Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7349 del 31/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/03/2011, (ud. 22/12/2010, dep. 31/03/2011), n.7349

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12171-2006 proposto da:

T.G., titolare della omonima ditta individuale,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA G. SALVIUCCI 1, presso lo

studio dell’avvocato GENTILE RUGGIERO MARIA, rappresentata e difesa

dall’avvocato CONGIATU PIETRO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE SEDE DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 78/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

SASSARI, depositata il 24/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’inammissibilità o rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del

ricorso principale, inammissibilità controricorso Ministero.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 24/5/2005 la Commissione Tributaria Regionale della Sardegna accoglieva il gravame interposto dall’Ufficio I.V.A. di Sassari nei confronti della declaratoria della Commissione Tributaria Provinciale di Sassari di cessazione della materia del contendere ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 49 con riferimento al giudizio promosso con l’opposizione spiegata dalla sig. T.G. in relazione ad avviso di rettifica emesso a titolo di I.V.A. per l’anno d’imposta 1989, in ragione del disconoscimento di costi (per energia elettrica e telefono) ritenuti non inerenti l’esercizio dell’impresa, e della ravvisata violazione dell’obbligo di registrazione di corrispettivi.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello la T. propone ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo la ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione della L. n. 413 del 1991, artt. 48 e 65 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che il giudice dell’appello abbia “ritenuto ammissibile l’appello avverso la decisione di primo grado … in virtù della pretesa inefficacia della dichiarazione di condono presentata … e della conseguente revoca dell’estinzione richiesta dall’Ufficio”, laddove “la revoca del provvedimento di estinzione dichiarato non poteva invece avere ingresso nell’ipotesi de qua”, giacchè “Una volta definito il giudizio con provvedimento di estinzione – indipendentemente dalla correttezza del provvedimento – susseguente alla presentazione della domanda di condono l’unico caso di revoca era legato alle ipotesi di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 65 non ricorrenti nella vertenza in esame”.

Con il 2^ motivo denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che “come emerge dagli atti”, controparte “in sede di precisazione delle conclusioni” non si è limitata “a rilevare la intervenuta presentazione della domanda di definizione (condono) da parte della contribuente” ma “ha bensì dichiarato di aderirvi …

concludendo per la cessazione della materia del contendere”, sicchè, essendo state accolte le sue conclusioni, difettava di interesse a proporre gravame avverso il provvedimento di cessazione della materia del contendere emesso dal giudice di prime cure.

Con il 3^ motivo denunzia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che erroneamente il giudice dell’appello abbia valutato positivamente l’opposto accertamento basato sulla “determinazione dell’utile lordo applicato alle merci conteggiate al prezzo di vendita – come risulta dall’allegato 5 del processo verbale”, invero “effettuata mediante la media aritmetica semplice delle percentuali di ricarico senza tener conto delle quantità delle singole merci, dando luogo ad un risultato illogico e gravemente errato”.

Con il 4^ motivo denunzia violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53 in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta che erroneamente il giudice dell’appello ha considerato “i depositi e l’esercizio di vendita di (OMISSIS) quali luoghi diversi dal luogo di esercizio dell’attività per il solo motivo della mancata comunicazione preventiva”, laddove “la disposizione, anche prima della modifica legislativa, prevedeva una semplice presunzione di cessione e che la stessa debba cadere in relazione ad altri fatti o documenti acquisiti o acquisibili”.

Si duole non essersi considerato che “nel libro giornale e nel registro IVA” risultavano indicati “sia il pagamento dei canoni dei locali di vendita e di deposito, sia le relative bollette telefoniche e di energia elettrica”.

Con il 5^ motivo denunzia “ius superveniens in materia di sanzioni tributarie introdotto con DD.LL.VI 18.12.1997”.

Si duole che il giudice dell’appello abbia ritenuto “valide” le sanzioni applicate dall’A.F. in sede di rettifica, senza tenere invero conto “del nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. n. 47 e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472”, alla cui stregua “le sanzioni per l’IVA non versata avrebbero dovuto essere applicate nella misura prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 5, comma 4 eventualmente con applicazione delle norme sul concorso previste dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12 comma 1, e dunque nella misura del 100% in luogo del 200% disposto dall’ufficio”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con -fra l’altro- l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999., n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come la medesima faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., all'”avviso di rettifica”, alla “dichiarazione di condono”, all'”appello”, alla pronunzia di 1^ grado, alle “conclusioni del primo grado”, all'”accertamento”, all'”allegato 5 del processo verbale”, alla “documentazione recuperata dalla guardia di Finanza nel suo accesso”, al “processo verbale di constatazione”, al “libro giornale”, al “registro IVA”, ai “canoni di locali di vendita e deposito, alle “bollette telefoniche e di energia elettrica”) di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., l/2/1995, n. 1161).

Quanto al 1^ e al 2^ motivo di ricorso va in ogni caso osservato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, essendo quella svolta dall’A.F. in tema di condono fiscale attività vincolata, diretta alla verifica della sussistenza dei presupposti di operatività rigorosamente stabiliti dalle norme di favore, ove per errore venga in un primo momento comunicata al giudice una risposta positiva al riguardo, non sussiste alcuna preclusione – salvi gli effetti della decadenza e della prescrizione – a che la stessa amministrazione segnali successivamente (con valutazione soggetta, ovviamente, al controllo giurisdizionale) l’esistenza di un elemento ostativo all’operatività del condono, con possibilità di revoca, da parte del giudice, dell’ordinanza di estinzione del giudizio, eventualmente già emessa ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 48 o dell’art. 53 (v. Cass., 11/7/2002, n. 10104).

Orbene, emerge evidente come del suindicato principio il giudice dell’appello abbia nella specie invero fatto puntuale e corretta applicazione.

In ordine al 4^ motivo di ricorso va posto in rilievo che l’affermazione contenuta nell’impugnata sentenza secondo cui, nel sottolinearsi che “a conferma dell’insufficienza del solo dato di fatto” il D.P.R. n. 441 del 1997, art. 1 invero “collega il concetto di disponibilità di sedi secondarie, depositi, dipendenze etc. che, quantomeno ad annotazione in uno dei registri in uso da parte dell’impresa”, si da atto che dell’esistenza tali registri “nella specie non è stata fornita alcuna prova” non risulta dalla ricorrente invero idoneamente censurata.

Relativamente al 5 motivo va osservato che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di sanzioni per violazione delle norme tributarie, qualora le modifiche del sistema sanzionatorio introdotte dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 473 siano entrate in vigore nel corso del giudizio di secondo grado, incombe al contribuente l’onere di chiederne l’applicazione, anche in sede di deposito delle memorie ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32 risultando altrimenti inammissibile nel giudizio di legittimità la censura riflettente la mancata applicazione della nuova disciplina (v. Cass., 12/3/2007, n. 5713).

Orbene, la modificazione del sistema sanzionatorio tributario introdotta con i suindicati D.Lgs. n. 471 del 1997, D.Lgs. n. 472 del 1997 e D.Lgs. n. 473 del 1997 è entrata in vigore il 1 aprile 1998, ed essendo stato nel caso l’appello proposto il 17/9/1998 già nel giudizio di 2^ grado la ricorrente avrebbe invero dovuto chiedere l’applicazione della nuova disciplina, anche in sede di deposito di memorie ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32.

Siffatta richiesta non risulta essere stata in tale sede dalla medesima invero formulata.

Emerge allora evidente, alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto, come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come sì è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., la ricorrente in realtà sollecita, contro ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011

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