Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7336 del 31/03/2011

Cassazione civile sez. trib., 31/03/2011, (ud. 23/11/2010, dep. 31/03/2011), n.7336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Società Cooperativa a r.l. F.A.N.S. (in liquidazione), con sede in

(OMISSIS), in persona del

liquidatore, elettivamente domiciliata in Roma al Viale Regina

Margherita n. 262/264 presso l’avv. TAVERNA Salvatore che la

rappresenta e difende in forza della procura speciale rilasciata a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(1) AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

e

(2) MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro

pro tempore;

– intimati –

AVVERSO la sentenza n. 85/15/05 depositata il 22 novembre 2005 dalla

Commissione Tributaria Regionale del Lazio;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 novembre 2010

dal Cons. Dott. D’ALONZO Michele;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 4 gennaio 2007 all’AGENZIA delle ENTRATE ed al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, la Società Cooperativa a r.l. F.A.N.S. premesso che la Guardia di Finanza avendo ipotizzato (all’esito della verifica generale operata nei confronti di quella) l’emissione, da parte “della … A.T.F. Soc. Coop. a rl in liquidazione”, di “fatture per operazioni inesistenti” (per “occultamento cosciente e volontario delle scritture contabili allo scopo di impedire la ricostruzione del volume d’affari conseguiti”, “genericità della descrizione delle fatture emesse”, “mancanza di documentazione di supporto”, “entità del personale dipendente” nonchè per “ambiguità e promiscuità nei pagamenti”) aveva contestato ad essa, ritenendoli relativi ad “operazioni inesistenti”, “la contabilizzazione di costi” concernenti le operazioni “intercorse con la società A.T.F.” -, in forza di quattro motivi, chiedeva di cassare la sentenza n. 85/15/05 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio (depositata il 22 novembre 2005) che aveva respinto il suo appello avverso la decisione (23/52/02) della Commissione Tributaria Provinciale di Roma la quale aveva disatteso il ricorso da essa proposto contro l'”avviso” notificato dal competente Ufficio a parziale rettifica della dichiarazione annuale presentata ai fini dell’IVA per l’anno 1993 (con irrogazione delle afferenti sanzioni).

Nessuno degli intimati svolgeva attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va, ex officio, rilevata e dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto contro il Ministero perchè la ricorrente non ha nemmeno dedotto che questo ente abbia preso parte al giudizio di appello nè allegato (e provato) che lo stesso sia titolare di un qualche rapporto giuridico che – come costantemente richiesto da questa Corte (Cass.: 2^, 23 agosto 2007 n. 17922; trib., 7 maggio 2007 n. 10341; 3^, 26 gennaio 2006 n. 1692;

2^, 26 gennaio 2006 n. 1507; 2005 n. 965; 2^, 13 settembre 2004 n. 18346; 2^, 29 aprile 2003 n. 6649; 2^, 4 febbraio 2002 n. 1468; 2^, 23 novembre 2001 n. 14910) – lo legittimi, anche al fine di dimostrare la sussistenza del necessario ed imprescindibile interesse (art. 100 c.p.c.), a contraddire all’impugnazione proposta nei suoi confronti.

In proposito, va ricordato che per effetto ed in conseguenza del trasferimento di funzioni e di rapporti inerenti le entrate tributarie dal Ministero (dell’Economia e) delle Finanze alle Agenzie Fiscali (tra cui, l’Agenzia delle Entrate) – le quali ultime sono divenute operative a partire dal primo gennaio 2001 in base al D.M. 28 dicembre 2000, art. 1 – disposto dal titolo quinto, capo secondo, del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, ciascuna Agenzia (1) è succeduta al Ministero nei rapporti, sostanziali e processuali, in corso a quel momento e (2) è divenuta titolare esclusiva dei rapporti tributari (e, pertanto, unica legittimata processualmente) sorti successivamente alla data detta di sua operatività: nel caso, dall’epigrafe della sentenza impugnata emerge che l’appello della contribuente (afferente a decisione assunta nel 2002) è stato depositato il 6 novembre 2004, quindi proposto dopo il primo gennaio 2001 detto, per cui il processo di appello si è svolto solo tra la contribuente e l'(Ufficio locale dell’) Agenzia.

2. La Commissione Tributaria Regionale – premesso che la ricorrente ha impugnato la decisione di primo grado esponendo: (1) “l’eccezione mossa nel ricorso introduttivo del giudizio, riguarda la mancanza di un esame accurato del P.V.C, onde evitarne il trasferimento “acritico” nell’atto di accertamento”, quindi un “comportamento …

più volte censurato con la sanzione dell’illegittimità da parte delle Commissioni Tributarie, considerando appunto illegittimo l’accertamento dell’Ufficio che sia motivato con un semplice riferimento alle fonti da cui sono state attinte le indicazioni, poste a base dell’accertamento medesimo”; (2) “dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, è l’inversione dell’onere della prova, priva di fondamento e legittimità giuridica dei ruoli, che spettano alle parti interessate dal processo tributario”: in questo “spetta all’Ufficio accertatore, e non al contribuente, l’onere di ricercare gli elementi di prova, per legittimare un accertamento” (“secondo la Suprema Corte di legittimità, l’Amministrazione Finanziaria è sempre “attore in senso sostanziale del processo tributario”, perciò grava su di essa l’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c.”); (3) “il semplice riferimento a processi verbali redatti dalla Guardia di Finanza, se essi non contengono fatti sicuri o documenti assolutamente certi, non può essere considerata come “legittima” la “motivazione” di un avviso di accertamento o rettifica”; (4) “la genericità delle descrizioni delle fatture o di comportamenti non formalmente precisi da parte degli operatori coinvolti nelle prestazioni, non possono costituire sicuri elementi di prova, ma possono essere soltanto indizi importanti, ai quali, doveva comunque, seguire una indagine più approfondita da parte dell’Ufficio accertatore, e ciò al fine di assolvere l’onere di motivare, legittimamente, l’avviso di accertamento emesso”: “pertanto, l’avviso in contestazione deve essere considerato privo di motivazione e, per l’effetto, annullato”;

(5) “quanto … all’utilizzo delle presunzioni, l’Ufficio ha ritenuto di poter applicare il combinato disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 e dell’art. 56, comma 2, u.p, laddove è permesso l’utilizzo delle presunzioni, se gravi, precise e concordanti, purchè, però, siano indicati nell’Avviso di Rettifica, i fatti certi che danno fondamento alla presunzione” ma “nella fattispecie in esame … nulla di tutto ciò è avvenuto” atteso che “tutto l’accertamento poggia sulla presunzione circa, la genericità della descrizione delle fatture emesse e la mancanza della documentazione di supporto, che costituiscono elementi probanti al fine di discriminare le fatture buone rispetto a quelle false” – ha respinto l’appello della società osservando:

– “dall’esame degli atti, si rivela che l’avviso di rettifica oggetto del giudizio deriva da un PVC redatto dalla Guardia di Finanza nei confronti della soc. Coop. A.T.F. e regolarmente notificato alla ricorrente” per cui questa “ne ha avuto piena conoscenza”: “non è in alcun modo censurabile l’atto … che fa espresso riferimento al predetto verbale di constatazione” atteso che “la giurisprudenza ritiene ammissibile la motivazione per relationem … quando l’atto richiamato sia conosciuto all’interessato”;

– “nell’atto impugnato … sono stati indicati tutti gli elementi giustificativi della rettifica e pertanto non è in alcun modo censurabile l’operato dell’Ufficio”;

– “la ricorrente . . . non è stata in grado di esibire … idonei elementi di prova per contrastare” detto “operato” essendosi limitata a “contestare l’avviso …con argomentazioni del tutto assertive e prive di fondamento”;

– “l’Ufficio, attraverso la situazione riscontrata, ha legittimamente provveduto ad emettere l’avviso”;

“relativamente … alla eccepita violazione di cui al D.P.R. n. 632 del 1973, art. 19 recte: n. 633 del 1972, per indebita detrazione riferita ad operazioni inesistenti, la situazione riscontrata avvalora pienamente l’operato dell’Ufficio”.

3. La Cooperativa censura la decisione con quattro motivi.

A. Con il primo la ricorrente – affermato che “le valutazioni dei verbalizzanti non possono ritenersi … coperte da efficacia probatoria privilegiata ex art. 2700 cod. civ. … per cui gli Uffici … sono tenuti ad operare una valutazione critica dei dati e degli elementi informativi loro forniti dagli organi competenti a svolgere le indagini ispettive” – denunzia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 3, e degli artt. 2697, 2700 e 2729 c.c.” nonchè “insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia” adducendo che “nel caso”, invece, “l’Ufficio ha recepito acriticamente una serie di elementi . . .

puramente indiziari . . . rendendo . . . incomprensibili le ragioni che hanno portato i giudici di secondo grado a ravvisare in tali elementi la “base incontestabile” onde legittimare l’opposto avviso di rettifica”.

B. Con il secondo motivo la contribuente – assunto aver la giurisprudenza di questa Corte (“cfr. Cass., … 5^, 25 maggio 2001 n. 7149”; “sentenza 3 maggio 2001 n. 15234”) “separato il binomio conoscenza – conoscibilità, dichiarando la nullità di un atto di accertamento motivato per relationem in una fattispecie di mancata conoscenza effettiva” – denunzia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 3, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7 e degli artt. 2697, 2700 e 2729 c.c.” nonchè “insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia:” esponendo che “nel caso …, il rinvio … al processo verbale di constatazione non è univoco” perchè “articolato, quanto alla motivazione, su un duplice livello”: “avviso di accertamento rinviante al processo verbale di constatazione a sua volta rinviante all’esito di controlli incrociati eseguiti nei confronti di presunti clienti”, quindi “con una sorta di doppio rinvio per relationem” in quanto riferito (a) “al processo verbale di constatazione” redatto nei confronti di essa “accertata” e (b) “alla documentazione derivante da “altra” attività ispettiva non portante ad alcuna presunzione certa”.

Per la ricorrente, quindi, l’Ufficio, “da un punto di vista formale, motiva l’atto impositivo facendo riferimento al processo verbale” di cui essa “ha avuto conoscenza” ma “dal punto di vista sostanziale …

richiama gli esiti riportati nell’attività di indagine che ha coinvolto altri soggetti di cui essa ricorrente non ha avuto completa cognizione, non conoscendone il contenuto se non nelle parti richiamate dalla Finanza”.

C. Con il terzo motivo la Cooperativa denunzia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, commi 2 e 3, nonchè dell’art. 2729 c.c.”, oltre che “omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia” assumendo che “la sentenza impugnata” è “erronea” perchè ha “legittimato i … recuperi a tassazione sulla base di presunzioni prive dei necessari requisiti della gravità, della precisione e della concordanza” mentre l’Ufficio, “avendo contestato … irregolarità contabili a carattere formale (genericità delle fatture e assenza di documentazione di supporto)”, “avrebbe dovuto procedere alla rettifica” solo “mediante l’uso di presunzioni semplici, “purchè gravi, precise e concordanti”:

Secondo la contribuente, quindi, poichè “la scelta .. . del metodo di accertamento non è affatto discrezionale … ma vincolata al rispetto dei presupposti indicati dalla legge”, “l’accertamento …

non poteva essere … effettuato” (“pena la violazione del generale divieto del praesumptum de praesumpto”) perchè “fondato su presunzioni prive dei requisiti suindicati”.

D. Con il quarto (ultimo) motivo la contribuente contesta l’affermazione del giudice di appello secondo cui “… la ricorrente … non è stata in grado di esibire… idonei elementi di prova per contrastare efficacemente l’operato dell’Ufficio, ma si è limitata a contestare l’avviso di rettifica con argomentazioni del tutto assertive e prive di fondamento” e denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.” richiamando la “recente sentenza” con la quale questa Corte (“sentenza n. 18710 del 23 settembre 2005”) per la quale “la fattura … è documento idoneo a documentare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente del D.P.R. 26 ottobnre 1972, n. 633, art. 21” per cui “non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento e, quindi l’esistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere”.

4. Il ricorso contro l’Agenzia è infondato.

A. Prima del suo esame si deve ricordare che:

(a) il vizio di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) consiste (Cass.: 3^, 17 luglio 2009 n. 16739; 3^, 13 maggio 2009 n. 11097; 3^, 5 giugno 2007 n. 13066;

trib., 10 febbraio 2006 n. 2935; trib., 20 gennaio 2006 n. 1127;

trib., 9 novembre 2005 n. 21767; trib., 1^, 11 agosto 2004 n. 15499) nella deduzione di un’ erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata a questa Corte del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 65) mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa;

(b) detto vizio, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità (Cass., 2^, 12 febbraio 2004 n. 2707; id., 2^, 26 gennaio 2004 n. 1317), dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione;

(c) il vizio di omessa od insufficiente motivazione (denunciabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) sussiste soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, mentre il vizio di contraddittoria motivazione presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata (Cass., lav., 12 agosto 2004 n. 15693; id., lav., 9 agosto 2004 n. 15355);

(d) questi vizi motivazionali non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte perchè spetta solo a detto giudice (1) individuare le fonti del proprio convincimento, (2) valutare le prove, (3) controllarne l’attendibilità e la concludenza, (4) scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, (5) dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi (non ricorrenti nella specie) tassativamente previsti dalla legge in cui è assegnato alla prova un valore legale;

(e) il ricorrente che nel giudizio di legittimità deduca l’omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie ha l’onere (Cass.: un., 5 giugno 2008 n. 14824; 3^, 29 marzo 2007 n. 7767; 3^, 28 giugno 2006 n. 14973), sempre in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c.), di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non valutate o mal valutate, nonchè di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse atteso che il mancato esame di una (o più) risultanze processuali può dar luogo al vizio di omessa o insufficiente motivazione unicamente se quelle risultanze processuali non valutate o mal valutate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre sulle quali il convincimento si è formato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (Cass.: 3^, 22 febbraio 2010 n. 4205; 2^, 17 febbraio 2004 n. 3004).

B. L’applicazione al caso dei richiamati principi evidenzia l’inammissibilità dei primi due motivi di ricorso.

B.1. La “violazione e falsa applicazione” delle specifiche norme (“D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 3” “artt. 2697, 2700 e 2729 c.c.”) denunziate con la prima doglianza, infatti, non investe nessuna interpretazione (quand’anche implicita, esposta e/o necessariamente desumibile come supposta nella sentenza impugnata) delle stesse, nè quale sia l’esegesi delle medesime (singolarmente e/o complessivamente considerate) ritenuta corretta, tale (ovviamente) che l’applicazione della stessa sia idonea a determinare una possibile modifica della decisione impugnata in senso (anche solo parzialmente) favorevole alla contribuente.

Questa, infatti, come riportato, (1) correla il vizio denunziato con gli assunti (a) che “le valutazioni dei verbalizzanti non possono ritenersi . . . coperte da efficacia probatoria privilegiata ex art. 2700 cod. civ.” e (b) che “gli Uffici … sono tenuti ad operare una valutazione critica dei dati e degli elementi informativi loro forniti dagli organi competenti a svolgere le indagini ispettive” e (2) inferisce che l’Ufficio ha reso “incomprensibili le ragioni che hanno portato i giudici di secondo grado a ravvisare in tali elementi la “base incontestabile” onde legittimare l’opposto avviso di rettifica” per avere “recepito acriticamente una serie di elementi … puramente indiziar”: tali osservazioni, come evidente, non pongono in luce nessuna violazione delle norme indicate da parte del giudice di appello non avendo la ricorrente richiamato nessuna affermazione (neppure necessariamente implicita) dalla quale possa dedursi che la Commissione Tributaria Regionale abbia (a) ritenuto “coperte da efficacia probatoria privilegiata” (quindi vincibili solo con lo speciale strumento della “querela di falso”) le svalutazione dei verbalizzanti”, (b) posto l’onere probatorio a carico di una parte diversa da quella tenuta per legge e, soprattutto (Cass.:

trib., 28 settembre 2007 n. 20932; 3^, 5 settembre 2006 n. 19064;

trib., 10 febbraio 2006 n. 2935, tra le recenti), tratto dal mancato adempimento di tale onere elementi di convincimento a danno di quella stessa parte, (c) affermato che le presunzioni di cui all’art. 2727 cod. civ. possano essere anche non “gravi, precise e concordanti” ovvero (d) che in tema di IVA “negli avvisi relativi agli accertamenti induttivi” possano pure non “essere indicati” quegli elementi (“imponibile determinato dall’ufficio”, “aliquota o le aliquote”, “detrazioni applicate”, “ragioni per cui sono state ritenute applicabili le disposizioni dell’art. 55, comma 1 o comma 2”) che, invece, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 6333, art. 56, comma 3 impone all’Ufficio di indicare (“devono”) “a pena di nullità” della motivazione dell’avviso di accertamento.

L'”insufficiente motivazione”, poi, è solamente enunciata non essendo state indicate quali siano le obiettive deficienze del criterio logico formativo del convincimento della Commissione Tributaria Regionale.

B.2. Anche la violazione delle medesime norme, come di quella contenuta della L. n. 212 del 2000, art. 7 posta a fondamento del secondo motivo, non indica nè l’interpretazione (implicita) del giudice di appello nè la diversa, ritenuta corretta.

B.2.1. La censura, infatti, si fonda anche qui non sulla individuazione della astratta fattispecie normativa ma su di un elemento meramente di fatto, proprio della concreta fattispecie, dato dalla assunta “mancata conoscenza effettivà” (con conseguente motivazione affermata “formale”) delle ragioni dell’imposizione, per essere la stessa contenuta in un “avviso di accertamento rinviante al processo verbale di constatazione rinviante all’esito di controlli incaricati eseguiti nei confronti dei presunti clienti” (quindi “con una sorta di doppio rinvio per relationem”).

La violazione denunziata, peraltro, non sussiste neppure in ordine all’art. 7 detto perchè la norma in esso dettata (segnatamente nell’ultimo periodo del suo comma 1, per il quale “se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”) non ha affatto la latitudine pretesa dalla ricorrente.

Questa sezione (sentenza 18 dicembre 2009 n. 26683, ex multis) infatti, ha già precisato che “l’obbligo dell’amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità integrativa delle ragioni che, per l’amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, con la conseguenza che detto obbligo deve intendersi delimitato ai soli atti (“esterni”) di riferimento che siano necessari per sostenere quelle ragioni, con esclusione, quindi, degli atti irrilevanti alfine del pieno esercizio del diritto di difesa del destinatario e di quelli a contenuto normativo, noti per effetto della loro pubblicazione (Cass. n. 25371/08)”.

Il contribuente, infatti, ha “diritto di conoscere la motivazione dell’atto impositivo” (“e perciò ha sempre diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione” ) “ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti gli atti ai quali si faccia rinvio nell’atto impositivo per ciò solo che ad essi si faccia riferimento, se tale contenuto non serve ad integrare la motivazione dell’atto impositivo in quanto essa è già sufficiente (e il richiamo ad altri atti ha pertanto solo valore narrativo), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) è già riportato nell’atto noto”: “non basta pertanto che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti ai quali si faccia riferimento nell’atto impositivo, ma occorre provare che almeno una parte del contenuto di tali atti sia necessaria ad integrare la motivazione del suddetto atto impositivo e che tale parte non sia stata già riportata in tale ultimo atto”.

B.2.2. La valutazione della sussistenza e della sufficienza della “motivazione” di un atto di imposizione fiscale – come noto – involge, come per qualunque atto amministrativo, l’interpretazione dell’atto stesso in quanto è necessario ricostruire l’intento dell’amministrazione ed il potere che essa ha inteso esercitare in considerazione del suo contenuto complessivo e, se rilevante, in base al comportamento tenuto dall’amministrazione: questa interpretazione, però (Cass., trib.: 8 ottobre 2007 n. 21040; 1 ottobre 2007 n. 20649; 25 gennaio 2006 nn. 1436 e 1437; 5 dicembre 2005 n. 26389; 1 aprile 2005 n. 6870; 25 marzo 2005 n. 6504; id., Ili, 2 agosto 2004 n. 14783; id., 1^, 8 aprile 2004 n. 6942; id., lav., 16 marzo 2004 n. 5369; trib., 29 settembre 2003 n. 14482; id., 1^, 20 settembre 2003 n. 13954; id., lav., 22 agosto 2003 n. 12370; id. , 3^, 5 giugno 2001 n. 7584), costituisce un apprezzamento di fatto, di esclusiva competenza del giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità soltanto per insufficienza o contraddittorietà della motivazione della sentenza, quindi per violazione di quegli stessi canoni ermeneutici (art. 1362 c.c., e segg.) che presiedono alla interpretazione dei contatti, ovverosia per vizi che nel caso non sono stati assolutamente dedotti.

L’apprezzamento del fondamento della censura afferente all’interpretazione dell’atto di imposizione fiscale, quindi, proprio perchè pertinente al contenuto di un documento, impone alla parte che in sede di legittimità denunci l’erronea valutazione di quel documento ad opera del giudice di merito – pena l’inammissibilità del motivo di censura – di riprodurre nel ricorso (art. 366 c.p.c.), in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo (Cass.:

trib., 1 ottobre 2007 n. 20649; trib., 1 giugno 2007 n. 12884, tra molte; 3^, 10 agosto 2004 n. 15412), il documento nella sua integrità anche al fine di porre questo giudice di legittimità in condizione di valutare la rilevanza della censura stessa.

Nel caso la ricorrente non ha ottemperato a tale onere per cui la doglianza si rivela, per tale aspetto, anche inammissibile.

B.2.3. Sulla mancata “valutazione critica dei dati e degli elementi informativi … forniti dagli organi” ispettivi (lamentata nella censura) va, infine, ribadito che Cass., trib. 10 febbraio 2010 n. 2907 (che richiama la “sentenza 11 maggio 2009, n. 10680” di questa sezione nonchè “Corte di cassazione 17 giugno 2002, n. 8690 e… 26 giugno 2003, n. 10205”), tra le recenti “la motivazione degli atti di accertamento per relationem, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio”.

C. L’infondatezza delle due ulteriori censure (anche queste scrutinabili congiuntamente), poi, discende dal principio secondo cui (Cass., trib., 9 giugno 2009 n. 13211) “L’IVA relativa a fatture emesse da un fornitore solo sedicente non è detraibile” “anche se la falsità dell’operazione fatturata è soltanto soggettiva (Cass. 3550/2002)”.

Sulla specifica questione, invero, questa sezione (sentenza 11 giugno 2008 n. 15395; cfr,, anche, Cass., trib., 27 febbraio 2009 n. 4789), affermato esser indubbio (“non v’ è dubbio”) che “facendo l’inesistenza della singola operazione fatturata emergere una materia imponibile, sia pure sotto il profilo della indetraibilità dell’imposta, l’onere della prova dell’inesistenza, quale fatto costitutivo (art. 2697 cod. civ.) della pretesa fiscale, incomba sulla amministrazione finanziaria, senza alcuna eccezione (cfr., per tutte, Cass., 5A, 18710/2005, 27341/2005 e, più di recente, Cass., 5A 1325/2007, nonchè, addirittura con rito camerale, Cass., 5A, 17799/2007)”, ha evidenziato che “su un piano ben diverso si pone l’affermazione di sufficienza della “contestazione” dell’operazione, ad opera della stessa amministrazione, la quale certamente comporta l’onere, per il contribuente, di provare, in concreto, la detraibilità (in tale prospettiva si pone, fra le altre, Cast., 5A, 6341/2002 …)”: “questo differente tema”, infatti, come specificato nel prosieguo della stessa decisione, “attiene … alla documentazione dell’imposta detraibile, che è … insita nella fatturazione stessa, nonchè negli adempimenti collaterali arg.

D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 19, 25, 39, 54 (t.u. IVA), laddove, in caso di contabilità formalmente regolare, se la amministrazione contesti l’effettività dell’operazione fatturata, si assumerà l’onere di dimostrarne la non rispondenza al vero, tanto più ove si consideri che, in tale evenienza, “l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fatture” (art. 21, comma 7, del cit. Decreto IVA; tributo c.d.

“fuori conto”: cfr., per tutte, Cass., 5A, 21952/2007)”.

La medesima sentenza – (ri) affermato “ilprincipio” secondo cui, “in tema di IVA”, (1) “la fattura è documento idoneo a documentare un costo dell’impresa, come si evince chiaramente dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21 che ne disciplina il contenuto, prescrivendo tra l’altro l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale” e (2) “nella ipotesi di fatture che l’amministrazione ritenga relative ad operazioni inesistenti, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’amministrazione, che adduce la falsità del documento e quindi l’inesistenza di un maggiore imponibile, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere” (Cass., 5^A, 27341/2005 citata; v. già, con riguardo alle imposte sui redditi e, quindi, sotto il profilo della deducibilità, Cass., 1^A, 1092/1997)” -, di poi, ha perspicuamente evidenziato che, “inevitabilmente”, “la questione …

va affrontata nell’ambito delle presunzioni” (“come si apprende, del resto, dalla stessa formulazione del cit. T.U. IVA, art. 54, comma 2”) “essendo di facile apprezzamento che non è possibile, se non in via induttiva, fornire la prova della inesistenza di un fatto” con la conseguenza che “la problematica sulla ripartizione dell’onere probatorio ha trovato, nella stessa giurisprudenza di legittimità, ragioni di contrasto più apparenti che reali, in quanto la rigidità del principio di diritto di volta in volta enunciato non sempre lascia trasparire il diverso momento processuale del valore indiziario assunto, in concreto, dagli elementi offerti dall’amministrazione” per cui “una volta assurti quegli elementi, unitariamente considerati, ad effettiva valenza probatoria, viene per ciò stesso a ricadere sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni (Cass., 5A, 19109/2005, 4046/2007; nei sensi indicati, cfr. lo sforzo di ricomposizione in Cass., 5A, 21953/2007)”.

Nel caso, è agevole rilevate, giusta quanto analiticamente riportato al punto 2, che il giudice di appello ha chiaramente esposto la notevole serie di elementi di fatto (descritti per emittente) che lo hanno convinto della inesistenza (almeno soggettiva, per l’accertata inidoneità delle società emittenti a fornire il servizi e/o i beni indicati in ciascuna) delle operazioni documentate con le fatture contestate, quindi, in sostanza, del “valore indiziario assunto, in concreto, dagli elementi offerti dall’amministrazione” : a fronte di tanto, invece, la contribuente non ha neppure allegato l’omesso od il carente esame di elementi, da essa sottoposti all’esame dello stesso giudice, atti a “dimostrare V effettiva esistenza” di quelle stesse “operazioni”.

5. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese del giudizio di legittimità in quanto nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso contro il Ministero; rigetta il ricorso contro l’Agenzia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2011

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