Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7270 del 30/03/2011

Cassazione civile sez. II, 30/03/2011, (ud. 24/02/2011, dep. 30/03/2011), n.7270

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

TARGET SRL IN PERSONA DEL SUO RAPPRESENTANTE LEGALE M.M.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. GONFALONIERI 5, presso lo

studio dell’avvocato MANZI ANDREA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato VOLPE FRANCESCO;

– ricorrente –

contro

CCIAA PADOVA IN PERSONA DEL PRESIDENTE PRO TEMPORE GR.UFF. C.

G. E DEL SEGRETARIO GENERALE DOTT. S.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso lo

studio dell’avvocato COGLITORE EMANUELE, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato TESTA MARIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2716/20031 del TRIBUNALE di PADOVA, depositata

il 28/05/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/02/2011 dal Consigliere Dott. LUIGI PICCIALLI;

udito l’Avvocato Manzi Andrea difensore della ricorrente che si

riporta agli atti;

udito l’Avv. Coglitore Emanuele difensore della resistente che si

riporta agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per manifesta infondatezza e

la condanna alle spese.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La società TARGET s.r.l, opponente avverso l’ordinanza – ingiunzione in data 23.7.02, con la quale la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Padova gli aveva irrogato, in solito con il suo legale rappresentante M.M., sanzioni pecuniarie per complessivi Euro 4.918.986,00, per illeciti amministrativi commessi nella stipulazione di n. 4542 contratti, in violazione delle prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 50 del 1992, art. 11, comma 1 (capo 1) e artt. 2250 e 2627 cod. civ. (capo 2, consistito nell’omessa indicazione nei suddetti contratti del capitale sociale), a seguito della sentenza in data 23.12.03 – 27.5.04, con la quale l’adito Tribunale di Padova, dichiaratosi incompetente per materia quanto agli illeciti di cui al primo capo, ha respinto l’opposizione relativa a quelli di cui al secondo, ha proposto, relativamente a tale rigetto, ricorso per cassazione su due motivi. Ha resistito la Camera di Commercio con controricorso.

All’esito della discussione in pubblica udienza, ritiene la Corte che entrambi i motivi non meritino accoglimento.

Con il primo, deducente violazione e falsa applicazione degli artt. 2250 e 2506 c.c. ed omessa motivazione, il ricorrente ribadisce la tesi secondo cui avrebbe dovuto essere irrogata una sola sanzione in relazione ai fatti contestati, che a suo avviso avrebbero integrato un’unica violazione, e non applicarsi il criterio del cumulo, seguito dall’autorità amministrativa e confermato dal giudice, con riferimento a ciascuno dei contratti carenti dell’indicazione. Le argomentazioni al riguardo esposte, deducenti, con richiamo testuale al precetto normativo, l’unitarietà del comportamento sanzionato, sono palesemente inconsistenti. La circostanza che l’art. 2250 c.c. prescriva dette indicazioni “negli atti e nella corrispondenza”, non è di alcun apporto, ma anzi smentisce la tesi sostenuta, poichè, tenuto conto della ratio della disposizione, che come è stato ben evidenziato dal primo giudice, va individuata nell’esigenza (derivante da obblighi comunitari) di mettere in condizione i clienti di conoscerei fini dell’affidabilità – della contrattazione, la consistenza patrimoniale della controparte, comporta che l’elemento oggettivo dell’illecito si realizzi ogni qual volta venga stipulato un contratto, sulla base di atti provenienti dall’operatore commerciale o da questo predispostici quale sia stata omessa l’indicazione de qua.

In altri termini la condotta sanzionata non va individuata, come opina il ricorrente, nella predisposizione unitaria e generalizzata di stampati ed atti ai fini di una serie indeterminata di contrattazioni, che in quanto tale, se non seguita dall’uscita degli stessi dalla sfera dell’impresa, resterebbe irrilevante, bensì nell’utilizzazione singola di ciascuno degli stessi, di volta in volta adoperato nelle operazioni commerciali, concretante la consumazione dell’illecito.

E poichè nella disciplina dell’illecito amministrativo non sussiste, come si desume dalla L. n. 689 del 1981, art. 8 che, al comma 1, prevede la diversa ipotesi del concorso formale, eterogeneo o omogeneo (ricorrente quando le diverse violazioni siano commesse con unica azione o omissione, nella specie non configurabile), ed al secondo, eccezionalmente, quello della continuazione, limitatamente alle violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, una disciplina del tutto analoga a quella dettata dall’art. 81 c.p., correttamente il giudice di merito ha confermato l’operato cumulo materiale della sanzione corrispondente alla somma di quelle previste per ciascuno degli illeciti consumati, disattendendo la richiesta di cumulo giuridico.

Manifestamente infondata è poi l’eccezione di illegittimità costituzionale, subordinatamente formulata nel mezzo d’impugnazione.

Al riguardo va considerato, quanto al riferimento all’art. 3 Cost., che l’irragionevolezza del trattamento sanzionatorio viene dedotta, del tutto genericamente, e che comunque non sussiste alcuna possibilità di raffronto con discipline comparabili a quella in considerazione, tali non potendo essere quella dei fatti penalmente rilevanti, nè quella relativa alle, sopra citate, violazioni in materia assistenziale e previdenziale, il cui trattamento differenziato, attesa l’oggettiva diversità delle situazioni, risponde a scelte legislative insindacabili.

Quanto al criterio della “proporzionalità” della sanzione, che si assume violato, si osserva che lo stesso deve essere considerato con riferimento a ciascuna ipotesi d’illecito e non ad una serie, per quanto omogenea, di violazioni commesse in tempi diversi.

Palesemente inconferente, poi, è il riferimento all’art. 27 Cost.

attenendo i principi ivi contenuti (personalità della pena, finalità rieducative, presunzione di innocenza, etc.) alla responsabilità penale.

Non miglior sorte merita il secondo motivo, con il quale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2256 e 2506 c.c., della L. n. 689 del 1981, art. 1 ed omessa motivazione, per avere il giudice di merito, erroneamente ed in violazione del principio di legalità e tipicità dell’illecito amministrativo, considerato lo stesso consumato con la mera predisposizione di stampati, che nelle singole contrattazioni sarebbero stati utilizzati soltanto dai sottoscriventi clienti, e non anche dalla società; sicchè non avrebbe potuto essere ritenuto che le contestate omissioni fossero incorse in “atti e corrispondenza” della società, come richiesto dalla norma precettiva. L’infondatezza della censura è palese, poichè la provenienza dei moduli dalla società, ancorchè non preventivamente sottoscritti, ma comunque utilizzati in ciascuna contrattazione dagli operatori o rappresentanti della stessa e messi a disposizioni dei clienti, per raccoglierne le relative proposte e, poi, prenderne conoscenza ed accettarle per facta concludentia, con la relativa esecuzione, è incontroversa. Realizzandosi il contratto con la formazione del consenso in ordine alle pattuizioni contenute nei moduli in questione, dall’impresa predisposti e concretamente utilizzati con le suddette modalità, risulta evidente come detti documenti, sottoscritti o meno che fossero dall’impresa societaria, integrassero “atti” dalla stessa utilizzati nelle operazioni commerciali (e, non a caso, conservati e rinvenuti dai verbalizzanti) e, pertanto, rilevanti ai fini della materialità dell’illecito, consistente nell’omessa indicazione dei dati prescritti in tali documenti.

Il ricorso va, conclusivamente, respinto, con condanna del ricorrente alle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della resi stenterei le spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 9.000, 00 di cui 200, 00 per esborsi.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2011

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