Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7344 del 31/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/03/2011, (ud. 22/12/2010, dep. 31/03/2011), n.7344

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9768-2006 proposto da:

VILLA TRENKER DI CAV. PATRIZIO PODINI & C. SAS IN LIQUIDAZIONE,

in

persona del legale rappresentante liquidatore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio

dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato LUCCHESE TIZIANO, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI BOLZANO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 31/2004 della COMM. TRIBUTARIA 2^ GRADO di

BOLZANO, depositata il 25/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2010 dal Consigliere Dott. VINCENZO DIDOMENICO;

udito per il ricorrente l’Avvocato LUCCHESE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’inammissibilità e comunque rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per l’inammissibilità

controricorso Ministero, rigetto ricorso principale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società Villa Trenker di Cav. Patrizio Podini & C. s.a.s. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano dep. il 25/02/2005 che aveva, respingendo l’appello della contribuente e accogliendo l’appello incidentale dell’Ufficio, riformato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Bolzano che aveva accolto solo parzialmente, in relazione alle sanzioni, il ricorso della stessa avverso l’avviso di rettifica con cui era stato escluso il diritto al rimborso del credito Iva per l’anno 1997; la CTR, in particolare, riteneva, in ordine all’appello del contribuente, che la società posta in liquidazione nell’esercizio in questione, non avesse svolto attività imprenditoriale e, pertanto, l’iva sugli acquisti per l’attività di ristrutturazione della Villa Trenker, particolarmente costosa,non poteva essere portata a credito; trattavasi di immobile in godimento alla società che, poi, era stato assegnato ai soci in proporzione alle quote di partecipazione alla società in ordine all’appello incidentale dell’Ufficio, riteneva che non ricorressero le condizioni di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8 per dichiarare inapplicabili le sanzioni. La ricorrente fonda il ricorso su quattro motivi fondati su violazione e falsa applicazione di legge.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso. La causa è stata rimessa alla decisione in pubblica udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve essere rilevata la inammissibilità del ricorso proposto contro il Ministero, che non era parte nel giudizio di appello e dal quale doveva intendersi tacitamente estromesso perchè iniziato dopo il 01/01/2001, e, pertanto, dopo l’entrata in funzione delle Agenzie delle Entrate (Cass. SS.UU. 3116/2006, 3118/2006). Le relative spese possono giustamente essere compensate, essendo l’intervento chiarificatore delle SS.UU. intervenuto successivamente alla presentazione del presente ricorso.

In ordine al ricorso contro l’Agenzia, col primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 56 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 1, 18, 23, 36 e 57 circa la inammissibilità della introduzione nel processo tributario da parte dell’ufficio di motivi diversi da quelli adottati a sostegno della pretesa impositiva.

In particolare sostiene che l’avviso era fondato sulla circostanza che non poteva procedersi a rimborso ad un soggetto avente le caratteristiche di una società non operativa a norma della L. n. 662 del 1996, art. 3 e che l’unica attività fosse quella diretta a far godere ai soci dei beni sociali, mentre l’ufficio nelle controdeduzioni aveva rilevato che la società negli ultimi due anni non aveva effettuato alcuna operazione economica attiva e l’attività di ristrutturazione era stata effettuata nel 1997 dopo la messa in liquidazione della società quando la società poteva lavorare solo per le attività residue. L’Agenzia ha sostenuto la inammissibilità del motivo perchè la censura non era stata proposta in appello. Il motivo è infondato e le ragioni che militano a far ritenere che tali ragioni non costituiscano un inammissibile allargamento delle ragioni della pretesa dell’ufficio sono analogamente valide a far ritenere infondata l’eccezione di novità della censura. Questa Corte (Cass. n. 25909/2008) ha ritenuto che il carattere impugnatorio del giudizio comporta necessariamente che l’indagine sul rapporto tributario sia limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, nonchè degli elementi del fatto costitutivo, dedotto dalla stessa nell’avviso di accertamento con la conseguenza che, “come il contribuente non può introdurre nuove causae petendi della domanda di annullamento dell’atto impositivo, così come sancito, nella disciplina vigente, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1, così anche l’Amministrazione non può mutare i termini della contestazione deducendo motivi e circostanze di fatto diversi da quelli contenuti nell’avviso di accertamento”. Ora nel caso in ispecie, gli elementi sopra evidenziati nel ricorso(non avere la società conseguito alcun volume d’affari negli anni 1996 e 1997,i costi erano stati sostenuti in corso di liquidazione)che secondo la tesi del contribuente introdurrebbero ragioni nuove, incimmissibili, in realtà tali non sono, in quanto il ricorrente chiarisce(pag. 15 del ricorso) che l’Ufficio faceva valere “oltre a quanto scritto nell’avviso di rettifica” anche le predette circostanze.

Che le medesime non possono assurgere a causa autonoma a sostegno della rettifica dell’ufficio emerge dell’esame della legislazione in materia.

La L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 37 vigente ratione temporis, stabilisce che “A decorrere dal periodo di imposta in corso alla data del 15 settembre 1996, nella L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30 concernente le società di comodo e la valutazione dei titoli, come modificato dal D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 27 convertito, con modificazioni, dalla L. 22 marzo 1995, n. 85, i commi da 1 a 7 sono sostituiti dai seguenti:

“1. Agli effetti del presente articolo le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonchè le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano, salva la prova contraria, non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando: a) l’1 per cento al valore dei beni indicati nel D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 53, comma 1, lett. c), del testo unico delle imposte sui redditi, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti; b) il 4 per cento al valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nel D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8-bis, comma 1, lett. a) e successive modificazioni, anche in locazione finanziaria; c) il 15 per cento al valore delle altre immobilizzazioni, anche in locazione finanziaria. La prova contraria deve essere sostenuta da riferimenti a oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi nella misura richiesta dalle disposizioni del presente comma. Le disposizioni dei precedenti periodi non si applicano: 1) ai soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali; 2) ai soggetti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento dell’attività; 3) ai soggetti che si trovano nel primo periodo di imposta; 4) alle società in amministrazione controllata o straordinaria; 5) alle società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani; 6) alle società esercenti pubblici servizi di trasporto, omissis.” Il successivo comma 45 stabilisce che ” per le società e gli enti non operativi di cui al comma 37, non è ammessa al rimborso l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’imposta sul valore aggiunto per l’anno che comprende l’esercizio, o la maggior parte dell’esercizio, per il quale si verificano le condizioni ivi previste”.

Questa Corte (Cass. n. 13079/2005) ha osservato che la disciplina tributaria delle società “non operative”, o “di comodo”, introdotta dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, commi da 1 a 7, successivamente modificata dal D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 27 (convertito in L. 22 marzo 1995, n. 85), è stata integralmente riscritta dalla sopra citata L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, commi da 37 a 45, con decorrenza “dal periodo d’imposta in corso alla data del 15 settembre 1996”. Attraverso tale disciplina si è inteso, in vario modo, disincentivare il fenomeno dell’uso improprio della struttura societaria, utilizzata per raggiungere fini diversi – anche di natura fiscale – da quelli previsti dal legislatore per tale istituto.

L’oggetto del contendere è invero costituito dall’accertamento della qualità soggettiva della contribuente e, cioè, della sua legittimazione sostanziale a chiedere il rimborso del credito, onde le ragioni addotte (avvenuto non compimento di operazioni attive), comunque tenute in conto dalla CTR, non appaiono che esplicazione e chiarimento, più che introduzione di nuove ragioni, della tesi sostenuta dall’ufficio (e dallo stesso fatta salva) che si trattasse di società non operativa, essendo in re ipsa il che l’assenza assoluta di operazioni attive assorbisse i minori requisiti richiesti dalla legge per la ricorrenza di tale qualificazione di una società.

Si consideri che è incontroverso che la società contribuente aveva fatto valere la qualità di società non operativa al fine di ottenere i benefici della tassazione agevolata delle cessioni delle quote della società( e cioè delle quote dell’immobile ai soci in relazione alle quote di partecipazione societaria) nè risulta che essa abbia mai contestato – sarebbe stato comunque in contraddizione con la superiore richiesta di benefici fiscali – la sussistenza delle condizioni per essere considerata società non operativa.

Il motivo, esclusa la inammissibilità sotto il profilo della dedotta novità, è pertanto infondato sotto li profilo della asserita violazione del principio di introdurre ragioni diverse da quelle addotte nell’atto di accertamento o di rettifica.

Col secondo motivo, la società deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 4, 17, 19 e 54 anche in relazione alle disposizioni degli artt. 2687, 2727 e 2729 c.c. nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria.

Assume in particolare che prima delle modifiche apportate D.Lgs. n. 313 del 1997 (non applicabili al caso in esame ratione temporis) la inerenza andava riferita all’esercizio dell’impresa onde la detraibilità dell’IVA non poteva essere esclusa per mancanza di operazioni attive.

Il motivo è anch’esso infondato.

Anzitutto, non è equiparabile alla presente fattispecie quella se, in assenza di operazioni attive, sia rimborsabile l’iva sostenuta per attività preliminare all’inizio vero e proprio dell’attività imprenditoriale. Questa Corte (Cass. n. 8583/2006) ha già avuto modo di occuparsi della questione e ha ritenuto, in via generale, che “in tema di i.v.a., la possibilità di portare in detrazione, dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, l’imposta assolta o dovuta dal contribuente e a lui addebitata a titolo di rivalsa, in relazione ai beni e al servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 e dir. Cee 17 maggio 1977, n. 388, art. 17, è consentita, per le operazioni passive, soltanto “nella misura in cui i beni e servizi sono impiegati ai fini delle sue operazioni soggette a imposta”. In particolare, la possibilità di detrarrè l’Imposta inerente a operazioni passive richiede che i beni e i servizi acquisiti siano impiegati nell’ambito di una delle attività economiche indicate nella direttiva e che l’inerenza a tale attività economica sia specificamente provata ogni qual volta essa venga posta in dubbio dall’Amministrazione finanziaria” (Cassazione civile, sez. trib., 4 febbraio 2005, n. 2300; nello stesso senso:

Cassazione civile, sez. trib., 14 luglio 2004, n. 13056; Cassazione civile, sez. trib., 9 aprile 2003, n. 5599), con ciò richiedendo un effettivo collegamento strumentale tra le operazioni effettuate soggette ad IVA di cui si chiede il rimborso con quelle oggetto dell’attività di impresa. Affrontando tuttavia la questione relativa alla posizione del contribuente di cui non sia stata rilevato il compimento di un’attività di impresa la Corte ha anche precisato che “in tema di i.v.a., in base alla disciplina dettata dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 2, n. 1 e art. 19 (ed anche alla luce della sesta direttiva del Consiglio del 17 maggio 1977, n. 77/388/Cee, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia) , mentre le cessioni di beni da parte di una società di capitali sono da considerare in ogni caso effettuate nell’esercizio di impresa, in ordine, invece, agli acquisti di beni occorre accertare, ai fini della detraibilità dell’imposta, che dette operazioni passive siano effettivamente inerenti all’esercizio dell’impresa, cioè compiute in stretta connessione con le finalità imprenditoriali, senza tuttavia che sia richiesto il concreto esercizio dell’impresa, con la conseguenza che la detrazione dell’imposta spetta, ricorrendo la detta condizione, anche nel caso di assenza di compimento di operazioni attive” (Cassazione civile, sez. trib., 2 febbraio 2004, n. 1863; conformi: Cassazione civile, sez. trib., 9 aprile 2003, n. 5599; Cassazione civile, sez. trib., 24 febbraio 2001, n. 2729).

Tale orientamento è pienamente condiviso dal Collegio posto che l’inerenza di un’operazione ai fini Iva comporta la necessità che la stessa sia funzionale all’attività imprenditoriale formalizzata nell’oggetto sociale ma tale deve essere definita anche quella finalizzata alla costituzione delle condizioni necessarie perchè l’attività tipica possa concretamente iniziare e quindi anche le attività meramente preparatorie che per definizione vengono poste in essere in una fase in cui non vi è ancora produzione di ricavi.

Non è poi possibile affermare che la soggettività attiva prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4 che prevede sempre effettuate nell’esercizio dell’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte (tra le altre) dalle società di capitali, comporta che la stessa presunzione deve necessariamente esistere per le operazioni passive e che quindi anche una società senza impresa non possa mai essere equiparata al consumatore finale con riferimento alle operazioni passive.

Orbene fatta salva la superiore ipotesi in cui non è possibile porre in dubbio il carattere commerciale dell’attività preparatoria, nel caso in esame, non v’ è prova che l’attività di ristrutturazione in esame fosse preparatoria ad una attività imprenditoriale vera e propria in quanto è, in fatto, provato, e il giudice ne ha fornito adeguata motivazione, che l’attività ora in esame non era correlata ad una attività imprenditoriale diversa da quella del mero godimento del bene, tanto è vero che a seguito della liquidazione il bene, mai oggetto di qualsivoglia utilizzo commerciale, è stato assegnato ai soci in proporzione alle loro quote e in base ad atti non qualificabili atti di cessione e non soggetti ad iva. Il motivo è comunque assorbito dalla considerazione che legislativamente, in ordine alle società non operative(o di comodo), il legislatore ha sancito la non rimborsabilità dell’iva non collegabile ad operazioni che possano essere considerate espressione di effettiva operatività della società.

Non è pertanto pertinente il rilievo che, solo dal 1/01/1998, il legislatore, con la modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4, comma 5 operata dal D.Lgs. n. 313 del 1997 in virtù della delega contenuta nel L. n. 662 del 1996, avrebbe del tutto superato ogni possibilità di attribuzione della qualifica di commercialità alle operazioni passive per il solo fatto di essere state poste in essere da soggetto che rivesta la qualifica di soggetto commerciale, in quanto già in subiecta materia (società non operative) introducendosi una fattispecie con evidente scopo antielusivo, si era equiparata la società non operativa al consumatore finale.

Il rilievo comunque non è fondato in relazione alla superiore giurisprudenza che ha sempre negato la piena assimilazione delle operazioni passive a quelle attive. Non è inopportuno rilevare che,in caso analogo, questa Corte (Cass. n. 2330/2005) ha osservato che “il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 nel testo in vigore all’epoca dei fatti (come, del resto, anche nell’attuale, rimasto invariato per questa parte), consente, infatti, di porre in detrazione “dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal contribuente o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. Anche la normativa comunitaria consente la detrazione dell’imposta corrisposta su operazioni passive soltanto se queste ultime sono funzionali all’esercizio dell’attività imprenditoriale.

L’art. 17 della Direttiva CEE 17 maggio 1977, n. 388, prevede espressamente, al paragrafo 2, che il soggetto passivo dell’imposizione è autorizzato a detrarre dall’imposta dovuta quella già corrisposta per operazioni passive solamente “nella misura in cui i beni e servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta”.

A loro volta le “operazioni soggette ad imposta”, sono quelle che si riferiscono alle attività economiche elencate nel precedente art. 4, paragrafo 2, della direttiva, vale a dire “tutte le attività di produttore, di commerciante o di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonchè quelle delle professioni liberali e assimilate”, come pure le operazioni che comportano lo “sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità”. Ciò significa che la possibilità di detrarre l’imposta inerente ad operazioni passive non è illimitata, essendo necessario appunto che i beni e i servizi acquisiti siano impiegati nell’ambito di una delle attività economiche indicate nella direttiva.

Nè l’inerenza all’attività imprenditoriale può ritenersi presunta in relazione alla qualità di società commerciale della contribuente. Va escluso, in particolare, che questa opinione trovi un fondamento normativo nello stesso D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4.

Questa norma (anch’essa rimasta invariata per la parte che qui interessa sia nel testo vigente … all’epoca dei fatti, sia in quello attuale) dispone, al comma 2, che:”si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese:”le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società in nome collettivo e in accomandita semplice, dalle società per azioni e in accomandita per azioni, dalle società a responsabilità limitata, dalle società cooperative, di mutua assicurazione e di armamento, dalle società estere di cui all’art. 2507 c.c. e dalle società di fatto”.

Sono ritenute, cioè, effettuate nell’esercizio di un’attività di impresa le operazioni di vendita o di fornitura di servizi effettuate da una società commerciale. La regola non si estende però alle ipotesi inverse, alle operazioni di acquisto o di acquisizione di servizi da parte di società commerciali.

Se, infatti, le operazioni attive, in cui una società commerciale vende beni o fornisce servizi, costituiscono di per se stesse, per la loro stessa natura, attività di carattere lucrativo, che, se svolte da un. operatore professionale assumono necessariamente natura imprenditoriale, non altrettanto può dirsi per le operazioni passive, in cui una società commerciale acquista beni o usufruisce di servizi.

Proprio perchè sono operazioni passive, queste ultime di per se stesse comportano una perdita e non un guadagno, e perciò la loro inerenza all’attività imprenditoriale non è implicita, ma va provata specificamente caso per caso; in concreto dovrà essere il contribuente – che afferma l’inerenza dell’esborso alla propria attività imprenditoriale – a darne la prova ogni qual volta venga posta in dubbio dall’Amministrazione Finanziaria … . Un’operazione isolata, non diretta al pubblico, al mercato, di per se sola non può valere a dare consistenza ad un’attività imprenditoriale; nè appare sufficiente che … l’atto costitutivo e lo statuto sociale potessero prevedere che la società … nel corso della propria attività imprenditoriale potesse acquisire, ristrutturare, vendere e locare immobili; sarebbe stato necessario dimostrare, piuttosto, o che quella singola operazione non era isolata e preordinata ad una destinazione particolare sita al di fuori del mercato, ma si inseriva nell’ambito di una specifica attività imprenditoriale, diversa da quella immobiliare, oppure, in via alternativa, che, come operazione immobiliare, si inseriva in una vera e propria attività immobiliare, e perciò in una serie più o meno ampia di altre operazioni similari, di acquisto, di vendita, di locazione, di ristrutturazione, di frazionamento, ecc.. Occorreva dimostrare, in sostanza, che si trattava effettivamente di un’operazione di carattere imprenditoriale”.

Col terzo motivo deduce violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n 546 del 1992, artt. 8, 36 e 53 per avere la CTR omesso di rilevare la genericità e pertanto l’inammissibilità dell’appello incidentale in ordine all’applicabilità delle sanzioni,essendosi limitata la CTR a rilevare la chiarezza delle disposizioni.

Il motivo è inammissibile difettando dei necessari requisiti dell’autosufficienza, non avendo la ricorrente provveduto a trascrivere i termini dell’appello incidentale sui punti che avrebbero imposto, per la loro genericità, di dichiararlo inammissibile, essendosi invece limitata a indicare le sole conclusioni senza fare riferimento alle ragioni argomentative.

Col quarto motivo deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 8 e 36 e motivazione insufficiente sulla sussistenza delle condizioni di non applicabilità delle sanzioni. Il motivo è inammissibile per quanto concerne il vizio motivazionale, non afferendo la questione dell’applicazione dell’art. 8 predetto ad un giudizio di fatto (Cass. n. 24670/2007) mentre è infondato con riferimento alla violazione di legge (o falsa applicazione) in quanto le evidenziate difficoltà interpretative non sono pertinenti al caso in ispecie, in quanto l’intervento della Corte Europea (causa 110/94) riguarda la diversa fattispecie sopra esaminata del rimborso d’iva per attività preliminari ad attività commerciale non potuta successivamente espletarsi, laddove il ripensamento di cui alla circolare 128/E dell’8/05/1997 sulle società di gestione immobiliari è motivato dall’Amministrazione per difficoltà pratiche, onde tali “indici”, da allegare da parte del contribuente secondo la superiore giurisprudenza, hanno equivoca rilevanza.

Anzi, la stessa difesa si basa, in via esclusiva, sull’argomento ben diverso che quel certo comportamento – in concreto la richiesta di rimborso dall’imposta – fosse pienamente lecito e non frutto di errore interpretativo.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato con ogni conseguenza in tema di spese.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara inammissibile il ricorso contro il Ministero e compensa le relative spese. Rigetta il ricorso contro l’Agenzia e condanna la ricorrente alle spese che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per spese vive e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 22 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011

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