Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7280 del 16/03/2021

Cassazione civile sez. III, 16/03/2021, (ud. 14/10/2020, dep. 16/03/2021), n.7280

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15635/2018 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in VELLETRI, VIA XXIV

MAGGIO, 36, presso lo studio dell’Avvocato RAFFAELLA DORIGO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CONI SERVIZI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VALERIO

PUBLICOLA, 67, presso lo studio dell’Avvocato FEDERICA CAVALIERI,

che la rappresenta e difende;

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, ASSOCIAZIONE SPORTIVA DILETTANTISTICA G

B.;

– intimati –

nonchè da:

CONI SERVIZI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VALERIO

PUBLICOLA, 67, presso lo studio dell’Avvocato FEDERICA CAVALIERI,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente incidentale –

e contro

T.G. MINISTERO DELL’INTERNO, ASSOCIAZIONE SPORTIVA

DILETTANTISTICA G. B.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 7183/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. T.G. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 7183/17, del 15 novembre 2017, della Corte di Appello di Roma, che – accogliendo solo parzialmente il gravame dallo stesso esperito avverso la sentenza n. 1785/10, del 3 settembre 2010, del Tribunale di Roma – mentre ha confermato la condanna dell’odierno ricorrente al rilascio, in favore della società Coni Servizi S.p.a., di un immobile occupato “sine titulo”, ha rigettato, invece, la domanda di risarcimento danni da occupazione illegittima (in tale parte, dunque, risultando accolto l’appello proposto dal T.).

2. In punto di fatto, il ricorrente riferisce di essere stato convenuto in giudizio – unitamente al Ministero dell’Interno dalla predetta società, la quale, sul presupposto di essere proprietaria dell’immobile oggetto di causa (sito nel Comune di (OMISSIS) di un edificio realizzato su area demaniale, e precisamente, del patrimonio disponibile dello Stato), ne chiedeva il rilascio, per essere lo stesso occupato da esso T. “sine titulo”, con condanna dei convenuti anche al risarcimento del danno da occupazione illegittima.

Costituitosi in giudizio il T., che chiedeva il rigetto delle domande, non senza previamente formulare eccezione di difetto di legittimazione attiva, e costituitosi, altresì, il Ministero, l’adito Tribunale le accoglieva integralmente (peraltro, quella risarcitoria solo nei riguardi dell’odierno ricorrente), con decisione riformata dal giudice di appello – su gravame del T. – soltanto in relazione alla disposta condanna risarcitoria.

3. Avverso la pronuncia della Corte capitolina ricorre per cassazione il T., sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – è denunciata omessa valutazione di fatti storici decisivi risultanti dagli atti di causa.

Il ricorrente evidenzia come la società Coni Service, nell’agire in giudizio, si fosse dichiarata proprietaria dell’immobile, chiedendo a tale titolo il rilascio dello stesso.

Nondimeno, la Corte territoriale – confermando la pronuncia di accoglimento della domanda “de qua” – avrebbe omesso di valutare come “dalla documentazione depositata in atti risultava chiaramente che la Coni Service S.p.a. non poteva essere proprietaria del bene in questione, posto che lo stesso risulta appartenere al patrimonio disponibile dello Stato”, come evidenzierebbero la sentenza del Tar (del Lazio, n.d.r.) n. 7528 del 2013, la nota n. 4675 del 23 febbraio 2001 dell’Agenzia del Demanio e la nota del CONI del 10 aprile 1998, non essendo l’immobile “de quo” – denominato “(OMISSIS)” – ricompreso tra i beni di proprietà della predetta società ai sensi della L. n. 178 del 2002 (o meglio, del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, convertito nella L. 7 agosto 2002, n. 178). In particolare, non essendo il CONI – nei cui rapporti attivi e passivi è subentrata la società già attrice – nel possesso dell’immobile in questione, lo stesso non si è, evidentemente, trasmesso alla predetta società.

Assume, difatti, il ricorrente che la concessione edilizia dell’edificio nel quale si trova l’immobile in questione non venne rilasciata – nel 1969 – in favore del CONI, ma del Gruppo Sportivo VV.FF. G. B. (oggi Associazione Sportiva Vigile del Fuoco G. B.), della quale esso T. è stato, ed è, il Presidente. D’altra parte, la stessa determinazione della Regione Lazio del 2007 (con la quale veniva data in concessione, alla predetta associazione, l’area su cui l’edificio insiste), sebbene annullata dal TAR con la sentenza suddetta, attesta che, nel 2007, la società Coni Service non solo non era proprietaria, ma neppure aveva il possesso dell’area in questione.

Infine, a prescindere dalle conclusioni a cui è pervenuto il CTU, non vi sarebbe in atti alcun documento attestante la proprietà dell’immobile in capo al CONI e, di riflesso, alla società Coni Servizi.

Orbene, avendo la Corte territoriale ignorato tali elementi documentali, essa sarebbe incorsa nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4) – si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 2055 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., oltre che invalidità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c. e art. 156 c.p.c., comma 2, sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazione in relazione a fatto discusso e decisivo.

Premesso che la sentenza impugnata ha qualificato l’oggetto del giudizio come “occupazione “sine titulo” di immobile e pagamento di indennità”, il ricorrente richiama l’arresto delle Sezioni Unite secondo cui l’iniziativa con cui l’attore chieda di dichiarare abusiva ed illegittima l’occupazione di un immobile di sua proprietà da parte del convenuto, con conseguente condanna dello stesso al rilascio del bene ed al risarcimento dei danni, senza ricollegare la propria pretesa al venir meno di un negozio giuridico, deve qualificarsi come azione di rivendicazione, nella specie, invece, non esperita (Cass. Sez. Un., sent. 28 marzo 2014, n. 7305).

Nè, d’altra parte, quella proposta dalla società Coni Service potrebbe qualificarsi come azione tesa a produrre un effetto restitutorio, “sub specie” di risarcimento in forma specifica, ex art. 2058 c.c., della lesione della situazione possessoria ad essa spettante, perchè ciò equivarrebbe a “surrogare” un’azione di spoglio ormai impraticabile per il decorso del suo termine di decadenza.

La Corte territoriale, dunque, avrebbe qualificato “in modo erroneo, illogico e contraddittorio” l’azione esperita come restitutoria (e non di rivendicazione), incorrendo, così, anche in vizio motivazionale.

4. La società Coni Servizi S.p.a. ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza, nonchè svolgendo ricorso incidentale.

4.1. In punto di fatto, rammenta di aver agito per il rilascio del bene nei confronti del T., nonchè per la condanna dello stesso e del Ministero dell’Interno al risarcimento dei danni. Iniziativa, questa seconda, assunta sul presupposto che l’edificio in cui risulta inserito l’immobile oggetto di causa era stato concesso in uso per lungo tempo al Ministero, nonchè dallo stesso restituito – dopo averlo adibito ad attività di addestramento nautico del personale dei Vigili del Fuoco – in data (OMISSIS), ad eccezione dell’alloggio occupato dal T., in relazione al quale il predetto Ministero si era reso inadempiente rispetto all’impegno, assunto con il verbale di riconsegna, di promuovere azioni legali avverso l’occupante senza titolo.

Accolta integralmente la domanda dal primo giudice (con condanna al risarcimento comminata a carico del solo T.), quello di appello – come detto – confermava la condanna al rilascio del bene, ma non pure quella risarcitoria.

Ciò premesso, la controricorrente eccepisce l’inammissibilità dell’avversaria impugnazione ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), non avendo il ricorrente effettuato alcuna ricostruzione della vicenda processuale, nè indicato il contenuto del provvedimento impugnato e, ancor prima, dell’atto di appello. D’altra parte, il motivo sarebbe nuovamente inammissibile, mirando a censurare la valutazione delle risultanze istruttorie. Quanto poi, in particolare, alla censura che investe il recepimento, da parte della sentenza impugnata, delle conclusioni del CTU, la controricorrente richiama il principio secondo cui, in tale caso, è necessario – ai fini dell’autosufficienza del motivo – che la parte alleghi di aver svolto critiche alla consulenza innanzi al giudice “a quo”, trascrivendone i punti salienti (Cass. Sez. 6-3, ord. 7 febbraio 2018, n. 2894).

In ogni caso, i motivi di ricorso risulterebbero non fondati, posto che il CTU, nel giudizio di primo grado, ha ripercorso la vicenda oggetto di giudizio con specifica e dettagliata indicazione dei documenti dei quali si lamenta l’omesso esame. Dagli stessi risulta evidente che il CONI, a prescindere dal titolo di proprietà, fin dagli anni 60 ha gestito l’intera area posto lungo la sponda occidentale del lago di (OMISSIS), utilizzandola per fini istituzionali e in particolare per realizzare le strutture e attrezzature dell’allora “(OMISSIS)”, in occasione delle olimpiadi di Roma del 1960. In particolare, dalla consulenza è emerso che le aree del centro sportivo – di cui è parte l’immobile oggetto di causa – erano di proprietà del Ministero dei Lavori Pubblici, al CONI spettando, invece, la proprietà superficiaria e il possesso delle stesse, tanto bastando, pertanto, per fondare la legittimazione dell’odierna controricorrente.

La documentazione in atti conferma, inoltre, l’esistenza dell’occupazione abusiva, e ciò anche in ragione del fatto che le Scuole Centrali Antincendio Gruppo Sportivo “G. B.”, articolazione della Direzione Generale della Protezione Servizi Antincendi, diretta espressione del Ministero degli Interni, nulla hanno a che fare con il Gruppo Sportivo Vigile del Fuoco G. B., presieduto dal T., che è mera associazione sportiva di natura privatistica, tanto che l’azione dalla stessa promossa sull’immobile per cui è causa è risultata respinta dal Tribunale di Tivoli, con sentenza n. 165 del 2002, passata in giudicato.

Infondata, d’altra parte, sarebbe pure la censura relativa alla supposta errata qualificazione giuridica dell’azione, se è vero che, proprio il citato arresto delle Sezioni Unite, ha escluso che il destinatario di un’azione personale di restituzione possa mutarne la natura, contrastandola con eccezioni e domande riconvenzionali di carattere petitorio.

4.2. Quanto al ricorso incidentale, esso denuncia – con un unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c. e degli artt. 1362 e 1363 c.c..

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, modificando la decisione del primo giudice, ha escluso la condanna del T. al risarcimento dei danni da occupazione illegittima.

Invero, come il giudice di prime cure, anche la Corte di Appello avrebbe potuto fare ricorso al criterio equitativo per la liquidazione del danno, dando rilievo alla circostanza che la mancata disponibilità del bene ha determinato l’impossibilità di ricavare non il valore locativo (trattandosi di immobile sito all’interno di un centro olimpico federale), bensì un’utilità potenzialmente ricavabile.

La sentenza impugnata avrebbe errato nell’escludere che fosse stata data la prova del danno, da ritenere, invece, insita nella mancata possibilità di sfruttamento ed utilizzo del bene.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. In via preliminare, va disposta la riunione delle impugnazioni, che nella specie è obbligatoria, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto esse investono lo stesso provvedimento (Cass. Sez. Un., sent. 23 gennaio 2013, n. 1521, Rv. 624792-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 5, sent. 30 ottobre 2018, n. 27550, Rv. 651065-01).

6. Ciò premesso, il ricorso principale è inammissibile.

6.1. Tale esito si impone in ragione, innanzitutto, della mancata osservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), recando il ricorso un’esposizione assolutamente carente dei fatti oggetto del giudizio, tanto che solo la lettura del controricorso e della sentenza impugnata ha reso la completa comprensione degli stessi.

Invero, è stato già affermato da questa Corte come il requisito costituito dalla esposizione sommaria dei fatti di causa, ponendosi quale specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione idonea garantire al giudice di legittimità “di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia ed oggetto di impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata” (Cass. Sez. Un., sent. 18 maggio 2006, n. 11653, Rv. 588760-01). Peraltro, va qui ribadito che la prescrizione di tale requisito “risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato” (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2003 n. 2602, Rv. 560622-01). Di conseguenza, perchè possa ritenersi soddisfatto il requisito “de quo” occorre che il ricorso per cassazione rechi “l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione

giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito” (Cass. Sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015, n. 1926, Rv. 634266-01).

Resta, infine, inteso che detto requisito “deve essere assolto necessariamente con il ricorso e non può essere ricavato da altri atti,, quali la sentenza impugnata o il controricorso, perchè la causa di inammissibilità non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo, peraltro, riferibile ad un unico atto” (Cass. Sez. 6-3, ord. 22 settembre 2016, n. 18623, Rv. 642617-01).

6.2. Inammissibili, in ogni caso, risultano anche i singoli motivi in cui si articola il ricorso principale.

6.2.1. In particolare, l’inammissibilità del primo motivo discende da una pluralità di ragioni.

Innanzitutto, perchè la denuncia di “omesso esame” non è conforme al requisito di ammissibilità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), visto che il ricorrente non si doveva limitare a dedurre quale fossero i “fatti” omessi, e la loro “decisività”, ma anche (ciò che non risulta avvenuto) il “dato”, testuale o extratestuale, da cui essi risultino esistenti, e soprattutto il “come” e il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale (cfr., Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01).

Ma vi è di più, la censura di “omesso esame” investe una pluralità di circostanze (o meglio, di risultanze istruttorie) che, nella loro ampiezza ed eterogeneità, non possono ricondursi alla nozione di “fatto” decisivo di cui alla norma testè menzionata. Invero, come è già stato affermato, nitidamente, da questa Corte, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (come “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) “è evidente l’inammissibilità di censure, come quelle attualmente prospettate dal ricorrente, che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01).

Analogamente, del resto, anche le Sezioni Unite hanno di recente ribadito l’inammissibilità di censure “che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” – quest’ultima essendo l’ipotesi rilevante nel caso che occupa – “miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (da ultimo, Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476, Rv. 656492-03).

6.2.2. Anche il secondo motivo del ricorso principale – con il quale il T. deduce che l’azione esercitata dalla società Coni Service sarebbe quella di cui art. 948 c.c., esperita, tuttavia, senza che l’attrice abbia soddisfatto l’onere di provare la proprietà del bene rivendicato – è inammissibile.

Il tema dell’errata qualificazione dell’azione – e della conseguente violazione della norma suddetta – appare posto, per la prima volta, solo in questa sede. Difatti, la questione relativa alla natura di “vindicatio rei” (e non di mera “restituzione”) dell’azione esperita dalla società Coni Service risulta nuova rispetto all’oggetto del giudizio di appello, come ricostruito dalla sentenza impugnata, attestando la stessa che il motivo di gravame relativo al difetto di legittimazione della società Coni Service – o forse, meglio, di titolarità dal lato attivo del rapporto controverso, secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 16 febbraio 2016, n. 2951) – riguardò, soltanto, l’assenza di titoli di “immissione nel possesso a favore del CONI”. D’altra parte, la società Coni Servizi, nel proprio atto di ricorso e controricorso incidentale afferma di essere titolare della sola proprietà superficiaria dell’immobile oggetto di causa.

Ne consegue, dunque, che il tema del giudizio di appello, per come ricostruito dalla sentenza impugnata, risulta essere stato quello relativo all’esistenza – o meno – di un titolo che potesse giustificare l’iniziativa attorea sotto forma di accertamento del mancato adempimento, da parte del T., di un obbligo di ritrasferire il bene, secondo il modello individuato dalle Sezioni Unite di questa Corte per distinguere l’azione di restituzione da quella di rivendicazione (il riferimento è, naturalmente, a Cass. Sez., Un., sent. 28 marzo 2014, n. 7305).

Trova, dunque, applicazione il principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (Cass. Sez. 2, ord. 24 gennaio 2019, n. 2038, Rv. 652251-02).

Anche sotto questo profilo, dunque, il ricorso del T. sconta una carenza descrittiva, relativa, in questo caso, al contenuto del proprio atto di gravame, e dunque rilevante, in questo caso, ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), (cfr., tra le più recenti, Cass. Sez. 2, sent. 9 agosto 2018, n. 20694, Rv. 650009-01; Cass. Sez. 6-1, ord. 13 giugno 2018, n. 15430, Rv. 649332-01).

Nè, d’altra parte, ad un esito differente potrebbe condurre la possibilità del rilievo officioso della carenza di titolarità del rapporto, trattandosi, comunque, di questione che attiene “al merito della causa, alla fondatezza della domanda”, sicchè essa, come ogni questione di merito, è configurabile in Cassazione entro i “limiti propri del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato”. E tra i limiti propri del giudizio di Cassazione le Sezioni Unite di questa Corte individuano anche “eventuali preclusioni maturate per l’allegazione e la prova di fatti impeditivi, modificativi od estintivi della titolarità del diritto non rilevabili dagli atti”. (cfr. Cass. Sez. Un., sent. n. 2951 del 2016, cit.).

7. Il ricorso incidentale, per parte propria, va rigettato.

7.1. Il solo motivo in cui si articola, infatti, non è fondato.

7.1.1. La sentenza impugnata ha ritenuto non provata l’esistenza del danno da occupazione “sine titulo”, sicchè tanto basta ad escludere la fondatezza della doglianza proposta dalla ricorrente incidentale, secondo cui il giudice di appello avrebbe potuto liquidare il danno in via equitativa.

Sul punto, occorre muovere dalla constatazione che, sebbene non manchino pronunce che ritengono “damnum in re ipsa” quello da occupazione abusiva di immobile (Cass. Sez. 3, sent. 9 agosto 2016, 16670, Rv. 641485-01; Cass. Sez. 2, ord. 6 agosto 2018, n. 20545, Rv. 649998-01; Cass. Sez. 6-2, ord. 28 agosto 2018, n. 21239, Rv. 650352-01), questo collegio ritiene, invece, che “nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto” (Cass. Sez. 3, sent. 25 maggio 2017, n. 13071. Rv. 648709-01; nello stesso senso, anteriormente, Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15111, Rv. 626875-01, nonchè, successivamente, Cass. Sez. 3, ord. 4 dicembre 2018, n. 31233, Rv. 651942-01).

Non è, dunque, escluso il ricorso alla prova per presunzioni (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 5 ottobre 2020, n. 21272, Rv. 659368-01), giacchè esse “costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione”, spettando, pertanto, “al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 15111 del 2013, cit.).

In difetto, dunque, di prova, anche presuntiva, della volontà di mettere il bene a frutto (anche in modo diverso dalla sua locazione a terzi), e dunque dell’esistenza del danno, non può richiamarsi – come fatto, invece, dalla ricorrente incidentale – la possibilità della liquidazione secondo equità, visto che “l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa; esso, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno” (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 22 febbraio 2018, n. 4310, Rv. 647811-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 30 luglio 2020, n. 16344, Rv. 658986-01).

8. Le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra le parti, in ragione della loro reciproca soccombenza.

9. A carico del ricorrente principale e della ricorrente incidentale sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello spettante per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di Adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2021

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