Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7348 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 13/01/2010, dep. 26/03/2010), n.7348

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

GAIS S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TARANTO 142/C, presso lo

studio dell’avvocato PRUDENTE SIMONA, rappresentata e difesa

dall’avvocato SORBELLO GAETANO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO

BUZZI 172, presso lo studio dell’avvocato GRAPPASONNI ORNELLA,

rappresentata e difesa dall’avvocato GATTO VINCENZO, giusta delega a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 459/2006 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 30/06/2006 R.G.N. 294/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

13/01/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 30 giugno 2006, la Corte d’appello di Messina ha respinto l’appello proposto da GAIS s.r.l. nei confronti di G.C., avverso la sentenza n. 2260/02 del giudice del lavoro del Tribunale della medesima città, di annullamento del licenziamento intimato alla G. dalla datrice di lavoro per preteso esito negativo della prova, con le conseguenze tutte di cui all’art. 18 S.L..

A sostegno delle proprie domande, la G. aveva negato l’esistenza, nel proprio contratto di lavoro, di un valido patto di prova, deducendo di aver lavorato alle dipendenze della società Italjolly come cameriera presso l’Hotel Villa Diodoro di Taormina, di essere stata successivamente assunta con contratto in data 16 ottobre 1996, privo di patto di prova, dalla società Gais – subentrata alla prima nella gestione dell’albergo – in esecuzione di un accordo stipulato con le locali OO.SS. e di essere stata licenziata in data 28 marzo 1997 per mancato superamento del periodo di prova, in relazione ad un patto di prova che la società aveva sostenuto essere stato apposto ad un nuovo contratto di lavoro stipulato in data 10 marzo 2007, quando, terminati i lavori di ristrutturazione dell’albergo, la società aveva programmato l’entrata in servizio del personale assunto, tra cui la ricorrente, per il 17 marzo successivo.

In proposito, la Corte territoriale ha accertato che il primo contratto dell’ottobre 1996 conteneva tutti gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro tra le parti, le cui reciproche prestazioni erano peraltro state nel medesimo contratto differite ad epoca successiva alla ristrutturazione dell’albergo. Il secondo contratto non esprimerebbe pertanto, secondo la Corte d’appello, una volontà novativa rispetto al primo, già completo di tutti gli elementi costitutivi, limitandosi viceversa a dare il previsto seguito attuativo dell’inizio della prestazione, col verificarsi dell’effettivo completamento dei lavori di ristrutturazione; da ciò la Corte territoriale ha tratto la conseguenza che l’introduzione del patto di prova si configurerebbe come atto dismissivo di un diritto della lavoratrice già acquisito e quindi come rinuncia invalida a norma dell’art. 2113 c.c..

Qualificato pertanto il recesso come licenziamento, la Corte d’appello ha confermato l’annullamento dello stesso, perchè privo di giustificazione, con le conseguenze di cui all’art. 18 S.L..

In proposito, la Corte ha altresì escluso di poter detrarre dal danno da risarcire, alla stregua di tale norma di legge, l’ammontare dei ratei di pensione dalla G. percepite a decorrere dal 1^ aprile 1998 nonchè quanto ella avrebbe potuto medio tempore percepire, se avesse accettato l’offerta della società di una occupazione presso un altro albergo, offerta che peraltro la Corte ha accertato fosse stata formulata subordinatamente alla rinuncia della lavoratrice all’impugnazione del licenziamento per cui è causa.

Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione la GAIS s.r.l., affidandolo a quattro motivi.

Resiste alle domande G.C. con rituale controricorso.

Ambedue le parti hanno infine depositato una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Col primo motivo di ricorso, viene denunciata, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè, ex art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di motivazione della sentenza impugnata.

La ricorrente sostiene infatti che la Corte d’appello di Messina avrebbe omesso di statuire in ordine al primo motivo di appello, concernente la deduzione di nullità della sentenza di primo grado, perchè non conterrebbe l’indicazione delle conclusioni delle parti nè una concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa.

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “l’omessa pronuncia su uno dei motivi di appello integra un difetto di attività del giudice di secondo grado costituente error in procedendo e violazione dell’art. 112 c.p.c.?”.

Il motivo (relativo unicamente alla violazione di norme di diritto, in quanto la censura di difetto di motivazione non assume in realtà alcun autonomo rilievo) è inammissibile per la insufficienza del quesito di diritto ad individuare in maniera specifica l’oggetto della censura con lo stesso formulata.

Al ricorso in esame, in quanto proposto avverso una sentenza pubblicata successivamente alla data del 1^ marzo 2006, è infatti applicabile, ai sensi del combinato disposto del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 6 e 27, comma 2, l’art. 366 bis c.p.c., alla stregua del quale, “nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo su deve concludere, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto”.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. 1^, 22 giugno 2007 n. 14682, sez. un. 14 febbraio 2008 n. 3519) una tale enunciazione, da parte del ricorrente (anche incidentale ex art. 371 c.p.c.), del nodo essenziale della questione giuridica di cui egli auspica una certa soluzione persegue la duplice finalità di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata e insieme quella di enucleare – con valenza più ampia e perciò nomofilattica – il corretto principio di diritto al quale ci si deve attenere in simili casi.

In questo senso, il quesito di diritto integra pertanto il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso concreto e l’enunciazione del principio giuridico generale.

Per adempiere alla duplice funzione indicata, il quesito di diritto deve anzitutto essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie in giudizio (Cass. S.U. 5 gennaio 2007 n. 36).

Esso inoltre non può risolversi nella mera generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunciata, del tipo “dica la Corte con la sentenza impugnata se vi è stata violazione della norma” (Cass. sez. 1^, 25 settembre 2007 n. 19892).

In definitiva, secondo Cass. S.U. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658, indicativamente “potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata”, le ragioni della cui erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo.

Orbene, applicando le regole sopra enunciate al caso di specie, si rileva che il quesito di diritto non contiene l’indicazione del motivo di appello sul quale la Corte territoriale avrebbe omesso ogni pronuncia (esplicitato unicamente nel corpo del motivo), con gli elementi che ne determinerebbero la rilevanza in giudizio, difettando pertanto della specificità necessaria per valutarne la pertinenza nel caso in esame.

2 – Col secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1230, 2096, 2113 cod. civ., L. n. 604 del 1966, art. 10, L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè il vizio di motivazione.

In proposito, sostiene che quello che rileva nella causa non è se il contratto del 1997 abbia natura novativa rispetto al precedente, quanto piuttosto se il patto di prova è stato legittimamente stipulato, in quanto contenuto in un atto scritto anteriore o coevo rispetto all’inizio del rapporto di lavoro, accertamento che la Corte territoriale avrebbe viceversa del tutto omesso.

Del resto, se la Corte avesse preso in considerazione il momento dell’assunzione sarebbe pervenuta al convincimento che il vero contratto di assunzione era il secondo.

Conseguentemente la Corte avrebbe errato nel ritenere nulla la clausola relativa al patto di prova, con le conseguenze che ne aveva tratte. La società ricorrente cita altresì Cass. 18 novembre 1995 n. 11934, la quale ha affermato che in caso di recesso del datore prima del compimento del periodo di prova, il rapporto non diventa definitivo ma la conseguenza è unicamente il diritto del lavoratore a terminare la prova.

11 motivo conclude col seguente quesito di diritto: “a) Ai sensi dell’art. 2097 c.c., il patto di prova può essere introdotto dopo la stipulazione del contratto di lavoro purchè ciò avvenga prima dell’inizio della prestazione lavorativa? b) Nell’ipotesi di declaratoria d’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro prima del compimento del periodo di prova, trova applicazione la disciplina dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, e/o dalla L. n. 604 del 1966?”.

Il secondo quesito di diritto non appare pertinente rispetto alla materia del contendere.

Ed invero, questa non riguarda l’argomento della anticipata risoluzione del rapporto di lavoro rispetto al pieno compimento del periodo di prova, quanto piuttosto la legittimità del recesso giustificato col mancato superamento della prova, pur in assenza di valida stipulazione del relativo patto.

Quanto al primo quesito, che circoscrive l’ambito delle censure svolte col motivo in esame, la risposta ad esso non può che essere negativa.

Nel caso in esame, infatti, la Corte territoriale, valutando il materiale probatorio acquisito, ha accertato l’avvenuta stipulazione il 16 ottobre 1996 di un vero e proprio contratto definitivo di lavoro tra le parti, di cui erano state unicamente differite le prestazioni ad una data pur approssimativamente indicata nel medesimo contratto (“entro il mese di marzo 1997”, secondo la sentenza impugnata) e quindi confermata e ulteriormente specificata nel 17 marzo 1997 con comunicazione del datore di lavoro del 10 marzo precedente.

I giudici di merito hanno inoltre escluso la natura novativa dell’accordo successivo del 10 marzo 1997, correttamente concludendo che, in siffatto contesto, il patto di prova ivi inserito “si configura come atto dismissivo di un diritto già acquisito” dalla dipendente, come tale “invalida rinuncia ex art. 2113 c.c., della lavoratrice alla continuità e stabilità del rapporto”.

Come già nel giudizio di appello, la società ricorrente contesta peraltro la valutazione dei giudici di merito relativamente alla natura non novativa dell’atto del 10 marzo 1997, qualificando questo come il vero, definitivo contratto di lavoro tra le parti, in quanto ne conterrebbe tutti gli elementi costitutivi.

In proposito, la Corte territoriale, evidenziando come tutti gli elementi costitutivi fossero già presenti nel contratto di lavoro dell’ottobre 1996, nel quale era assente il patto di prova, ha disatteso l’assunto della difesa dell’appellante, con una valutazione di fatto che, come tale, non appare censurabile in questa sede di legittimità se non per carenze o contraddizioni nella relativa motivazione, che la ricorrente enuncia nella rubrica del motivo, ma non sviluppa specificatamente nel corpo dello stesso, sostanzialmente contrapponendo alle valutazioni adeguatamente motivate dei giudici proprie opposte valutazioni, su queste sostanzialmente chiedendo a questa Corte un ulteriore giudizio di fatto, estraneo al contenuto del controllo di legittimità affidatole nell’Ordinamento processuale (cfr., ad es. Cass. 18 aprile 2008 n. 10203 e 2 novembre 2007 n. 23484).

3 – Col terzo motivo di ricorso, la società denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. e L. n. 300 del 1970, art. 18, nonchè il vizio di motivazione della sentenza, laddove questa ha escluso la possibilità di dedurre dal danno da risarcire i ratei di pensione medio tempore percepiti dalla originaria ricorrente.

Quesito di diritto: “le somme percepite a titolo di pensione sono detraibili, quale aliunde perceptum, dall’ammontare del risarcimento dovuto al lavoratore L. n. 300 del 1970, ex art. 18?”.

Anche il motivo in esame attiene unicamente alla violazione di legge, quale circoscritta dal quesito di diritto, in questa risolvendosi anche la censura che investe la motivazione della sentenza.

Anche a questo quesito va risposto in termini negativi, che:

“Le somme percepite a titolo di pensione non sono detraibili dall’ammontare del risarcimento danni dovuto al lavoratore ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, come modificato dalla L. 11 maggio 1990, n. 108, art. 1”.

Tali erogazioni hanno infatti titolo completamente autonomo e incompatibile rispetto alla persistenza, senza soluzione di continuità, del rapporto di lavoro, quale retroattivamente assicurata dall’annui lamento del licenziamento in regime di stabilità reale di tale rapporto (sull’argomento, cfr., ad es. Cass. 14 giugno 2007 n. 13871 e 11 giugno 2004 n. 11134).

4 – Infine, con l’ultimo motivo di ricorso, la sentenza della Corte d’appello di Messina viene censurata per la violazione o falsa applicazione degli art. 115 c.p.c., art. 1227 cod. civ. e art. 18 S.L. nonchè per il vizio di motivazione.

Nel rigettare l’ulteriore eccezione relativa al cd. aliunde percipiendum formulata dalla società in relazione alla offerta fatta alla lavoratrice di una occupazione presso un diverso albergo, la Corte territoriale avrebbe posto alla base del proprio convincimento le dichiarazioni del teste B., il quale peraltro, secondo la ricorrente, che ne riproduce parzialmente il testo, non avrebbe affatto affermato che l’offerta era condizionata alla rinuncia all’azione da parte della lavoratrice.

Da tale testimonianza come da quella del teste D.L. emergerebbe viceversa che la G. ha rifiutato la nuova occupazione al solo fine di impugnare il licenziamento intimatole e quindi per un intento puramente speculativo.

Quesiti: “a) l’omesso esame delle dichiarazioni testimoniali costituisce violazione dell’art. 115 c.p.c.? b) Le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire dallo stesso datore di lavoro che lo ha licenziato quale corrispettivo di un’occupazione caratterizzata da condizioni economiche e materiali peggiorative rispetto a quelle proprie del rapporto illegittimamente sciolto costituiscono aliunde percipiendum, utilizzabile per ridurre l’ammontare del risarcimento del danno dovuto oltre la misura minima delle cinque mensilità?”.

Il motivo in esame investe in realtà unicamente la motivazione della sentenza, laddove questa, sulla scorta del materiale probatorio acquisito, ha ritenuto giustificato il rifiuto da parte della lavoratrice dell’offerta alternativa di lavoro, in quanto subordinata alla rinuncia ai diritti azionati nel presente giudizio e quindi ha dichiarato non detraibile dal danno da risarcire alla stessa ex art. 18 S.L., ciò che avrebbe potuto percepire medio tempore accettando tale offerta.

Rispetto alla relativa materia del contendere, il quesito o meglio il punto di sintesi nella illustrazione del vizio di motivazione esposto nella superiore lett. b) contiene anche elementi eccedenti, laddove prospetta una occupazione caratterizzata da condizioni economiche e materiali peggiorative rispetto a quelle proprie del rapporto illegittimamente risolto, prospettazione non sviluppata nel corpo del motivo.

Nei limiti in cui conseguentemente rileva, il motivo è inammissibile per difetto del requisito della autosufficienza del ricorso per cassazione (su cui cfr., per tutte, recentemente, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09), avendo la difesa della società ritenuto di contrastare le valutazioni della Corte territoriale, fondate soprattutto sulle dichiarazioni testimoniali del teste B., unicamente con una parziale riproduzione di tali dichiarazioni, di per sè sole non univoche e col richiamo alle dichiarazioni di un altro teste ( D.L.), delle quali resta ignoto lo specifico contenuto.

Concludendo, sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con la conseguente condanna della società ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 20,00 per spese ed Euro 2.500,00, oltre accessori, per onorari.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

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