Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7325 del 16/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 16/03/2021, (ud. 11/12/2020, dep. 16/03/2021), n.7325

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25741/2012 R.G. proposto da:

BIEMMEGI di B.M. & C. Sas, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di

procura speciale a margine del ricorso, dagli avv.ti Barone Valerio

e Napoli Maurizio, elettivamente domiciliata in Roma, via Emilia n.

88, presso lo studio dell’Avv. Vinti Stefano;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n.

12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 454/07/2011 della Commissione Tributaria

Regionale della Campania, depositata in data 21 settembre 2011;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del’11 dicembre

2020 dal Consigliere Dott. Corradini Grazia.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di una verifica fiscale in materia doganale nei confronti della BIEMMEGI di B.M. & c. Sas, la quale, con bolletta doganale (OMISSIS) del 24.3.2005, aveva effettuato, attraverso uno spedizioniere doganale con rappresentanza diretta, una importazione dichiarata di n. 1425 colli di lampade fluorescenti di origine Emirati Arabi, indicando 85393190-95 quale voce tariffaria del prodotto e scontando il dazio doganale del 2,7%, la Guardia di Finanza – Comando Compagnia di Formia, con processo verbale di constatazione prot. 3485/3391 del 20.3.2007, rilevò la falsa dichiarazione di origine della merce, che risultava essere, invece, cinese, sulla base della dichiarazione di esportazione n. 14-1-5-0297167 emessa dal Dipartimento delle Dogane di Dubai che aveva riportato nella colonna “paese di origine” la indicazione “CHINA” e del documento doganale United Arab Emirates Federal Customs Autorithy Dubai Customs che indicava analoga origine, nonchè del rilievo che le lampade risultavano prodotte dalla ditta esportatrice Yong Fa Llg per conto della Ninobo Ftz (China) e commercializzate attraverso ditte che avevano come sede un indirizzo di casella postale, indicate come exporter nella dichiarazione di esportazione emessa dal Dipartimento delle Dogane di Dubai; inoltre, in occasione di altra analoga importazione per la stessa tipologia di merce, che aveva sempre visto la Yong Fa Lig come ditta esportatrice, la Commissione Tributaria Provinciale di Latina, con sentenza n. 585/3/05, aveva accolto le ragioni della Amministrazione delle Dogane ritenendo che la predetta società non fosse presente in Dubai perchè trasferita in altra sede.

Sulla base di tali elementi l’Ufficio delle Dogane di Napoli 1 inviò a “controllo a posteriori per ragionevole dubbio” il certificato di origine e, decorsi i termini senza risposta da parte dell’Autorità estera adita, emise l’atto di contestazione di violazione di norme tributarie e di irrogazione di sanzioni amministrative n. 304/2008, notificato alla società BIEMMEGI in data 25.9.2008, con cui, ritenute le lampade di origine cinese soggette a dazio antidumping pari al 66,1% del valore imponibile, determinò una differenza di diritti pari ad Euro 38.723,80 per dazio antidumping e ad Euro 7.744,75 per IVA evasa ed in conseguenza la pari sanzione pecuniaria ai sensi del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, comma 3, (TULD), posto che la differenza fra i diritti di confine dovuti e quelli calcolati in base alla dichiarazione superava il 5%.

La società BIEMMEGI impugnò l’atto di contestazione rilevando che i certificati di origine erano stati erroneamente disconosciuti in forza di mere presunzioni “di secondo grado”, benchè fossero stati emessi sulla base di documenti regolari rilasciati dalla Camera di Commercio di Dubai che avevano evidenziato la provenienza dagli Emirati Arabi, senza che avesse rilievo la indicazione della nomenclatura e del codice Taric dei prodotti cinesi della Sanec, anche perchè era prassi per le società godere di una casella postale e che i trasporti marittimi avvenissero tramite compagnie cinesi e benchè la documentazione fosse stata ritenuta regolare dalla Guardia di Finanza di Formia e il comportamento della società BIEMMEGI fosse stato conforme ed improntato al principio della buona fede.

Con sentenza n. 223/2/2010 la Commissione Tribunale Provinciale di Napoli rigettò il ricorso sostenendo che nel caso di specie era stata rilevata l’esistenza di una “dichiarazione di esportazione emessa dal Dipartimento delle Dogane di DUBAI riportante la dicitura CHINA”, nonchè “la presenza di un collegamento con la società cinese Negomgo FTZ avente come attività la esportazione di lampade di produzione cinese” e che era rilevante anche la “assenza di risposta …. da parte delle autorità estere” alla richiesta dell’Ufficio delle Dogane (v. trascrizione parziale della motivazione della sentenza di primo grado a pag. 6 del ricorso per cassazione).

Investita dall’appello della società BIEMMEGI – che riproponeva, per quanto ancora interessa, le doglianze relative alla insussistenza di “dubbi fondati” tali da rifiutare la tariffa preferenziale, poichè la società NINGBO, a prescindere dalla mancata risposta della Camera di Commercio di Dubai, era veramente allocata in Dubai e poteva esportare prodotti con dazio ridotto, mentre la Dogana si era riportata al solo pvc della Guardia di Finanza di Formia utilizzando presunzioni gravi precise e concordanti ex art. 2729 c.c., in assenza però di qualsiasi vera prova e, d’altro canto, l’art. 303 T.U. Dogane non sanzionava le dichiarazioni relative ai certificati di origine – la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 454 del 2011, depositata in data 21 settembre 2011, rigettò l’appello e compensò fra le parti le spese, ritenendo che la motivazione della sentenza di primo grado, che aveva risposto a tutte le doglianze proposte in primo grado e che era condivisa pienamente dai giudici di appello, non fosse stata intaccata dall’atto di appello che si era limitato a riproporre le questioni presentate dalla contribuente con il ricorso introduttivo e che comunque l’avviso di irrogazione delle sanzioni, posto alla base del giudizio in esame, fosse del tutto legittimo in quanto fondato sulla verifica della Guardia di Finanza che aveva accertato come effettivamente la merce importata fosse di origine cinese, per cui non poteva usufruire della agevolazione richiesta.

Contro la sentenza di appello, non notificata, ha proposto ricorso la società BIEMMEGI, con atto consegnato all’UNEP di Napoli il 6 novembre 2012 e ricevuto dal destinatario il giorno successivo, affidato a quattro motivi.

La Agenzia delle Dogane si è costituita ritualmente con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 38 e 61 e dell’art. 118 disp. att. e art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per omessa e / o insufficiente e / o inesistente motivazione della sentenza impugnata che poteva essere ritenuta apparente posto che i giudici di appello si erano limitati a confermare la motivazione della sentenza di primo grado senza spiegare l’iter argomentativo seguito e senza esaminare e pronunciarsi sulle eccezioni dell’appellante in ordine alla applicazione delle regole del diritto comunitario ed in particolare di quelle discendenti dalla sentenza Beemsterboer della Corte di Giustizia del 9.3.2006, causa Euro 293/04, nonchè sulle contestazioni dello stesso appellante in ordine alla violazione delle regole dell’onere della prova, essendosi i giudici di appello basati su mere presunzioni e non su prove.

2. Il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 220 Codice Doganale Comunitario, da interpretare secondo le Linee Guida della Commissione Europea e dell’art. 94 del Reg. CEE n. 2454 del 1993, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione, da parte della sentenza impugnata, che aveva respinto l’appello senza considerare le eccezioni svolte dalla ricorrente, dei principi introdotti con la sentenza “Beemsterboer” della Corte di Giustizia del 9.3.2006 nella causa C-293/04, in materia di contabilizzazione a posteriori dei diritti doganali, laddove aveva sostenuto che, in linea di principio, spetta alle Autorità Doganali degli Stati Membri dell’Unione Europea, per procedere al controllo a posteriori dei dazi, qualora intendano avvalersi dell’art. 220 codice doganale, n. 2, lett. b), comma 3, fornire la prova che il rilascio dei certificati inesatti è imputabile all’inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore, per cui, nel caso di assenza di risposta da parte del Paese terzo per mancanza di elementi probatori, non si può presupporre una presentazione scorretta dei fatti da parte dell’esportatore e, quindi, non si può procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi, così come ritenuto anche dalla Agenzia delle Dogane con diversi protocolli ed in particolare con la nota n. 67734/08/RU, a meno che non venga fornita da parte della Autorità Doganale la dimostrazione della inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore ovvero del fatto che l’importatore abbia agito in mala fede o non abbia rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa vigente riguardo alla dichiarazione in Dogana: prova che non era stata fornita dalla Autorità Doganale nel caso in esame, essendo al contrario emersa la buona fede della società ricorrente, con la ulteriore conseguenza che, anche a volere ritenere provata la origine cinese delle merci, l’importatore in buona fede doveva essere esonerato dal pagamento dei dazi e delle sanzioni anche nel caso in cui il rilascio del certificato erroneo fosse ascrivibile alle dichiarazioni inesatte dell’esportatore della merce.

3. Il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione delle disposizioni in materia di presunzioni e onere della prova, avendo i giudici di merito fondato la decisione sulla non autenticità del certificato di origine sulla base di mere presunzioni prive di valore probatorio quali il presunto collegamento operato tra la società Al Sahel Import & Export, esportatore della merce con sede negli Emirati Arabi e la Yong Fa Llg PO Box 15253 di Dubau, per conto della Ningbo Klite Industrial Holding Co. Ningbo China ed un accertamento effettuato su altro contribuente dalla Dogana di Gaeta in base al quale la Commissione Tributaria Provinciale di Latina aveva respinto il ricorso e applicato il recupero dei dazi doganali in ordine al altro acquisto dalla Yong Fall Llg ritenendo la merce di origine cinese, benchè si trattasse di fatti riferibili ad altro contribuente e che non potevano avere effetto traslativo.

4. Infine, con il quarto motivo la ricorrente si duole di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303, comma 3, (TULD) e del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata ritenuto erroneamente legittima la irrogazione della sanzione di cui alla disposizione citata, benchè si riferisse esclusivamente alle violazioni concernenti le differenze di qualità, quantità e valore riscontrate sulle merci importate e non anche alle difformità riscontrate relativamente alla origine del prodotto nell’ambito del sistema delle preferenze generalizzate ed occorresse la colpevolezza della condotta che doveva escludersi in caso di condotta colpevole da parte di soggetti diversi dal responsabile che importa.

5. Il ricorso è infondato.

6. Il primo motivo presenta in primo luogo rilevanti profili di inammissibilità alla luce del principio ampiamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte per cui “il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo, ad esempio, all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge” (v. per tutte Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 10862 del 07/05/2018 Rv. 648018 – 01), come è avvenuto nel caso in esame in cui viene dedotta, come specifica censura, la omessa pronuncia su alcune eccezioni proposte, sotto il profilo della violazione di legge.

6.1. il giudizio di cassazione è infatti un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati (v. Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11603 del 14/05/2018 Rv. 648533 – 01), oltretutto dedotti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 come difetto di pronuncia e di motivazione carente o insussistente, ai sensi dell’art. 132 c.p.c.. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38 (rectius 36) del, come quelli del difetto di pronuncia e del vizio di carente o insufficiente motivazione, che peraltro il ricorrente avrebbe dovuto far valere ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21165 del 17/0912013 Rv. 628690 – 01).

6.2. In ogni caso la sentenza impugnata, la cui motivazione è stata riportata in sintesi nella parte espositiva della presente sentenza, non presenta il vizio di omessa pronuncia e tanto meno quello di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, o di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” ovvero di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” – esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, che, pacificamente non può essere dedotta come violazione degli art. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 -, poichè la decisione, per relationem, si fonda sulla condivisione, esplicita ed autonoma, delle complete argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, che sono state ritenute non specificamente contestate dai motivi di appello, qualificati come meramente ripetitivi di quanto sviluppato con i motivi del ricorso iniziale cui aveva già dato risposta esauriente il giudice di primo grado, argomentata (“vi è anche da aggiungere che”) sulla ritenuta legittimità dell’atto di contestazione impugnato in quanto basato su una verifica della Guardia di Finanza che aveva ritenuto che la merce provenisse effettivamente dalla Cina, il che consentiva di escludere che potesse usufruire della agevolazione richiesta, con conseguente assorbimento di qualsiasi altra argomentazione difensiva.

6.3. In particolare la sentenza della CTR, pur molto sintetica nella parte relativa ai “motivi della decisione”, contiene però con precisione l’indicazione dell’oggetto dell’atto sanzionatorio originariamente impugnato, la descrizione dell’iter processuale, con la indicazione precisa degli iniziali motivi di ricorso e delle difese della controparte e l’esito del giudizio di primo grado, nonchè le ragioni dell’appello proposto dalla società Biemmegi, soccombente in primo grado, pienamente confermative di quelle svolte in primo grado e quindi le ragioni della decisione sopra indicate; e ciò è sufficiente a integrare i requisiti che la sentenza deve possedere ai sensi delle norme di cui si invoca la violazione e dunque a escluderne la nullità.

L’eventuale mancata risposta ad alcune delle argomentazioni, del resto, non inficia la motivazione della decisione se non quando nel ragionamento del giudice di merito sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. Sez. 5 – Ordinanza n. 19547 del 04/08/2017 (Rv. 645292 – 01).

6.4. Non si può quindi parlare di mancanza o difetto di pronuncia sotto alcuno dei profili sopra indicati, mentre la parte, sotto il profilo della omessa pronuncia, cerca in realtà di rimettere in discussione la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operata dai giudici di merito, proponendo una diversa interpretazione delle stesse, il che è precluso in sede di legittimità. L’esame dei documenti esibiti nonchè la valutazione degli stessi e delle altre risultanze processuali, così come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono infatti apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. Cass. Sentenza n. 16056 del 02/08/2016 Rv. 641328 – 01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 29404 del 07/12/2017 Rv. 646976 – 01); così come avvenuto nel caso in esame in cui la sentenza della Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto assorbito l’esame delle altre argomentazioni svolte della appellante e peraltro già motivatamente respinte in primo grado.

7. Il secondo motivo, dedotto sempre sotto il profilo della violazione di legge, è ugualmente infondato poichè la ricorrente invoca principi giuridici che sarebbero stati introdotti con la sentenza “Beemsterboer” della Corte di Giustizia del 9.3.2006 nella causa C-293/04, in materia di contabilizzazione a posteriori dei diritti doganali, i quali però non trovano rispondenza nella detta sentenza e nella elaborazione della materia offerta da questa Corte sulla base dei principi comunitari.

7.1. In sostanza la ricorrente sostiene che il controllo a posteriori sarebbe possibile solo in caso di inesatta presentazione dei fatti da parte dell’esportatore e che comunque, anche in un tal caso, l’importatore potrebbe rispondere, per effetto della sentenza Beemsterboer della Corte di Giustizia del 9.3.2006, solo in caso di prova della sua mala fede da parte della Autorità Doganale.

7.2. In primo luogo occorre però rilevare che, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, in tema di dazi all’importazione, il certificato di origine della merce, pur se ritenuto inizialmente veritiero dall’Autorità doganale di uno Stato membro, non preclude l’esercizio di controlli “a posteriori” finalizzati a confermarne la veridicità, in quanto, alla luce del Sesto Considerando del codice doganale comunitario di cui al reg. CEE n. 2913 del 1992 (come interpretato dalla sentenza della Corte di Giustizia 15 settembre 2011, in causa C-138/10), suddetta autorità, al momento dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni in dogana, non si pronuncia sulle informazioni fornite dal dichiarante, di cui quest’ultimo si assume la responsabilità, spettando all’importatore di dare prova anche della sua buona fede (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 22647 del 11/09/2019 Rv. 655069 – 01: Fattispecie in cui la S.C. ha escluso la configurabilità, a fini esimenti, dell’errore attivo dell’autorità doganale malese che aveva rilasciato il certificato di origine di merce risultata in realtà cinese).

7.3. In tema di dazi doganali, l’accertamento “a posteriori” della falsità dei certificati d’origine della merce provenienti dall’esportatore, come avvenuto nel caso in esame in cui la sentenza impugnata confermativa di quella di primo grado ha ritenuto che fosse stata provata dalla autorità doganale la origine cinese della merce, pone quindi a carico dell’importatore l’onere di dimostrare l’origine certa della merce importata e l’esattezza delle indicazioni risultanti dai certificati, mentre grava sull’Autorità doganale, che intenda recuperare il dazio, fornire elementi idonei ad invalidare detta prova in quanto non veritiera ovvero dimostrare che il rilascio di certificati errati è imputabile all’inesatta rappresentazione dei fatti da parte dell’esportatore: se quest’ultima prova non può essere fornita per negligenza o per impedimento opposto dalla stessa ditta esportatrice, ricade sull’importatore l’onere di provare l’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore al momento della richiesta di rilascio del certificato ovvero l’errore colpevole commesso dalle autorità che hanno emesso il certificato per mancato controllo della falsità della dichiarazione della ditta esportatrice (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17945 del 04/07/2019 Rv. 654705 – 01).

7.4. In sostanza, il principio di diritto derivante dall’orientamento consolidato di questa Corte da applicare nella materia di cui si tratta, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, è quello per cui “In tema di dazi doganali, ove venga accertata la falsità dei certificati di origine della merce, le autorità devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi, salvo che l’importatore fornisca la prova delle condizioni richieste dall’art. 220 Codice doganale comunitario, par. 2, lett. b), senza che, rispetto allo stato soggettivo di buona fede, assuma rilevanza l’effettiva consapevolezza da parte dello stesso circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato, essendo, piuttosto, il debitore tenuto a dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza qualificata richiesta, in ragione dell’attività professionale di importatore svolta, ex art. 1176 c.c., comma 2, per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un esigibile controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore” (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12719 del 23/05/2018 Rv. 648776 – 01).

7.5. I principi di diritto applicabili nel caso in esame sono quindi diversi da quelli invocati dalla ricorrente poichè, in tema di tributi doganali, come precisato dalla giurisprudenza comunitaria, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore richiesto dall’art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913 de11992 (Codice doganale comunitario) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, può essere invocato solo se l’errore dell’autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicchè quando l’errore dell’Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13770 del 06/07/2016 Rv. 640617 – 01).

7.6. La suddetta elaborazione giurisprudenziale interna è poi del tutto conforme anche alle decisioni della Corte di Giustizia in tema di applicazione della esimente della buona fede in materia doganale, per cui, a fronte dell’accertata falsità dei certificati di origine della merce, l’Unione Europea non può essere tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (Corte giustizia 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos; Cass. n. 19195 del 06/09/2006; Cass. n. 14509 del 30/05/2008; Cass. n. 1583 del 03/02/2012; Cass. n. 15758 del 19/09/2012); il che rende irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo all’importatore, in considerazione dell’obbligo che grava su quest’ultimo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi” (Cass. n. 24675 del 23/11/2011). Nessun accertamento sullo stato soggettivo di diligenza e buona fede dell’importatore doveva perciò eseguire il giudice di appello, essendo la deduzione della ricorrente in proposito basata su un argomento palesemente erroneo quale quello per cui sarebbe spettato all’Agenzia delle Dogane dimostrare la mala fede dell’importatore, mentre invece l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità, senza alcuna linea dissonante e del tutto in linea con la Corte di Giustizia, afferma proprio il contrario e cioè che l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Regolamento CEE 12 ottobre 1992, n. 2913 (Codice doganale comunitario), che preclude la contabilizzazione “a posteriori” dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, può essere applicata solo qualora sia “dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perchè resti impedito il recupero daziario: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente” (v. per tutte Sez. 5, Sentenza n. 7702 del 27/03/2013 Rv. 626217 – 01; v. ancora Cass. Sez. 5, Sentenza n. 13770 del 06/07/2016 Rv. 640617 – 01), senza che, rispetto allo stato soggettivo di buona fede, assuma rilevanza l’effettiva consapevolezza da parte dello stesso circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato, essendo, piuttosto, il debitore tenuto a dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza qualificata richiesta, in ragione dell’attività professionale di importatore svolta, ex art. 1176 c.c. comma 2, per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un esigibile controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore (v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12719 del 23/05/2018 Rv. 648776 -01).

7.7. Non rileva quindi che i certificati di origine fossero stati sottoscritti dalla autorità degli Emirati Arabi e che fossero stati ritenuti inizialmente veritieri dato che le operazioni effettuate da detti uffici nell’ambito dell’accettazione iniziale delle dichiarazioni non ostano affatto all’esercizio di controlli successivi (Corte giustizia, 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV, richiamata da Corte di giustizia, 8 novembre 2012, C438/11, Lagura, in riferimento ai certificati FORM A, documenti giustificativi utili a fruire delle preferenze generalizzate unilateralmente concesse dalla UE), e ciò in quanto le prescrizioni del CDC, alla luce del suo sesto considerando (“considerando che, tenuto conto della grande importanza che il commercio esterno ha per la Comunità, occorre sopprimere o per lo meno limitare, per quanto possibile, le formalità e i controlli doganali”), vanno interpretate nel senso che “(…) al momento dell’accettazione della dichiarazione in dogana, l’autorità suddetta non si pronuncia sull’esattezza delle informazioni fornite dal dichiarante, di cui quest’ultimo sì assume la responsabilità” (Corte di giustizia, 15 settembre 2011, C-138/10, DP Group EOOD). Ne consegue, ha ribadito la Corte, che “(…) qualora un controllo a posteriori non consenta di confermare l’origine della merce, l’autorità doganale è tenuta a procedere a constatazione e rettifica (Corte giustizia 9 marzo 2006 C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV). Secondariamente, l’affermazione dell’obbligo in questione si rispecchia nel punto 57 della sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 1997, C97/95, richiamata da Cass. n. 24675 del 2011, cit., la quale espressamente paventa che, se la buona fede dell’importatore fosse capace di esentarlo comunque da responsabilità, “(…) l’importatore sarebbe indotto a non verificare più l’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell’esportatore, nè la buonafede di quest’ultimo, il che darebbe luogo ad abusi” (da ultimo v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 4059 del 12/02/2019 Rv. 652783 – 01).

7.8. Il secondo motivo di ricorso in esame, benchè lamenti la violazione, da parte delle due sentenze di merito, dei principi discendenti dalla sentenza Beemsterboer, si pone perciò in contrasto con quanto affermato dalla suddetta sentenza, per cui la buona fede dell’importatore non può essere invocata per escludere il recupero dei benefici daziari concessi nell’ambito del sistema delle preferenze generalizzate poichè le condizioni in cui il debitore è considerato in buona fede sono individuate dal citato art. 220, quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo oppure allorchè il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo che, in particolare, sia evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale. Lo stesso art. 220 cit. precisa che la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza necessaria per assicurarsi che siano state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale, ossia che sia stata dimostrata l’attivazione di tutte le cautele necessarie presso i soggetti esteri, sia operatori economici, sia uffici pubblici.

7.9. La ripartizione dell’onere della prova ha formato oggetto proprio della sentenza della Corte di giustizia CE 9 marzo 2006, n. C-293/04, Beemsterboer, invocata dalla ricorrente, per la quale incombe a colui che invochi l’art. 220 C.D.C., comma 3 n. 2, lett. b), del, fornire le prove necessarie al riconoscimento della sua pretesa. Nella specie la sentenza di appello, confermativa di quella di primo grado, ha ritenuto che fosse stata provata la origine cinese della merce sulla base dei numerosi elementi gravi e convergenti emersi in sede di verifica successiva, che avevano dimostrato che il certificato di origine non era autentico, in quanto dalla stessa dichiarazione di esportazione risultava, nella colonna “Paese di Origine” la indicazione “China”, confermata dagli altri elementi gravi e convergenti indicati in sede di verifica, per cui la responsabilità dell’operatore non poteva essere messa in discussione.

8. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.

8.1. La ricorrente ha nella sostanza lamentato, sotto il profilo della violazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3., la erronea applicazione della regola dell’onere della prova e della valutazione degli indizi, con riguardo all’accertamento in merito alla origine della merce, sostenendo che sarebbe spettato ai verificatori fornire la prova dell’origine della merce, diversa da quella dichiarata, sulla base di vere e proprie prove che non potevano consistere in indizi privi di qualsiasi valore.

8.2. In effetti, il vizio di violazione di legge può essere posto anche con riguardo alla violazione dell’art. 2697 c.c., che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01); però la ricorrente, pur avendo prospettato come motivo di ricorso la violazione delle regole sull’onere della prova e sui criteri di valutazione degli elementi presuntivi di prova e cioè la violazione della regola iuris, poi, nello sviluppare il motivo, non ha addotto che la sentenza impugnata avrebbe addossato l’onere della prova della diversa origine della merce ad una parte diversa da quella cui spettava (e cioè la Agenzia delle Dogane che non ha mai, comunque, contestato nel giudizio di essere onerata di tale prova, sostenendo invece di averla fornita in concreto attraverso gli elementi risultanti dalla verifica e dai documenti ad essa allegati, trasfusi nell’atto impugnato), bensì soltanto che gli elementi indiziari offerti dalla Agenzia a sostegno della prova della diversa origine -cinese- della merce sarebbero privi di consistenza, anche perchè integrerebbero presunzioni di cd. “secondo” o addirittura di “terzo grado”, inidonei ad offrire anche una parvenza di prova in ordine alla erroneità del certificato di origine.

8.3. Orbene – premesso che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre, viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo attraverso il vizio di motivazione (v., per tutte, Cass. 30 dicembre 2015 n. 26110 e precedenti e successive conformi) – così facendo la ricorrente si è spostata sul piano della valutazione delle prove e cioè del cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, il quale non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (risolvendosi la contestazione, in realtà, in una doglianza sull’interpretazione operata dal giudice di merito delle risultanze probatorie in giudizio perchè non condivisa e, dunque, in vista di una nuova valutazione di fatto, non consentita in sede di legittimità), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 10 giugno 2016 n. 11892); ciò comporta che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. 7 aprile 2017 n. 9097).

8.4. In ogni caso non è neppure vero che la sentenza impugnata abbia valutato soltanto i rapporti fra l’importatrice e la società cinese produttrice delle lampade, nonchè le risultanze della CTP di Latina che aveva ritenuto, in relazione ad altro importatore delle stesse lampade, che si trattasse di merce proveniente dalla Cina, bensì ha posto in luce, a pagina 1 della sentenza, ben più pregnanti elementi che dimostravano, con valutazione di merito, incensurabile in questa sede, la falsa dichiarazione di origine della merce, la quale risultava essere, invece, cinese sulla base della dichiarazione di esportazione n. 14-1-5-0297167 emessa dal Dipartimento delle Dogane di Dubai che aveva riportato nella colonna “paese di origine” la indicazione “CHINA” e del documento doganale United Arab Emirates Federal Customs Autorithy Dubai Customs che indicava analoga origine, nonchè del rilievo che le lampade risultavano prodotte dalla ditta esportatrice Yong Fa Llg per conto della Ninobo Ftz (China) e commercializzate attraverso ditte che avevano come sede un indirizzo di casella postale, indicate come exporter nella dichiarazione di esportazione emessa dal Dipartimento delle Dogane di Dubai e che inoltre anche il trasportatore era cinese e cioè una serie di elementi ben più pregnanti e convergenti rispetto a quelli che ha sottoposto a critica la ricorrente.

8.5. La sentenza impugnata, al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, ha quindi fatto corretta applicazione della regola iuris e dei principi giuridici emergenti in tema di onere della prova dalla giurisprudenza interna e della Corte di Giustizia, in effetti applicabile nel caso nel esame, ritenendo, sia pure sinteticamente, che la prova della reale origine della merce la dovesse offrire all’Ufficio e che l’Ufficio l’avesse in effetti offerta in concreto.

9. Il quarto motivo è ugualmente infondato, dovendosi dare continuità in questa sede all’orientamento consolidato di questa Corte per cui “In tema di dazi doganali, la sanzione prevista dall’art. 303 T.U. doganale, comma 1, per irregolare dichiarazione doganale relativa a “qualità, quantità e valore” delle merci, si applica anche in caso di origine non veritiera di quest’ultime, costituendo detti termini normativi un’esemplificazione dell’elemento oggettivo destinato all’importazione considerato rilevante ai fini del pagamento del tributo, di talchè nel concetto di “qualità” di una merce rientra qualsiasi caratteristica, proprietà o condizione che serva a determinarne la natura e a distinguerla da altre simili, ivi compresa l’origine o la provenienza, in quanto elementi sintomatici delle specificità del prodotto, la cui esclusione dall’oggetto della dichiarazione equivarrebbe a vanificare un tratto fondamentale del sistema daziario di matrice Eurounitaria” (v. per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 10227 del 29/05/2020 Rv. 657725 – 01; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 2169 del 25/01/2019 Rv. 652271 – 01).

9.1. Tale interpretazione si impone non solo in forza dei principi nazionali di interpretazione del diritto, quanto per la natura cogente della normativa comunitaria e delle pronunce della Corte di giustizia di materia. Ai sensi dell’art. 66 e seg. del Reg. CEE n. 2454/93 del 2.7.1993 della commissione, la comunità Europea accorda infatti preferenze tariffarie a taluni prodotti originari di paesi in via di sviluppo. In forza di tale regolamento, applicabile in tutti paesi dell’Unione Europea, i parametri in base ai quali una determinata merce viene assoggettata ai diritti di confine sono: qualità, quantità, valore e origine. Pertanto l’esatta classificazione dell’origine della merce concorre nella tassazione in maniera determinante, contribuendo a realizzare misure protezionistiche, quali l’antidumping oppure misure a sostegno delle economie dei paesi sviluppati e, in tal caso, si parla di origine preferenziale quando la norma comunitaria prevede una deroga di favore al dazio e alla fiscalità (Cass., Sez. V, 3.8.2012, n. 14030).

9.2. La possibilità di ricomprendere l’origine della merce tra le qualità che la contraddistinguono deve essere invero valutata oggettivamente, sulla base di un’interpretazione letterale e funzionale del dato normativo del tipo sopra illustrato, che prescinde dalla conoscenza o conoscibilità in astratto della provenienza; solo dopo aver sciolto in senso affermativo tale nodo e aver dunque stabilito che anche l’origine rientra tra le qualità della merce che devono formare oggetto di dichiarazione veritiera, sarà possibile valutare, caso per caso, l’elemento soggettivo dell’infrazione; a voler diversamente ritenere, anche avendo la certezza che il dichiarante conoscesse l’origine effettiva della merce, e dunque in presenza di una sua falsa dichiarazione dolosa, l’importatore e gli altri obbligati andrebbero esenti da sanzione.

9.3. La dedotta violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 è, dal suo canto, inammissibile per difetto di autosufficienza poichè la ricorrente non trascrive e tanto meno indica quando e dove avrebbe dedotto tale doglianza nel ricorso introduttivo e in grado di appello, considerato che della deduzione di tale preteso motivo non vi è traccia nella sentenza impugnata e neppure la ricorrente lo indica nel ricorso per cassazione fra i motivi di ricorso iniziale o di appello. In ogni caso, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 ritiene sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza (v., da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 2139 del 30/01/2020 (Rv. 656818 – 02)

10. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

11. Ferma restando la compensazione delle spese del giudizio di merito, già disposta dalla sentenza di appello, le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente. Poichè la notifica del ricorso per cassazione è avvenuta il 7 novembre 2012, non sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 4.100,00 oltre spese prenotate a debito

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2021

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