica ben può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repèchage (vedi Cass. 23/5/2018 n. 12794, Cass. 22/11/2018 n. 30259, Cass. 20/7/2020 n. 15401).

La fattispecie sottoposta allo scrutinio della Corte di merito è stata, dunque, congruamente definita nei suoi elementi costitutivi, e sottoposta ad un argomentato ragionamento interpretativo che esclude il vizio di violazione di legge denunciato, ossia di erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, così come di falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice perchè la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione (vedi ex plurimis, Cass. 30/4/2018 n. 10320; Cass. 25/9/2019 n. 23851).

Nella descritta prospettiva deve concludersi che l’impianto argomentativo che innerva l’impugnata sentenza non vulneri i consolidati dicta che governano la materia delibata, secondo le linee interpretative innanzi enunciate.

6. Al lume delle sinora esposte considerazioni, il ricorso è respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15%. ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2021

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