Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7279 del 30/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 30/03/2011, (ud. 23/02/2011, dep. 30/03/2011), n.7279

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, rappresentata e difesa

dall’avvocato SIGILLO’ VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

C.M.C., elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA TARQUINIA 5/d presso lo studio degli avvocati RIOMMI MAURIZIO

E MICHELI CARLO (studio Avv. FALLA TRELLA MARIA LUISA), che la

rappresentano e difendono, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 582/2006 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 30/11/2006 R.G.N. 430/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega SIGILLO’ VINCENZO;

uditi gli Avvocati RIOMMI MAURIZIO, MICHELI CARLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 13 – 17 aprile 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede con tre motivi, la cassazione della sentenza depositata il 30 novembre 2006 e notificata il 13 febbraio 2007, con la quale la Corte d’appello di Perugia ha confermato la decisione di primo grado, di condanna della societa’, a seguito dell’accertamento della nullita’ del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 cosi’ come integrato dall’accordo 25 settembre 1997, “per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi ed in attuazione del progressivo completo equilibrio sul territorio delle risorse umane” – al contratto di lavoro intercorso con C.M.C. decorrente dal 5 ottobre 1998, a risarcire alla lavoratrice il danno, rapportato alle retribuzioni perdute, modificando unicamente la data di decorrenza di queste ultime nel 16 gennaio 2003.

In particolare, la ricorrente deduce:

– la violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 c.c. e segg. nonche’ il vizio di motivazione nella interpretazione dell’accordo del 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994 e dei successivi verbali di intesa sindacale;

– il vizio di motivazione per avere omesso di motivare in ordine alla deduzione dell’aliunde perceptum;

– violazione di norme di diritto e vizio di motivazione per avere condannato la societa’ al risarcimento dei danni dall’atto di messa in mora, nonostante la mancata prova del danno e nonostante che le retribuzioni non siano dovute senza controprestazione.

Alle domande della societa’ ha resistito con controricorso la lavoratrice.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso e’ infondato.

Quanto al primo motivo, si rileva che i giudici di merito hanno intatti individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 ha operato una sorta di “delega in bianco” alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive puo’ essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063).

Nel caso in esame, come ricordato anche dalla ricorrente, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo del l’art. 8, 2 comma del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione e’ affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessita’ che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimita’ dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo e’ stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un piu’ diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volonta’ delle parti;

– e’ comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziche’ in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresi’ corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volonta’ delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilita’ del rapporto si era gia’ perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi e’ ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedelta’ ai propri precedenti, sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimita’ della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della resistente per la causale indicata, in quanto stipulati successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Gli altri due motivi di ricorso sono inammissibili.

Quanto al primo, va anzitutto rilevato che la societa’, in violazione della regola della autosufficienza del ricorso per cassazione, non indica in quale momento dell’appello abbia formulato la deduzione relativa all’aliunde perceptum. Inoltre il motivo in questione oscilla tra una censura di omesso esame della eccezione e una di insufficiente argomentazione della sentenza sul punto e pertanto e’ generico.

Infine, ambedue i motivi concludono con la formulazione di quesiti non pertinenti rispetto alla materia del contendere.

Nel primo caso si tratta di un motivo relativo alla pretesa violazione di una regola iuris riconducibile all’art. 2697 cod. civ. in materia di aliunde perceptum, che secondo la societa’ non potrebbe che essere da lei dedotto genericamente. Dovrebbe essere invece onere del lavoratore dimostrare di non essere stato occupato nel periodo in questione, producendo il modello 740 o Unico etc. Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

“Dica la Corte se, nel caso di oggettiva difficolta’ della parte ad acquisire precisa conoscenza degli elementi sui quali fondare la prova a supporto delle proprie domande ed eccezioni — e segnatamente per la prova dell’aliunte perceptum — il giudice debba valutare le richieste probatorie con minor rigore rispetto all’ordinario, ammettendole ogni volta che le stesse possano comunque raggiungere un risultato utile ai fini della certezza processuale e rigettandole (con apposita motivazione) solo quando gli elementi somministrati dal richiedente risultino invece insufficienti ai fini dell’espediente richiesto”.

Tale quesito e’ in buona parte estraneo alle argomentazioni sviluppate con motivo cui si riferisce e comunque e’ del tutto astratto, senza alcun riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato. Il che comporta, a norma dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile al presente giudizio ratione temporis, l’inammissibilita’ del relativo motivo.

Nell’altro caso, la societa’ sostiene, con un motivo relativo alla violazione di norme di diritto e ad un vizio di motivazione, che la situazione di mora accipiendi non e’ intergrata dalla domanda di annullamento del preteso licenziamento illegittimo e tantomeno dalla istanza pregiudiziale di tentativo obbligatorio di conciliazione pregiudiziale.

Il motivo conclude col seguente quesito di diritto: “Dica la …

Corte se, attesa la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro ed in applicazione del principio generale di effettivita’ e di corrispettivita’ delle prestazioni, sia dovuta o meno l’erogazione del trattamento retributivo pur in assenza di attivita’ lavorativa e se tale erogazione abbia natura retributiva o risarcitoria.”.

In questo caso sia il motivo che il relativo quesito sono non pertinenti rispetto alla concreta fattispecie esaminata, in cui i giudici di appello, richiamando la giurisprudenza di questa Corte in ordine al danno dovuto in caso di mora accipiendi del datore di lavoro, hanno concretamente individuato nella lettera raccomandata del 16 gennaio 2003 l’atto con cui la lavoratrice aveva inutilmente offerto la propria prestazione, ai sensi dell’art. 1217 c.c. Le censure svolte col motivo non investono tale accertamento e il relativo quesito di diritto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito.

Da cio’ la valutazione di inammissibilita’ del secondo e del terzo motivo di ricorso.

Infine, non puo’ tenersi conto nel presente giudizio, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullita’ della clausola appositiva del termine, dello ius superveniens rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

“Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennita’ omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori gia’ occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennita’ fissata dal comma 5 e’ ridotto alla meta’.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennita’ di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.”.

A prescindere, infatti, dall’esame delle possibili obiezioni in ordine alla problematica relativa alla possibilita’ di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va qui ribadito, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimita’ lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimita’, il cui perimetro e’ limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr.

Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In tale contesto, e’ altresi’ necessario che il motivo o i motivi di ricorso che investono, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistenti, siano altresi’ ammissibili.

In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullita’ del termine, che essi non siano tardivi o generici o comunque inammissibili alla stregua della disciplina processuale loro propria.

In caso di assenza o di inammissibilita’ di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell’accertata nullita’ del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilita’ delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Premessi tali principi di diritto, si rileva che nel caso in esame i motivi di ricorso che investono il tema cui potrebbe essere riferibile, secondo la prospettazione della ricorrente, la disciplina di cui alla L. n. 183 del 1910, art. 32, commi 5, 6 e 7 sono gli ultimi due ed essi sono stati qui ritenuti inammissibili per le ragioni esposte nella relativa sede.

Da qui la valutazione di inapplicabilita’ nel presente giudizio dello ius superveniens indicato.

Concludendo, alla luce delle considerazioni svolte, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese, come operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 28,00 per esborsi ed Euro 2.500,00, oltre spese generali, IVA e CPA, per onorari.

Cosi’ deciso in Roma, il 23 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2011

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