Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7343 del 26/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 26/03/2010, (ud. 23/12/2009, dep. 26/03/2010), n.7343

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13537-2006 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DARDANELLI

13, presso lo studio dell’avvocato LIUZZI ANTONIO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato BACIGA STEFANO, giusta mandato in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, AGENZIA DELL’ENTRATE;

– intimati –

sul ricorso 18080-2006 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro

legale rappresentante pro tempore, AGENZIA DELL’ENTRATE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, domiciliati in ROMA, IN VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DARDANELLI

13, presso lo studio dell’avvocato LIUZZI ANTONIO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato BACIGA STEFANO, giusta mandato in

calce al ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 719/2005 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 10/01/2006 R.G.N. 145/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/12/2009 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito l’Avvocato LIUZZI ANTONIO;

udito l’Avvocato TORTORA ROBERTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del primo motivo del

ricorso principale, accoglimento del secondo e terzo motivo,

inammissibilità dell’incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Verona, B.S., già dipendente dell’odierno Ministero dell’Economia e delle Finanze e, dal 1977, anche agente mandatario della SIAE nella provincia di (OMISSIS), impugnò il licenziamento intimatogli per avere espletato la predetta attività di agente mandatario senza autorizzazione, siccome negatagli in data (OMISSIS), sul rilievo che il diniego era intervenuto quando ormai era decorso il termine di 30 giorni dalla richiesta di autorizzazione, onde su quest’ultima si era formato il silenzio assenso previsto dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 60, e, per conseguenza, i successivi provvedimenti dell’Amministrazione dovevano considerarsi illegittimi.

Il Giudice adito accolse il ricorso, condannando l’Amministrazione alla reintegrazione del ricorrente e al pagamento delle retribuzioni spettantegli.

La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 22.3.2005 – 10.1.2006, accogliendo l’appello proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate, quest’ultima già costituitasi in primo grado, dichiarò la legittimità del recesso e condannò il B. al pagamento di quanto percepito per effetto dell’attività non autorizzata.

A sostegno del decisum, per quanto ancora qui di rilievo, la Corte territoriale osservò quanto segue:

– stante la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, già introdotta con il D.Lgs. n. 29 del 1993, il diniego della autorizzazione non poteva essere definito quale atto amministrativo;

il versamento degli importi provenienti dall’attività non autorizzata derivava come conseguenza automatica dall’accertata illegittimità del comportamento del lavoratore e non costituiva un’autonoma sanzione disciplinare soggetta alle procedure conciliative;

– la relativa somma non doveva essere versata al netto delle ritenute fiscali, perchè la prevista loro devoluzione al fondo di produttività del Ministero delle Finanze individuava scopi esulanti dalle finalità dell’obbligo tributario;

sulla somma anzidetta competevano gli interessi legali dalla costituzione in mora.

Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale B. S. ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi. Gli intimati Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato, a cui il ricorrente ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi vanno previamente riuniti, siccome proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

2. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c. stante la mancata indicazione nella stessa dell’Agenzia delle Entrate.

2.1 Al riguardo va rilevato che, benchè non indicata nell’intestazione della sentenza, l’avvenuta partecipazione al giudizio anche dell’Agenzia delle Entrate è inequivocabilmente evincibile dal suo contenuto, laddove si da atto dell’avvenuta costituzione già in primo grado della “Agenzia delle Entrate (Direzione Regionale del Veneto)” e si specifica che avevano proposto appello “Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate”. Pertanto, in adesione al principio secondo cui l’omessa o inesatta indicazione del nome di una delle parti nell’intestazione della sentenza va considerata un mero errore materiale, emendabile con la procedura di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c. quando dal contesto della sentenza risulti con sufficiente chiarezza l’esatta identità di tutte le parti, nel mentre si ha nullità della sentenza stessa qualora da essa si deduca che non si è regolarmente costituito il contraddittorio e quando sussiste una situazione di incertezza, non eliminabile a mezzo della lettura dell’intera sentenza, in ordine ai soggetti cui la decisione si riferisce (cfr, Cass., nn. 8242/2003; 15786/2004), il motivo all’esame deve essere disatteso.

3. Con il secondo motivo il ricorrente principale denuncia violazione di legge (D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 2, 4 e 72; D.Lgs. n. 80 del 1998, artt. 4 e 26), sostenendo che gli atti della PA datrice di lavoro concernenti il regime della incompatibilità avevano assunto natura di atti negoziali solo a partire dalle modifiche introdotte con il D.Lgs. n. 80 del 1998, con la conseguenza che il silenzio assenso formatosi sull’istanza di esso ricorrente in data 27.3.1997 avrebbe dovuto essere prima rimossa attraverso l’annullamento in sede di autotutela e che, in difetto di ciò, il diniego opposto dall’Amministrazione finanziaria doveva ritenersi illegittimo, al pari del licenziamento, siccome fondato su tale provvedimento negativo.

3.1 Osserva la Corte che, già con l’emanazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, salvi i casi di espressa deroga, era stato attratto nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili non connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa (cfr, Corte Costituzionale n. 309/2007), con la conseguenza che gli atti di gestione del rapporto lavorativo privatizzato restavano esclusi dalla disciplina propria dell’atto amministrativo, dovendo essere invece posti in essere con i poteri de privato datore di lavoro, in tal senso dovendo interpretarsi, nella sua amplissima dizione (“materie soggette alla disciplina del codice civile, delle leggi sul lavoro e dei contratti collettivi”), il disposto del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 4, comma 1, seconda parte.

Non conduce a diversa conclusione il disposto del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58 secondo cui era mantenuta ferma per tutti i dipendenti pubblici (contrattualizzati e non) la disciplina delle incompatibilità dettata dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 60 e segg. (T.U.), poichè la ratio di tale norma non è individuabile nell’estraneità di tale disciplina all’ambito del rapporto lavorativo, ma, piuttosto, nella considerazione che la stessa attiene alla sussistenza di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità preclusivi della stessa costituzione del rapporto di lavoro, onde i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici veniva sottratta alla contrattazione collettiva e riservata alla legge;

con la conseguenza che in tema di incompatibilità, già nella vigenza del D.Lgs. n. 29 del 1993, l’attività datoriale in relazione al rapporto di lavoro privatizzato, pur restando regolata dalla specifica disciplina disposta ex lege, non veniva più ad esplicarsi attraverso provvedimenti amministrativi, bensì restava nell’ambito dei comportamenti di gestione del rapporto di lavoro (cfr, Cass., nn. 967/2006; 18608/2009).

Il motivo all’esame deve pertanto essere rigettato.

4. Con il terzo articolato motivo il ricorrente principale deduce il vizio di motivazione della sentenza sotto distinti profili:

– perchè la Corte territoriale non avrebbe preso in esame l’eccezione di inammissibilità della domanda riconvenzionale di pagamento dei compensi percepiti da esso ricorrente dalla SIAE nel periodo successivo al 30.6.1998 (eccezione fondata sull’assunto che tali introiti erano stati richiesti a titolo di sanzione disciplinare senza alcuna contestazione e senza l’esperimento del previo tentativo obbligatorio di conciliazione), limitandosi ad affermare che il versamento di tali somme costituiva conseguenza automatica dell’accertata illegittimità del comportamento del lavoratore;

– perchè la somma richiesta e riconosciuta era comprensiva delle ritenute fiscali, già versate dalla SIAE come sostituto d’imposta;

– perchè, in ordine alla decorrenza degli interessi legali, erroneamente era stato ritenuto che in data 3.1.1999 vi fosse stata costituzione in mora.

4.1 Osserva la Corte che, a mente del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, (in cui è stato trasfuso il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58 come modificato prima dal D.L. n. 358 del 1993, art. 2 convenuto dalla L. n. 448 del 1993, poi dal D.L. n. 361 del 1995, art. 1 convertito con modificazioni dalla L. n. 437 del 1995, e, infine, dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26 nonchè dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 16) “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. (…) In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalente.

L’affermato autonomo rilievo della responsabilità disciplinare (“ferma restando la responsabilità disciplinare”) porta ad escludere, già sotto l’aspetto strettamente testuale, che l’obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in dispregio del divieto sia configurabile, come pretende il ricorrente, quale sanzione disciplinare; il che resta poi confermato dal fatto che l’obbligo di tale versamento è imposto in primis all’erogante (ossia a un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, solo in difetto, al lavoratore che lo ha percepito.

Ne consegue che la richiesta di versamento dei compensi non necessita di una previa autonoma contestazione disciplinare.

4.2 Quanto al mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione deve rilevarsi che il richiamo all’art. 412 bis c.p.c., comma 2, fatto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 65, comma 3, comporta l’applicabilità del condiviso principio secondo cui l’espletamento preventivo del tentativo obbligatorio di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda, la cui mancanza è rilevabile, anche d’ufficio, non oltre l’udienza di discussione del giudizio di primo grado, sicchè, ove l’improcedibilità, ancorchè segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto termine, la questione di improcedibilità non può essere riproposta, ancorchè ritualmente, nei successivi gradi di giudizio (cfr, ex plurimis, Cass., n. 11629/2004).

4.3 Il già ricordato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, fa testuale riferimento al “compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte” e, quindi, al corrispettivo dell’attività non autorizzata al lordo dell’imposta sul medesimo dovuta, restando perciò irrilevante che, su tale compenso, siano state eventualmente operate dal soggetto erogante le ritenute tributarie.

4.4 Il profilo di doglianza relativo alla data di costituzione in mora è infine inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato ivi riportato il contenuto della nota con la quale, secondo l’assunto del ricorrente, sarebbe stata avanzata, in epoca successiva a quanto accertato dalla Corte territoriale, la richiesta di pagamento e, quindi, la costituzione in mora.

4.5 Anche il terzo motivo, nei distinti profili in cui si articola, non merita perciò accoglimento.

5. Il ricorso principale va quindi rigettato, mentre resta assorbito quello incidentale condizionato, fondato sull’eccezione di aliunde perceptum, non esaminata dalla Corte territoriale.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta quello principale e dichiara assorbito quello incidentale; condanna il ricorrente principale alla rifusione delle spese, che liquida in Euro 42,00 oltre ad Euro 3.000,00 (tremila) per onorari e alle eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 23 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 marzo 2010

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