Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7337 del 17/03/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/03/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 17/03/2020), n.7337

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino L – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo M. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23178 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

T. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa per procura a margine del ricorso dall’Avv.

Angelo Spena, elettivamente domiciliata in Roma, via della Bella

Villa, n. 66/D, presso l’avv. Tatiana Tarli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Campania, n. 22/45/2012, depositata in data 16

gennaio 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 1

ottobre 2019 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

Fatto

RILEVATO

che:

dalla esposizione in fatto della pronuncia censurata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato alla società T. s.p.a. un avviso di accertamento con il quale aveva disconosciuto le detrazioni Iva relative a operazioni, ritenute soggettivamente inesistenti, di cui alle fatture emesse dalla ditta M.G., in quanto la partita Iva indicata sulle fatture era risultata cessata dal 31 dicembre 1993; avverso il suddetto atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli; avverso la suddetta pronuncia l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Campania ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: era fatto incontestato che la partita Iva indicata nelle fatture di vendita della ditta M.G. era cessata al 31 dicembre 1993 e che la ditta Sol Frutta di M. aveva attivato la partita Iva solo dal 10 marzo 2005; era onere della società contribuente dare prova della impossibilità di conoscere il fatto generatore che aveva reso inesistenti le operazioni, non essendo sufficienti le registrazioni contabili formalmente regolari e la prova dei pagamenti; la società contribuente avrebbe potuto accertare l’inesattezza della partita Iva indicata; sussistevano, inoltre, diverse anomalie relative alle operazioni per l’anno 2005;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso T. s.p.a. affidato a due motivi di censura;

l’Agenzia delle entrate è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), per violazione dell’art. 2909, c.c., e art. 324, c.p.c., stante il giudicato esterno formatosi sulla medesima questione con la pronuncia n. 85/2000 del 18 marzo 2010 della Commissione tributaria provinciale di Napoli;

il motivo è inammissibile, atteso che il giudicato esterno può fare stato nel processo solamente laddove vi sia certezza in ordine alla relativa formazione, imprescindibile essendo pertanto che colui il quale ne invoca l’autorità (v. Cass., Sez. Un., 16/6/2006, n. 13916) fornisca la prova al riguardo, mediante la produzione della sentenza munita dell’attestazione di cancelleria ex art. 124 disp. att. c.p.c., in ordine all’intervenuto relativo passaggio in giudicato (Cass. Sez. Un., 2 marzo 2017, n. 5302; Cass., Sez. Un., 14 marzo 2016, n. 4909; Cass., 28 febbraio 2018, n. 4569 e Cass., 22 novembre 2018, n. 30161);

con il secondo motivo si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17 e ss., art. 19 e ss, art. 21 e ss.; dell’art. 2697, c.c., degli artt. 112,115 e 116, c.p.c., per omesso esame di un punto decisivo della, controversia; per omessa e insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5;

in particolare, parte ricorrente lamenta che il giudice del gravame avrebbe omesso di esaminare una serie di circostanze relative alla esistenza delle operazioni di acquisto e alla loro inerenza all’attività di impresa nonchè alla sussistenza di prove idonee a sostegno della buona fede della contribuente; nonchè, infine, il fatto che non era stato assolto l’onere di prova gravante sulla amministrazione finanziaria circa la sussistenza di operazioni soggettivamente inesistenti, nonchè della asserita frode, ossia del fatto che anche il contribuente avrebbe ricavato indebiti vantaggi fiscali dal comportamento del fornitore;

il motivo è inammissibile;

il contenuto centrale del presente motivo di censura, secondo una ricostruzione della complessiva ragione di fondo sottostante la prospettazione operata dal ricorrente, nonostante la pluralità di parametri di riferimento indicati nella rubrica (che attengono ora a vizi di violazione di legge, ora a errores in procedendo, ora a vizi di motivazione), attiene alla mancata considerazione di circostanze, ritenute decisive ai fini del decidere, che attengono alla esistenza delle operazioni di acquisto e alla loro inerenza all’attività di impresa nonchè alla sussistenza di prove idonee a sostegno della buona fede della contribuente;

in primo luogo, va osservato che il motivo è proposto in violazione del principio di specificità, non avendo la ricorrente allegato e riprodotto in questa sede i diversi elementi da cui rilevare le circostanze non considerate dal giudice del gravame e la cui valutazione, invece, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione;

in ogni caso, le circostanze dedotte non possono essere considerare rilevanti, in quanto attengono alla verifica della effettività delle operazioni e, quindi, non sono aderenti alla ragione della pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria e sulla quale si è pronunciato il giudice del gravame, tenuto conto del fatto che, invero, la presente controversia deriva dalla contestazione alla contribuente del diritto alla detrazione Iva per operazioni soggettivamente inesistenti, quindi per avere acquistato merci da un soggetto ritenuto mero interposto;

non è, quindi, questione, come invece prospettato dalla ricorrente, di accertare l’effettività delle operazioni e l’inerenza delle stesse all’attività commerciale svolta: tale circostanza è pacifica nel caso in esame, ove, invero, si è contestato che quelle operazioni, certamente poste in essere, non provenivano da un soggetto passivo ai fini Iva, stante la sua presenza meramente formale, ma da altro soggetto effettivo fornitore;

sicchè, anche il riferimento giurisprudenziale operato nel ricorso relativo al riconoscimento del diritto alla deduzione dei costi nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti è inconferente, posto che, nella fattispecie, la questione attiene al disconoscimento del diritto alla detrazione dell’Iva in considerazione della natura soggettivamente inesistenti delle operazioni;

circa, poi, la violazione dell’onere probatorio, lo stesso è stato posto all’attenzione con la precisazione che l’amministrazione finanziaria avrebbe dovuto dare prova della interposizione fittizia del fornitore e della frode ascrivibile al contribuente, ossia del fatto che questi avrebbe tratto indebiti vantaggi fiscali dall’illegittimo comportamento del suo fornitore;

così come formulato, il motivo non può trova accoglimento, in quanto questa Corte (Cass. civ. 20 aprile 2018, n. 9851), ha precisato che “in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta” e, inoltre, che “la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente”;

con riferimento, quindi, alla prova dell’alterità della prestazione, la stessa risulta fornita con specifico riferimento alla circostanza che il soggetto che aveva emesso la fattura aveva, in realtà, chiuso la partita Iva in tempo molto antecedene all’operazione, ed a tale elemento presuntivo il giudice del gravame ha dato rilevanza probatoria idonea, spostando sulla contribuente l’onere di fornire la prova contraria;

circa, poi, gli elementi indiziari su cui può ritenersi assolto l’onere di prova, gravante sull’amministrazione finanziaria, relativa alla consapevolezza del contribuente, gli stessi non devono essere necessariamente relativi, come invece sostenuto dalla ricorrente, alla circostanza che la frode era ascrivibile al contribuente o che questi avesse inteso trarre indebiti vantaggi fiscali dall’illegittimo comportamento del suo fornitore;

ne consegue il rigetto del ricorso, nulla sulle spese attesa la mancata costituzione dell’Agenzia delle entrate.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2020

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