Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7293 del 16/03/2021

Cassazione civile sez. III, 16/03/2021, (ud. 10/11/2020, dep. 16/03/2021), n.7293

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2013/2019 R.G. proposto da:

CENTRO MATER S.R.L., in persona del suo Amministratore unico e

rappresentante legale p.t., S.N., e

S.N., rappresentati e difesi dall’Avv. GAETANO GRANOZZI, e dall’Avv.

GAETANA ALLEGRA, con domicilio eletto in Roma presso lo Studio

dell’Avv. LUIGI FIORILLO, Viale Mazzini n. 134;

– ricorrenti –

contro

A.C., rappresentato e difeso dall’Avv. GIUSEPPE MARIA F.

RAPISARDA, con domicilio eletto in Roma presso lo Studio di

quest’ultimo in Corso Trieste, n. 87;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2274/2017 della Corte d’Appello di Catania,

resa pubblica il 5 dicembre 2017.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 10 novembre

2020 dal Consigliere Dott. Marilena Gorgoni.

 

Fatto

RILEVATO

che:

A.C., proprietario di diverse unità immobiliari facenti parte di un palazzo degli inizi del secolo scorso sito in (OMISSIS), conveniva in giudizio il Centro Mater S.r.l. e S.N., rispettivamente, comodataria e proprietario del complesso residenziale limitrofo. L’attore, come risulta dalla sentenza impugnata, lamentava che S.N., il quale era divenuto comproprietario del palazzo, avendone acquistato l’ala sud, che si apriva, insieme con l’ala est e quella ovest, tra loro collegate, su una corte interna comune, alla quale si accedeva mediante due scale interne, insieme con il Centro Mater S.r.l. – di cui S.N. era amministratore unico – avesse avviato i lavori di ristrutturazione della porzione acquistata, al fine di trasformarla in una struttura alberghiera, demolendo le preesistenti strutture interne portanti, così compromettendo la staticità dell’intero edificio, alterandone il decoro architettonico, modificandone l’originario assetto volumetrico dei piani, avendo realizzato un nuovo piano, trasformato il tetto, prima spiovente e rivestito di cotto siciliano, in una terrazza d’uso esclusivo nonchè creato una botola sul tetto condominiale che aveva permesso l’infiltrazione di acqua piovana, provocando gravi lesioni e fessurazioni al palazzo ed alla bottega locata da C.A., con le vibrazioni emesse dagli escavatori.

A.C., rappresentava che, dopo aver protestato più volte con i convenuti, i quali avevano continuato i lavori senza preoccuparsi di mettere in sicurezza la struttura adiacente di sua proprietà, ed essersi rivolto ad un architetto per la quantificazione dei danni, si era rivolto al Tribunale di Catania, chiedendo, previo accertamento della responsabilità dei convenuti, di: a) condannarli in solido, al pagamento delle somme necessarie ad eseguire gli interventi indispensabili per porre rimedio ai danni alle strutture di varie parti dell’immobile ed al ristoro di tutte le voci di danno materiale e morale accertati nel corso di causa; b) dichiarare la illegittima mutatio loci e, di conseguenza, ordinare la rimozione dell’impianto di condizionamento, con ripristino dello status quo ante, mediante ricostituzione del tetto originariamente spiovente coperto da tegole di cotto siciliano; c) accertare la lesione del decoro architettonico, dell’estetica e dell’architettura generale del fabbricato e, quindi, ordinare ai convenuti il ripristino della facciata nello status quo ante; f) condannarli alle riparazioni necessarie alla messa in sicurezza dell’edificio danneggiato.

I convenuti, oltre ad eccepire la nullità della domanda per la genericità della sua formulazione, deducevano che l’ala sud del fabbricato acquistata da S.N. era distinta e separata dagli immobili dell’attore, che essa era stata concessa poi in comodato al Centro Mater, il quale aveva eseguito, nel pieno rispetto del permesso di costruire, delle autorizzazioni degli enti preposti e delle regole d’arte, gli interventi di miglioramento sismico di ristrutturazione dell’immobile per realizzarvi una struttura alberghiera quattro stelle; che l’esecuzione dei lavori di ristrutturazione aveva migliorato anzichè danneggiato la staticità ed il decoro degli immobili di A.C. o delle porzioni immobiliari in comproprietà.

Il Tribunale di Catania, con sentenza n. 1085/2012, riteneva infondate le doglianze attoree, non provato il nesso di causalità tra le opere di ristrutturazione ed i danni accertati tra quelli lamentati dall’attore; dichiarava inammissibili le domande attoree articolate per la prima volta con la comparsa conclusionale; giudicava esistente un unico fatto generatore di danni risarcibili, perchè imputabile ai lavori di ristrutturazione, ossia l’apertura di una botola in una porzione del tetto del corpo scala comune, già spontaneamente rimossa, che aveva cagionato i danni da infiltrazione riscontrati nell’appartamento di proprietà di A.C., quantificati in Euro 800,00; riteneva che responsabile delle denunciate condotte illecite fosse la società Centro Mater, unica committente ed esecutrice dei lavori di ristrutturazione di cui l’apertura della botola faceva parte, e non anche S.N..

A.C. proponeva appello avverso l’indicata sentenza.

Gli appellati si costituivano, eccependo, innanzitutto, l’inammissibilità del gravame per violazione dell’art. 342 c.p.c., l’intervenuto giudicato interno per difetto di impugnazione di taluni capi della sentenza di prime cure, e, nel merito, la infondatezza di ciascun motivo di impugnazione.

Centro Mater proponeva “anche” appello incidentale condizionato, chiedendo la riforma della sentenza nella parte in cui il giudice aveva: a) rigettato l’eccezione di nullità della domanda attorea per violazione del disposto dell’art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 3 e 4; b) posto in essere una complessa serie di accertamenti istruttori in violazione del principio dispositivo e delle norme di ripartizione dell’onere di allegazione e prova; c) ammesso CTU tecnica esplorativa in difetto di puntuale allegazione dei fatti costitutivi della domanda; d) disposto la sua condanna al risarcimento dei danni causati dalla botola realizzata sul tetto, nonostante la inesistenza di prova del nesso causale tra la realizzazione della botola e le infiltrazioni di acqua piovana riscontrate nell’immobile dell’attore; e) espresso un generico parere sulla fondatezza delle domande nuove dichiarate inammissibili, formulate da parte attrice in comparsa conclusionale.

La Corte d’Appello, con la sentenza n. 2274/2017, pubblicata il 5.12.2017, condannava S.N. e il Centro Mater, in solido tra loro, a pagare a A.C. la somma di Euro 4.600,00, a titolo di risarcimento del danno per lesioni al vano scala e agli immobili di proprietà attorea, a rimuovere il casotto posto sulla terrazza del tetto di copertura dell’ala sud dell’edificio, a ridurre in pristino il prospetto lato (OMISSIS) in conformità al suo aspetto originario risalente a prima delle variazioni non autorizzate; regolava le spese di lite.

Il Centro Mater S.r.l. e S.N. ricorrono, affidandosi a quattordici motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Catania. Resiste con controricorso A.C..

Sono state depositate memorie da entrambe le parti.

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., n. 1 e non sono state depositate conclusioni scritte da parte del PM.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Vanno in primo luogo esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso formulate dal controricorrente, il quale osserva: 1) che S.N. e il Centro Mater hanno presentato un unico ricorso per la cassazione della sentenza d’Appello, pur essendosi nei precedenti gradi di giudizio sempre costituiti autonomamente, facendo valere, rispettivamente, la posizione di proprietario e di comodatario. Non solo: il Centro Mater, e non anche S.N., aveva proposto appello incidentale condizionato ed il ricorso in esame propone motivi che riguardano questioni sollevate con l’appello incidentale condizionato, quindi, questioni che non erano state oggetto di domanda da parte di S.N.; b) che il ricorso è stato formulato senza il rispetto dei principi contenuti nel Protocollo d’intesa tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale forense.

Entrambe le eccezioni vanno disattese.

Deve ritenersi applicabile l’art. 103 c.p.c., in tema di litisconsorzio facoltativo, conseguendone l’ammissibilità della proposizione di un ricorso congiunto da parte di più soggetti, posto che esso ha prevalentemente ad oggetto identiche questioni dalla cui soluzione dipende la decisione della causa, riferibili ad entrambi ricorrenti, dei quali si invocava la responsabilità solidale, mentre, per quanto attiene alle questioni in appello devolute solo da una parte, l’esame dei motivi può tenerne conto. D’altro canto, non è stata fatta constare e non risulta allegata una situazione di possibile conflitto di interessi fra le parti ricorrenti che possa impedire che il ministero di difensore sia esercitato per entrambe.

La seconda eccezione non ha pregio, perchè il Protocollo contiene raccomandazioni per la redazione dei ricorsi, senza che l’eventuale mancato loro rispetto comporti sanzioni automatiche di inammissibilità.

2. Nella memoria ex art. 378 c.p.c. i ricorrenti eccepiscono l’inammissibilità del controricorso per violazione dell’art. 370 c.p.c., commi 1 e 2 e art. 366 c.p.c., in quanto carente di “qualsivoglia argomentazione in diritto atta a contrastare le ragioni poste a fondamento di ciascuno dei motivi di cui si compone il ricorso per cassazione ed essendo, nello specifico, privo di deduzioni giuridiche contrarie a ciascuno dei denunziati vizi di legittimità” e sprovvisto della “esposizione delle ragioni atte a dimostrare l’infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorrente”.

Si tratta, in verità, di deduzioni del tutto pretestuosamente addotte.

Deve ritenersi, invece, che il controricorso, sia per la formulazione sia per le argomentazioni sottoposte all’attenzione di questo Collegio, raggiunga il suo scopo, individuando per ogni motivo in cui si è articolato il ricorso le ragioni per cui avrebbe dovuto affermarsene l’inammissibilità e/o l’infondatezza.

3. Si può, dunque, passare allo scrutinio dei singoli motivi.

4. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la “Violazione degli artt. 324,329 e 342 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Giudicato interno sulla carenza di legittimazione passiva del proprietario dell’immobile”.

La Corte d’Appello, secondo la tesi prospettata, avrebbe errato nel ritenere coperta da giudicato solo la responsabilità risarcitoria per i danni da infiltrazione provenienti dalla botola creata nel corpo scala e nel dichiarare S.N., comunque, legittimato passivo dell’azione risarcitoria in solido con la società Centro Mater, in relazione agli ulteriori danni: domanda che il primo giudice aveva rigettato per difetto di prova del nesso di causa con la condotta illecita.

La statuizione sarebbe viziata per aver confuso la domanda giudiziale di risarcimento del danno con le voci di danno oggetto delle pretese risarcitorie e, quindi, per aver erroneamente qualificato quali domande autonome quelle relative alle singole conseguenze dannose derivanti dalla medesima condotta, contravvenendo alla giurisprudenza unanime, secondo cui le varie voci di danno non integrano una pluralità e diversità strutturale di petitum, ma ne costituiscono articolazioni o categorie interne quanto alla sua specificazione quantitativa.

Peraltro, il giudice di prime cure, secondo la prospettazione dei ricorrenti, avrebbe espressamente dichiarato che l’accertata carenza di legittimazione passiva riguardava l’intera domanda risarcitoria, nella parte in cui aveva specificato che l’unica opera generatrice di danno risarcibile faceva parte del complesso dei denunciati lavori di ristrutturazione; di tal che la statuizione di secondo grado risulterebbe errata per contrasto con il dato letterale di quella di prime cure, siccome viziate dovrebbero ritenersi le ulteriori argomentazioni poste alla base della sentenza impugnata: a) quella con cui la Corte d’Appello aveva affermato che il giudicato interno doveva ritenersi limitato al danno riconosciuto risarcibile, attesa l’assenza di un’espressa statuizione sulla legittimazione passiva in relazione alle ulteriori domande dell’attore. Il giudice a quo avrebbe omesso di considerare che la legittimazione integra una condizione dell’azione che richiede una statuizione pregiudiziale, espressa o tacita, integrante un autonomo capo di sentenza suscettibile di passaggio giudicato se non autonomamente impugnato; b) quella con cui aveva ritenuto coperta da giudicato interno solo la statuizione relativa al difetto di legittimazione passiva di S.N. riguardo ai danni derivanti dall’apertura della botola.

Il motivo è inammissibile, in quanto: a) nel riferire la parte della sentenza di primo grado che avrebbe affermato la legittimazione esclusiva del Centro Mater S.r.l., a pag. 15 non riproduce, a monte, ciò che sarebbe necessario per dare sostrato argomentativo alla prospettazione, ma si limita ad enunciare assertoriamente e senza una precisa indicazione della relativa parte della motivazione. I ricorrenti si limitano a riferire, infatti, che “peraltro, con il capo di sentenza, coperto da giudicato, il primo giudice aveva espressamente dichiarato che l’accertata carenza di legittimazione passiva aveva riguardo all’intera domanda risarcitoria (…)”; b) è pur vero che la parte così enunciata si rinviene, nel secondo motivo (pag. 20) e, peraltro, con una interruzione che rende poco comprensibile l’enunciato nella logica del motivo in esame, ma non può farsi a meno di osservare che la sua lettura non corrobora affatto l’assunto dei ricorrenti, sembrando solo esprimere una valutazione sull’esistenza dei pretesi danni; c) in ogni caso, il motivo omette di riferire come era stata impugnata la sentenza dal resistente e, dunque, rende impossibile percepire la pretesa consolidazione della sentenza di primo grado in ordine alla legittimazione.

5. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la “Violazione degli artt. 324,329 e 342 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Giudicato interno sulla interpretazione e qualificazione della domanda quale azione di risarcimento del danno art. 2043 c.c.. Subordinatamente: violazione e falsa applicazione degli artt. 99,112 c.p.c. e segg., art. 163 c.p.c., comma 2, n. 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,20512053 c.c., nonchè degli artt. 1362 c.c. e segg.”.

La Corte d’Appello avrebbe in ogni caso errato nell’affermare la legittimazione passiva di S.N., qualificando la domanda attorea quale azione ex artt. 2051 e 2053 c.c., anzichè come azione di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., perchè avrebbe disatteso la causa petendi formulata nell’atto introduttivo e si sarebbe posta in violazione del giudicato interno formatosi sul capo della sentenza di primo grado relativo all’interpretazione alla qualificazione della domanda attorea.

Il motivo è inammissibile per ragioni analoghe a quelle indicate a proposito del primo quanto al primo vizio denunciato.

Lo è quanto al secondo vizio, perchè i ricorrenti assumono che sia il resistente nella citazione sia il primo giudice avrebbero espressamente qualificato la domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c., ma si astengono dall’individuare in modo chiaro che cosa nella detta citazione e nella sentenza di primo grado esprimeva quella qualificazione. Tanto non esime dal ricordare che, se anche il primo giudice avesse qualificato la domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c., sarebbe stato pertinente il principio di diritto secondo cui “In tema di qualificazione giuridica dei fatti oggetto di controversia, quando la parte agisce prospettando condotte astrattamente compatibili con la fattispecie prevista dall’art. 2051 c.c., la loro riconduzione, operata dal giudice di primo grado, all’art. 2043 c.c., non vincola il giudice d’appello nel potere di riqualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa azionata” (Cass. 09/06/2016, n. 11805).

Parimenti i ricorrenti si astengono da una precisa e chiara individuazione dei fatti che avrebbero indicato, nella domanda e nella sentenza, la riconducibilità della vicenda alla norma dell’art. 2043 c.c. e non a quella dell’art. 2051 c.c.. Sicchè, una volta ribadito che ricondurre l’azione all’art. 2043 o all’art. 2051 c.c., è attività che il giudice può compiere senza essere vincolato alla prospettazione delle parti, se i fatti introdotti a fondamento della domanda siano riconducibili all’una o all’altra fattispecie, non resta che concludere che il motivo risulta privo di pregio (giusta il principio di diritto sopra ricordato).

Va, peraltro, considerato che la Corte d’Appello dimostra di aver correttamente affrontato la questione dell’incertezza sul contenuto della statuizione passata in giudicato, aderendo all’indirizzo di legittimità che impone, a tale scopo, di tener conto di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, oltre che della domanda proposta, sì da attribuire efficacia di giudicato solo a quella statuizione di merito che autonomamente attribuisca o neghi il bene della vita richiesto.

Ciò che nella sostanza la Corte d’Appello ha rilevato è che l’efficacia vincolante del giudicato si estende agli accertamenti di fatto che hanno costituito il presupposto per l’attribuzione del diritto risarcitorio, dovendosi considerare incontrovertibili i fatti accertati e quelli preesistenti anche se non valorizzati, ma essa non concerne le argomentazioni giuridiche sulla scorta delle quali il giudice ha deciso del diritto risarcitorio; e che essendo state oggetto di accertamento solo le conseguenze risarcitorie derivanti dall’apertura della botola, e non anche le altre domande, rigettate nel merito, e, quindi, difettose in ordine alla individuazione della parte tenuta all’adempimento, nessun giudicato poteva dirsi formato sulla relativa legittimazione passiva. La Corte territoriale ha, dunque, applicato un principio pacifico in giurisprudenza, quello secondo cui la preclusione per effetto di giudicato sostanziale può scaturire solo da una statuizione che abbia attribuito o negato “il bene della vita” preteso e non anche da una pronuncia che non contenga una statuizione al riguardo pur se risolva questioni giuridiche strumentali rispetto all’attribuzione di tale “bene” controverso. Sin dalla pronuncia n. 2734 del 25 giugno 1977, questa Corte ritiene che “quando la qualificazione giuridica dei fatti costituisce esclusivamente una premessa logica della decisione di merito e non una questione formante oggetto di una specifica ed autonoma controversia, l’oggetto della pronuncia del giudice è costituito esclusivamente dall’attribuzione (…) del bene della vita conteso, onde il giudicato si forma sull’accoglimento o sul rigetto della domanda e soltanto in via indiretta e mediata sulle premesse meramente logiche della decisione; con la conseguenza che, se viene impugnata la pronunzia sul merito, il giudice dell’impugnazione non è in alcun modo vincolato ai criteri seguiti dal primo giudice per procedere alla qualificazione giuridica dei fatti”.

Nel caso di specie, in particolare, a negare la legittimazione passiva di S.N. era stato non un accertamento di fatto, bensì un’argomentazione giuridica – costituita dalla irresponsabilità del comodante per i danni derivanti dai lavori di ristrutturazione dell’immobile eseguiti dalla comodataria – su cui non si era formato il giudicato e che per questo era stata oggetto di diversa valutazione da parte del giudice dell’impugnazione, cui l’appellante si era rivolto chiedendo la revisione pressochè totale delle statuizioni contenute nella sentenza gravata: “nessun giudicato può formarsi sulla qualificazione giuridica data dal primo giudice alla domanda, quando l’appellante, pur non contestando formalmente quella qualificazione, col suo gravame sottoponga comunque al giudice d’appello una questione tale che, per essere accolta, presuppone una qualificazione giuridica della domanda diversa da quella adottata dal primo giudice” (Cass. 17/04/2019 n. 10745; Cass. 1/08/2013 n. 18427; Cass. 7/11/2005 n. 21490). Questo principio, applicato alla materia del risarcimento del danno, comporta che quando la pronuncia sull’esistenza e sulla risarcibilità del danno civile dipenda dalla qualificazione della domanda, l’appello con cui si insista, come in questo caso, per ottenere il risarcimento del danno negato dal primo giudice rimette necessariamente in discussione anche la suddetta qualificazione ed impedisce la formazione del giudicato.

6. Con il terzo motivo il ricorrente rimprovera al giudice a quo “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) – violazione dell’art. 2051 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

La Corte d’Appello avrebbe qualificato la domanda risarcitoria diversamente rispetto al giudice di prime cure, senza valutare le eccezioni dei convenuti relative all’allegazione e prova del caso fortuito di cui all’art. 2051 c.c., per non avere A.C., durante l’intera fase esecutiva dei lavori, denunciato nessuno dei danni lamentati con l’atto introduttivo del giudizio di prime cure e per essere stato il proprietario comodante estraneo ai lavori di ristrutturazione dell’immobile di cui non aveva il possesso da quindici anni.

Il motivo è privo di pregio, in quanto il preteso fatto omesso – cioè che il resistente non avrebbe mai lamentato alcunchè durante l’esecuzione dei lavori – non spiega come e perchè avrebbe dovuto avere il significato che gli attribuiscono i ricorrenti, cioè di integrazione del caso fortuito. Al più astrattamente potrebbe trattarsi di un comportamento rilevante ai sensi dell’art. 1227 c.c., commi 1 o 2.

Tanto si rileva non senza doversi sottolineare che ciò che riferisce il motivo quanto all’introduzione del preteso fatto – peraltro, riferito solo alla comparsa di primo grado e non si sa se riproposto in appello, ai sensi dell’art. 346 c.p.c. – risultava del tutto privo, in quanto si trascrive, della deduzione della rilevanza sub specie di caso fortuito.

7. Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 99 c.p.c., art. 163 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4, art. 164 c.p.c., artt. 2058 e 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

La Corte d’Appello avrebbe erroneamente rigettato il motivo di impugnazione incidentale con cui era stata invocata la nullità dell’atto introduttivo, avendolo ritenuto esaustivo e con contenuto esplicito relativamente a tutti gli elementi necessari per individuare le ragioni e l’estensione della domanda, tant’è che era stato correttamente inteso dai convenuti che avevano apprestato difese puntuali e consone alla natura delle contestazioni dedotte (p. 14 della sentenza).

Secondo i ricorrenti, la decisione avrebbe violato l’art. 164 c.p.c., comma 4, a mente del quale la citazione è nulla se è omessa o risulta assolutamente incerta la determinazione della cosa oggetto della domanda ovvero se manca l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; segnatamente, la domanda di cui all’art. 2058 c.c., che, essendo finalizzata a ricondurre la condizione dell’immobile a quella originaria antecedente alla condotta asseritamente illecita, imponeva all’attore di allegare e provare quale fosse lo stato dei luoghi preesistente ai lavori di ristrutturazione e come esso fosse stato modificato.

Occorre, innanzitutto, osservare che la nullità invocata richiede una carenza assai grave (l’omissione, la mancanza o la assoluta incertezza, e non la semplice incertezza) ed implica necessariamente l’impossibilità di individuare detti elementi dall’esame complessivo dell’atto, ivi compresi i mezzi istruttori dedotti, nonchè dai documenti prodotti e offerti in comunicazione alla controparte (cfr. Cass. 25/11/03 n. 1741).

Il Giudice a quo ha escluso la ricorrenza di detta nullità con una motivazione adeguata che dimostra di aver tenuto conto dell’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e degli elementi ad esso allegati – allegazione dei fatti di causa, ragioni della domanda, provvedimenti richiesti, documentazione a supporto, richieste istruttorie e di CTU – e dà dimostrazione di aver vagliato l’asserita assoluta incertezza dell’oggetto in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese, prima ancora che di offrire al giudice l’immediata contezza del thema decidendum. Va pure osservato che spetta al giudice il compito di definire il contenuto e la portata delle domande avanzate dalle parti, identificando e qualificando giuridicamente i beni della vita destinati a formare oggetto del provvedimento richiesto (petitum) nonchè il complesso degli elementi della fattispecie da cui derivino le pretese dedotte in giudizio (causa petendi) e che i ricorrenti non hanno confutato di essere stati in grado di apprestare le loro difese nè hanno provato la lesione del loro diritto alla difesa: solo la dimostrazione concreta dell’obiettiva incertezza del petitum e della causa petendi o la oggettiva difficoltà, a causa di detta incertezza, di predisporre una precisa linea difensiva avrebbe potuto portare all’accoglimento della censura formulata.

Tanto non esime dal rilevare che: aa) in quanto si trascrive dell’appello incidentale a pag. 29 non si coglie affatto l’indicazione della mancanza di fatti costitutivi identificatori della domanda in relazione alla natura di diritto eterodeterminato della pretesa fatta valere, bensì solo dell’ipotetica carenza di c.d. fatti secondari, come tali non individuatori della domanda; bb) si omette l’individuazione dei termini in cui l’eccezione di nullità era stata prospettata in primo grado; cc) si trascura di considerare che, essendosi costituiti i ricorrenti in primo grado, l’ipotetica nullità avrebbe dovuto dare luogo solo ad un ordine del giudice di integrare la domanda, a norma dell’art. 164 c.p.c., comma 5: i ricorrenti non dicono di avere sollecitato un simile provvedimento.

8. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la “Nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 – Motivazione inesistente in quanto apparente e per contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili (art. 360 c.p.c., n. 4) – Violazione dell’art. 1120 c.c., comma 4 (art. 360 c.p.c., n. 3)”.

La Corte d’Appello, pur non disponendo della prova di quale fosse lo stato dei prospetti originari del palazzo dal lato di (OMISSIS) e (OMISSIS), avrebbe ordinato, sulla scorta delle CTU espletate, che avevano ritenuto innovative le opere realizzate dalla società Centro Mater, la riduzione in pristino del prospetto lato (OMISSIS) in conformità del suo progetto originario.

Secondo i ricorrenti, non essendo stata la Corte d’Appello in grado di rilevare la ricorrenza di una innovazione ai sensi dell’art. 1120 c.c., stante il difetto di conoscenza dei progetti originari, e confondendo il concetto di innovazione con quello di alterazione, con una motivazione meramente apparente e contraddittoria, avrebbe deciso a favore della richiesta di riduzione in pristino.

Il motivo è infondato.

La prima censura, quella di violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, è priva di fondamento, atteso che sostiene un’apparenza di motivazione in un passo della sentenza che fa rinvio alla C.T.U. Essendo palese che la Corte ha espresso una valutazione sulla base della C.T.U. essa può essere stata giustificata o no, ma deve escludersi che esprima una motivazione apparente. Per di più, i ricorrenti omettono di riferire il contenuto della C.T.U.: cosa che avrebbe potuto consentire loro non già di argomentare il vizio indicato in epigrafe, ma di criticare la motivazione entro i limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La seconda censura, quella di violazione dell’art. 1120 c.c., resta del tutto generica ed assertoria e sconta l’assenza di qualsiasi riferimento alla C.T.U..

Non può in aggiunta non osservarsi che la Corte d’Appello si è profusa in uno sforzo motivazionale incisivo ed efficace per prendere le distanze dalle conclusioni dell’ausiliario che aveva escluso la ricorrenza di una significativa lesione del decoro architettonico, perchè le opere nuove non avevano modificato la sagoma del fabbricato, le sue caratteristiche estetiche o i suoi elementi decorativi. Il che le era consentito, perchè una volta disposta la CTU, in applicazione del principio iudex peritus peritorum, non era vietato disattendere le argomentazioni tecniche svolte dal consulente tecnico d’ufficio nella propria relazione; tale facoltà non può essere sottratta al giudice, sia quando le argomentazioni tecniche siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca ad esse altre argomentazioni tratte da proprie personali cognizioni tecniche; l’unico onere in entrambi tali casi è quello di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto, ben potendo il giudice di merito, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, fare ricorso alle conoscenze specialistiche che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali (Cass. 21/12/2017 n. 30733). Orbene, secondo il giudice a quo, essendo l’obiettivo della tutela quello di preservare l’originaria estetica del prospetto, a prescindere dalla validità estetica delle modifiche apportate (che nel caso di specie erano state tali da riprodurre lo stile e gli argomenti decorativi originari), ogni modifica delle linee estetiche del fabbricato che concorrono ad attribuirgli una specifica identità rappresenta un’alterazione dell’identità architettonica. Il giudice è partito dalla premessa generale, secondo cui per valutare se le innovazioni incidano sul decoro architettonico occorre tener conto, volta per volta, dello stato di decoro e di equilibrio estetico preesistente all’innovazione contestata, allo scopo di non eseguire un ideale astratto di architettura (pag. 29), dell’apprezzabilità della lesione, in quanto le modifiche siano visibili, cioè si riferiscano alle linee essenziali del fabbricati che gli conferiscono una specifica fisionomia ed identità, per poi passare al caso in esame, ove tra le parti era pacifico che i prospetti del lato (OMISSIS) e (OMISSIS) non fossero mai stati in precedenza oggetto di interventi di recupero, di modifica o di miglioramento, per cui avevano mantenuto inalterata la loro identità architettonica: identità architettonica che, secondo quanto descritto nella CTU D. ed evincibile dalla documentazione fotografica allegata, risultava visibilmente modificata.

Non si vede, dunque, in quale error in iudicando sia incorso il giudice a quo per avere considerato innovazione lesiva del decoro architettonico l’alterazione delle sue linee e della sua identità. Il giudice non ha fatto che applicare la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “in materia condominiale costituisce innovazione lesiva del decoro architettonico del fabbricato condominiale, come tale vietata, non solo quella che ne alteri le linee architettoniche, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio. L’alterazione di tale decoro è integrata, quindi, da qualunque intervento che alteri in modo visibile e significativo la particolare struttura e la complessiva armonia che conferiscono all’edificio una sua propria specifica identità: Cass. 27/05/2020, n. 9957.

9. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano la “Violazione dell’art. 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), per non avere la sentenza gravata accolto l’eccezione di inammissibilità dell’appello per essere i motivi di gravame totalmente disancorati dalla decisione di prime cure e reiterativi delle difese già svolte ovvero elaboranti allegazioni e domande nuove”. Il ricorrente avrebbe dovuto indicare in modo specifico e puntuale, in rapporto a ognuna delle valutazioni recepite in sentenza, le osservazioni ed i rilievi tecnici mossi agli elaborati peritali, sì da offrire al giudice d’Appello una ricostruzione del fatto lesivo dedotto e uno sviluppo logico alternativo a quello espresso in sentenza.

Il mezzo impugnatorio, illustrato anche con la pedissequa riproposizione di plurimi motivi di appello, oltre che dell’ordinanza con cui veniva disposta la CTU e di ampi stralci delle CTU espletate, è in via gradata: a1) inammissibile, in quanto contraddice la stessa logica della deduzione di un motivo di ricorso per cassazione tendente a censurare l’esistenza di una pretesa inammissibilità di motivo di appello ai sensi dell’art. 342 c.p.c., atteso che per sostenerla ha bisogno di dedurre lungamente sulla base di atti rinvenuti aliunde; a2) infondato, perchè l’art. 342 c.p.c., impone che l’impugnazione contenga, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quello di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. Pur richiamando formalmente tale principio di diritto, a pag. 47 del ricorso, i ricorrenti dimostrano, con il contenuto delle censure formulate, di avere preteso dall’appellante, come, del resto, in qualche modo riconoscono, “uno sviluppo logico alternativo idoneo a determinare le modifiche della statuizione censurata” (in termini pag. 46).

Dalla lettura dei motivi di appello, posti in relazione con la sentenza gravata, si evincono, invece, i punti di cui si chiedeva la modifica e sono evincibili le ragioni di censura.

10. Con il settimo motivo i ricorrenti imputano alla sentenza gravata la “Violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., nonchè degli artt. 2056 e 2058 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere accolto la domanda di risarcimento in forma specifica, nonostante fosse stata abbandonata e modificata in domanda di risarcimento per equivalente, disattendendo l’eccezione di abbandono della domanda originaria di riduzione in pristino e quella di inammissibilità della domanda di risarcimento per equivalente.

La Corte d’Appello, pronunciandosi sull’eccezione qui riproposta, non solo ha ritenuto che la domanda di risarcimento per equivalente era stata introdotta da A.C. nell’atto di citazione, ribadita nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6 e riproposta con il quinto motivo d’appello – a tale scopo ha riprodotto l’atto di citazione in primo grado, siccome integrato dalla perizia stragiudiziale dell’arch. Co. – ma ha anche rilevato che, comunque, la proposizione della domanda di risarcimento in forma specifica, in sostituzione di quella per equivalente, sarebbe consentita, in considerazione del principio di cui alla sent. n. 12310/2015.

Il motivo è inammissibile, in quanto a pag. 48 si dice che il quinto motivo di appello, dal quale dovrebbe evincersi l’abbandono della domanda di riduzione in pristino a favore della nuova domanda di risarcimento danni da equivalente, sarebbe stato trascritto nell’illustrazione del motivo di ricorso precedente, ma, tornando alla lettura di esso, vi si coglie sì la trascrizione del motivo di appello, ma nulla è dato rinvenire nel senso indicato dai ricorrenti.

Premesso e ribadito “che non ha alcuna consistenza ontologica prenormativa la pretesa differenza linguistica tra “mutamento” e “modifica” da alcuni sostenuta sulla falsariga del binomio emendatio-mutatio libelli, posto che nella lingua italiana i verbi modificare e mutare (come anche, ad esempio, cambiare), utilizzati con riferimento ad una cosa, risultano sinonimi se intesi nel significato di “trasformare”, e lo sono sostanzialmente anche se intesi nel significato di “sostituire”, se non per la sfumatura che, nel caso di modifica, potrebbe trattarsi solo di una “sostituzione – mediante – trasformazione”, nel senso in cui si può dire, ad esempio, che la domanda (come modificata) sostituisce la precedente oggetto di modifica”, che non sono normativamente previsti limiti nè qualitativi nè quantitativi alle modificazioni ammesse della domanda originaria, che vietata non è l’aggiunta di una domanda nuova a quella originaria, anche se incida sul petitum e causa petendi, ma solo la sostituzione della domanda originaria, se ne trae la seguente conclusione: la Corte d’Appello evidentemente ha per una svista affermato che la “sostituzione della domanda originaria di risarcimento in forma specifica con quella per equivalente integrerebbe, semmai, l’ipotesi di una mera emendatio consentita”, tant’è vero che non solo invoca l’applicazione della sent. n. 12310/2015, ma prosegue, affermando che A.C., con l’originario atto introduttivo, “ha inteso chiedere, oltre alla riduzione in pristino, il risarcimento per equivalente (…) pertanto, la domanda di risarcimento per equivalente è stata introdotta… nel grado precedente, in uno alla tutela reale del ripristino dello stato preesistente”.

Il che nella sostanza dimostra che la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 12310/2015 e successive decisioni conformi), sicchè le censure di parte ricorrente, peraltro, non del tutto idonee a mettere a fuoco la ratio decidendi della sentenza impugnata, non meritano accoglimento.

11. Con l’ottavo motivo i ricorrenti deducono la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 1120 c.c., comma 4, anche in rapporto agli artt. 2043 c.c. e segg.”, per avere la Corte territoriale ritenuto ricorrente la lesione del decoro architettonico dell’edificio, pur avendo accertato l’assenza di pregiudizio economico.

Il motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha accolto la domanda di riduzione in pristino a fronte dell’accertata lesione del decoro architettonico, ma ha negato che A.C. avesse diritto a percepire a tale titolo il risarcimento del danno per equivalente, non essendo stato dimostrato il deprezzamento del bene che rappresenta, rispetto al danno estetico, una conseguenza pregiudizievole ulteriore che deve provarsi, “ritenendosi altrimenti interamente soddisfatto attraverso la condanna al risarcimento in forma specifica” (pag. 34). Tale decisione oltre ad essere stata adeguatamente motivata, è stata supportata con il richiamo di pertinenti pronunce di questa Corte, di cui la decisione impugnata ha fatto corretta applicazione.

12. Con il nono motivo i ricorrenti assumono la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115,163 e 191 c.p.c., nonchè degli artt. 2056 e 2058 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere ammesso una CTU meramente esplorativa.

Il motivo – riferibile solo alla società – è inammissibile, non avendo i ricorrenti fatto constare di avere sollevato tempestivamente nella loro prima difesa l’eccezione di pretesa nullità della C.T.U., oltre che infondato.

I ricorrenti omettono di considerare che la Corte d’Appello ha ritenuto che, nel caso di specie, l’accertamento dei fatti richiedeva l’impiego di un sapere tecnico qualificato e che, pertanto, spettava al giudice decidere se ammettere o meno la CTU. Tale statuizione risulta in sintonia con il costante orientamento di questa Corte, la quale, relativamente alla CTU percipiente, è ferma nel convincimento che il giudice del merito non possa non disporla ove i fatti cui si riferisce siano stati allegati, imputando eventualmente alla parte onerata della prova il mancato assolvimento di detto onere, perchè violerebbe la legge processuale (Cass. 30/06/2011, n. 14402 e successiva giurisprudenza conforme).

13. Con il decimo motivo i ricorrenti lamentano la “Violazione degli artt. 115,157,194 e 213 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere il giudice a quo ritenuto legittima l’acquisizione, nel corso delle operazioni peritali, di documenti non prodotti nè fatti oggetto di ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., ad opera dell’attore, e nemmeno rientranti nella nozione di atti e documenti della P.A. acquisibili ex art. 213 c.p.c..

La censura non si confronta con la sentenza impugnata che alle pagine 1516, ha fornito più che esaustive argomentazioni a sostegno della decisione assunta, le quali non vengono specificamente criticate.

In ogni caso, si osserva che il motivo di appello incidentale si sarebbe dovuto esaminare solo se ed in quanto in sede di precisazione delle conclusioni di primo grado la ricorrente avesse mantenuto le sue peraltro non meglio esplicitate eccezioni avverso i provvedimenti del primo giudice, sicchè il motivo di appello avrebbe, in mancanza, dovuto dirsi inammissibile e la motivazione avrebbe dovuto correggersi.

14. Con l’undicesimo motivo i ricorrenti deducono la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,163,183,342 e 345 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione degli artt. 1117,1120,1122 e 1123 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, atteso che, non essendovi nessun rapporto condominiale tra i beni di cui le parti sono proprietarie, la Corte d’Appello non avrebbe dovuto accogliere la domanda di risarcimento del danno in forma specifica per lesione del decoro architettonico, condannandoli alla rimozione del casotto posto sulla terrazza dell’ala sud dell’edificio ed alla riduzione in pristino del prospetto lato (OMISSIS) in conformità al suo aspetto originario.

Il motivo è inammissibile, in quanto, dopo avere indicato nell’intestazione come violate una serie di norme processuali e, quindi, con una seconda censura una serie di norme sostanziali, omette di svolgere nell’illustrazione una chiara e percepibile attività di denuncia della loro violazione, svolgendo invece considerazioni basate su emergenze fattuali e, dunque, rivelando la sua vera natura di doglianza volta a dolersi della ricostruzione delle quaestiones facti.

15. Con il dodicesimo motivo i ricorrenti invocano la “Nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Motivazione apparente (art. 360 c.p.c., n. 4)”, per avere accolto parzialmente la domanda di risarcimento del danno in forma specifica dissentendo, senza motivazione, dalle univoche conclusioni delle due C.T.U. espletate.

Il motivo è inaccoglibile, perchè non ha la struttura argomentativa della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, giacchè pretende di denunciarla procedendo all’esame di una serie di risultanze dell’istruzione e, dunque, di elementi rinvenuti aliunde rispetto alla motivazione, così rivelandosi nuovamente evidente la sollecitazione ad un riesame della ricostruzione della quaestio facti del tutto al di fuori dei limiti di cui al, peraltro nemmeno invocato, dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

16. Con il tredicesimo motivo i ricorrenti deducono l'”Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5)”, per avere omesso il giudice a quo l’esame degli accertamenti tecnici posti alla base delle univoche conclusioni delle CTU, attesane la natura percipiente, che avevano indotto il giudice di prime cure a disattendere la domanda attorea per difetto di prova del nesso di causa tra gli interventi eseguiti ed i danni lamentati; non solo: il giudice a quo sarebbe pervenuto ad una conclusione diversa rispetto a quella del Tribunale, esercitando un inesistente potere inquisitorio, avrebbe dovuto invece dichiarare inammissibile ex art. 342 c.p.c., l’impugnazione; nè avrebbe dovuto porre le denunciate infiltrazioni e fessurazioni in nesso di relazione causale con i lavori di ristrutturazione, perchè, attraverso l’applicazione del canone del più probabile che non, sarebbero risultati preponderanti rispetto all’evento altri fattori causali antecedenti.

Il motivo sfugge alla logica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè nemmeno indica i fatti omessi, ma svolge una serie di argomentazioni sulle risultanze istruttorie tecniche e ne sollecita l’apprezzamento per criticare la sentenza impugnata, così collocandosi del tutto al di fuori dei limiti del detto paradigma siccome indicati dalle Sezioni Unite nelle sentenze nn. 8053 e 8054 del 7/04/2014.

Ne segue la sua inammissibilità.

17. Con il quattordicesimo nonchè ultimo motivo i ricorrenti lamentano la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., degli artt. 2043, 1223 e 2056 c.c. – Violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)”, per avere ritenuto sussistenti le fessurazioni ed i distacchi registrati nelle porzioni private di proprietà esclusiva dell’appellante e nel corpo scala comune, nonostante l’appello non contenesse alcun collegamento con la decisione di prime cure, confutata esclusivamente invocando l’esercizio di poteri inquisitori da parte del giudice.

A parte la singolarità di dedurre nel contempo un vizio ai sensi dell’art. 342 c.p.c. e un vizio di violazione di norme sostanziali e delle norme degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto al primo risulta del tutto generico e per il resto si risolve nuovamente in una sollecitazione a rivalutare la quaestio facti, posto che la violazione delle ultime due norme non è dedotta secondo i criteri indicati da Cass. 10/06/2016, n. 11892, il cui principio di diritto è stato ribadito, in motivazione non massimata, da Cass. Sez. Un., n. 16598 del 4/08/2016: “la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre”.

18. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

19. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

20. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico dei ricorrenti l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 8.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2021

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