Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7348 del 31/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/03/2011, (ud. 22/12/2010, dep. 31/03/2011), n.7348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12130-2006 proposto da:

UNIONE CICLISTICA CASINI in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA COLA DI RIENZO n. 180,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO FIORILLI, rappresentato e difeso

dagli avvocati PISTOLESI FRANCESCO, MICCINESI MARCO, in giusta delega

a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, MINISTERO

DELL’ ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 56/2004 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 28/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2010 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che si riporta al

controricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’inammissibilità

controricorso del Ministero, accoglimento ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 28/2/2005 la Commissione Tributaria Regionale della Toscana respingeva il gravame interposto dalla contribuente A.S. Unione Ciclistica Casini nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Pistoia di rigetto dell’opposizione spiegata in relazione ad avviso di rettifica parziale emesso dall’Ufficio I.V.A. di Pistoia per l’anno d’imposta 1994, sulla base del p.v.c. della G.d.F. del 22 dicembre 1999, con recupero d’imposta su acquisti di materiale ciclistico (ritenuto eccessivo per l’attività di 13 atleti dell’Associazione e pertanto non inerente l’attività stessa) e su “presunte vendite senza fattura di detto materiale, per un totale di L. 247.434.000, comprensivo di interessi e sanzioni”.

Avverso la suindicata sentenza del giudice dell’appello l’A.S. Unione Ciclistica Casini propone ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi.

Resistono con controricorso l’Agenzia delle entrate e il ministero dell’economia e delle finanze.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 56, art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che il giudice dell’appello abbia “apoditticamente” e “pregiudizialmente” accolto “le contestazioni mosse dall’Ufficio nonostante si rivelassero assertive e prive di supporto probatorio”, come dimostrato dalla circostanza che “in sede di accertamento con adesione” vi è stata dall’A.F. “l’abbattimento dell’imponibile accertato tra il 70% e il 90% ai fini delle imposte dirette per gli anni 1994, 1995, 1996, e per l’anno 1996 anche in relazione all’I.V.A.”.

Lamenta che laddove come nella specie disconosca la detrazione dell’I.V.A. sugli acquisti incombe all’A.F. “dare prova della loro non inerenza all’attività o di un’eventuale sovrafatturazione degli acquisti stessi”.

Il motivo è infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di IVA, la possibilità di portare in detrazione, dall’ammontare dell’imposta assolta o dovuta dal contribuente e a lui addebitata a titolo di rivalsa, in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 e dell’art. 17 Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 388, è consentita, per le operazioni passive, soltanto “nella misura in cui i beni e servizi sono impiegati ai fini delle sue operazioni soggette a imposta” (v. Cass., 4/2/2005, n. 2300).

Il requisito dell’inerenza, ai fini della detraibilità dell’imposta, non può pertanto presumersi sulla base della mera qualità (es., di imprenditore) dell’acquirente, essendo onere di chi invoca la detrazione provare che tali operazioni passive sono state effettivamente compiute nell’esercizio e in stretta connessione con le finalità specificamente perseguite (es., imprenditoriali) (cfr.

Cass., 17/2/2010, n. 3706).

Orbene, nell’affermare che a fronte del riscontrato “eccesso di acquisti e cessioni … per i 13 tesserati nell’anno 1994”, e in particolare di attrezzatura “di valore pari a circa 80 milioni per ciascun atleta”, “spettava … a parte contribuente provare l’uso e il consumo di tutti i materiali acquisiti ai fini dell’attività agonistica dei 13 atleti nell’anno 1994, l’onere della prova non potendo essere invertito a carico dell’A.”, del suddetto principio risulta dal giudice dell’appello fatta invero puntuale e corretta applicazione nell’impugnata sentenza, con riferimento al caso di specie concernente associazione sportiva senza fine di lucro.

Con il 2^ motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 10 e “dei principi generali in ordine alla omogenea quantificazione dei rapporti obbligatori tributar in presenza di uno stesso presupposto impositivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta che il giudice dell’appello “non ha preso alcuna posizione in merito alla dedotta efficacia vincolante dell’imponibile definito con adesione ai fini delle imposte dirette per il medesimo anno di imposta”.

Con il 3^ motivo denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 7 e 16 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamenta che il giudice dell’appello ha omesso di “pronunciarsi anche con riferimento alla dedotta illegittimità della quantificazione della sanzione pecuniaria irrogata”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come la medesima faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., al “processo verbale di constatazione elevato in data 17 novembre 1999″, all'”avviso di rettifica parziale n. 814031/99″, al ricorso avanti alla Commissione Provinciale di Pistoia”, alla sentenza della Commissione Provinciale di Pistoia, all'”appello”, all'”accertamento per adesione”, all'”imponibile definito con adesione ai fini delle imposte dirette per il medesimo anno di imposta”, all'”accertamento con adesione … ai fini delle imposte dirette per gli anni 1994, 1995 e 1996 (quest’ultimo anche ai fini dell’IVA)”, di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 172/1995, n. 1161).

Quanto al 3 motivo di ricorso va in ogni caso osservato che, come questa corte ha già avuto modo di affermare, anche in relazione al denunziato vizio integrante error in procedendo ex art. 112 c.p.c. il principio di autosufficienza va invero osservato, dovendo specificamente indicarsi l’atto difensivo o il verbale di udienza nei quali le domande o le eccezioni sono state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primo luogo, la ritualità e la tempestività, e, in secondo luogo, la decisività (v. Cass., 31/1/2006, n. 2138; Cass., 27/1/2006, n. 1732; Cass., 4/4/2005, n. 6972; Cass., 23/1/2004, n. 1170; Cass., 16/4/2003, n. 6055).

E’ infatti al riguardo noto che, pur divenendo nell’ipotesi in cui vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo la Corte di legittimità giudice anche del fatto (processuale) ed abbia quindi il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali, preliminare ad ogni altra questione si prospetta invero quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diviene possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo, sicchè esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (v. Cass., 23/1/2006, n. 1221).

Orbene, la ricorrente, attesa la rilevata violazione del principio di autosufficienza non pone questa Corte nella condizione di compiutamente apprezzare quale fosse l’oggetto della domanda originariamente rivolta al giudice di prime cure, quale sia stata la relativa pronunzia, e quali fossero i limiti (oggetti vi e soggettivi) del gravame avverso la medesima interposto asseritamente non rispettati.

Emerge dunque evidente, alla stregua di quanto tutto sopra rilevato ed esposto, come, lungi dal denunzi are vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come sì è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., essa in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011

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