Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7267 del 30/03/2011

Cassazione civile sez. II, 30/03/2011, (ud. 09/02/2011, dep. 30/03/2011), n.7267

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.W. (OMISSIS), TO.WI.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE DON

MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato MARTUCCELLI CARLO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LEUZZI GIUSEPPE;

– ricorrenti –

contro

D.M. (OMISSIS) quale erede di B.A.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 395, presso lo studio

dell’avvocato DE VINCENTIIS RESTA MARCO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato CARDELLO GUIDO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 909/2004 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 08/06/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO CORRENTI;

udito l’Avvocato DONATELLO FUMIA con delega dell’avvocato CARLO

MARTUCCELLI difensore dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento

del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

LETTIERI Nicola che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 13 settembre 1994 B.A. conveniva davanti al Tribunale di Asti To.Wi. e W. assumendo che il di lei defunto marito P.T.. con atto in notaio Girino di Asti del 26.10.1976, aveva venduto ai predetti, con contestuale vincolo di inedificabilita’ assunto verso il comune di Asti dai compratori, una serie di appezzamenti di terreno agricolo, per complessivi mq. 54.390. censiti nel c.t. della citta’, riacquistandoli, quindi, immediatamente con scrittura privata di pari data – della quale veniva prodotta copia fotostatica – recante la clausola della traduzione in atto pubblico a spese dei T., non appena questi avessero ottenuto dal comune l’abitabilita’ di un fabbricato da erigersi da parte degli stessi T., su altro terreno in localita’ (OMISSIS); la condizione, secondo l’attrice, si era avverata ma i T. avevano rifiutato di addivenire all’atto pubblico; di qui la domanda (impropriamente formulata) di dichiarazione di ritrasferimento della proprieta’ dei predetti fondi sulla base della scrittura o, in subordine, di accertamento della simulazione della vendita di cui al rogito, con gli stessi effetti sostanziali. I convenuti chiedevano il rigetto delle domande e sostenevano che la scrittura era stata risolta e distrutta.

Con sentenza 15.1.2000 il Tribunale respingeva le domande e compensava le spese. Proponeva appello l’attrice, che depositava documenti, resisteva controparte e la Corte di appello di Torino, con sentenza n. 909/2004, in riforma, dichiarava che in forza del rogito e della scrittura di pari data B.A. vedova P. era proprietaria dei terreni indicati nel rogito e condannava i T. alle spese. Cio’ sul presupposto che la scrittura privata dovesse intendersi riconosciuta e che le convenzioni tra le parti portassero alla conclusione indicata.

Ricorrono i T. con tre motivi, illustrati da memoria, resiste D.M. quale erede di B.A., come da testamento allegato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo si deduce insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 214, 216 c.p.c. e dell’art 2719 c.c. circa la validita’ ed efficacia del disconoscimento delta copia della scrittura versata in atti.

La Corte di appello sostiene che il Tribunale ha erroneamente omesso di considerare la validita’ ed efficacia della scrittura, limitandosi a ritenere non verificata una condizione sospensiva ivi contenuta quando invece il giudizio sulla esistenza e validita’ della scrittura sarebbe prodromico a tale valutazione, in quanto, in caso di inefficacia della scrittura, sarebbe superfluo l’esame delle clausole. Detto cio’ la Corte afferma che parte T. non avrebbe compiuto un valido disconoscimento della scrittura perche’ in sede di costituzione ha dedotto che “la scrittura privata cui allude controparte e’ stata risolta dal dante causa della B.” di fatto riconoscendo il documento, senza attribuire rilevanza alla frase “viene sin da ora formalmente disconosciuto” ed escludendo l’applicabilita’ dell’art. 2719 c.c.. Tale motivazione viene ritenuta non condivisibile ed errata.

Col secondo motivo si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione all’art. 1414 c.c. non apparendo condivisibile il ragionamento della Corte di appello quando sentenzia che lo scopo della vendita era esclusivamente quello di far conseguire ai T. una certa cubatura al fine di erigere una costruzione su di un loro terreno in (OMISSIS). Molto piu’ logica appariva la decisione di primo grado.

Col terzo motivo si lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli artt. 1353 e 1359 c.c. in relazione al fatto che la sentenza della Corte di appello non ritiene esistente alcuna condizione sospensiva nel contratto tra le parti contenuto nella scrittura privata e, qualora la stessa esistesse, si sarebbe avverata ex art. 1359 c.c.. Osserva questa Corte Suprema:

A prescindere dalla contestuale deduzione di vizi di motivazione e di violazione di legge, in contrasto con la necessaria specificazione del motivo (Cass. 25.11.2008 n. 28066) , in relazione al primo motivo la Corte di appello, sul presupposto che la difesa dei convenuti, solo con la memoria 11.7.1995, un anno dopo la comparsa di risposta, aveva sostenuto che sull’originale del documento, il quale dopo sarebbe stato distrutto dal dante causa dell’attrice, sarebbe stata apposta una clausola in forza della quale il contratto doveva intendersi risolto, ha escluso l’applicabilita’ dell’art. 2719 (secondo cui le copie hanno la stessa efficacia delle autentiche, se la loro conformita’ non e’ espressamente disconosciute) stante il riconoscimento espresso iniziale anche della conformita’ della copia all’originale, aggiungendo che la prova della risoluzione e della distruzione spettava ai convenuti ma non era stata neppure offerta.

Quanto agli altri motivi, la Corte di appello e’ pervenuta alla decisione impugnata sulla scorta di attivita’ interpretativa delle convenzioni, con la conseguenza che andava formulata rituale impugnazione in relazione ai criteri ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c..

Ne consegue che i ricorrenti avrebbero dovuto prospettare ogni questione al riguardo, anzi tutto, in relazione all’attivita’ ermeneutica posta in essere dal giudice a qua, relativamente a ciascuno degli atti presi in considerazione nella motivazione della sentenza, con puntuale riferimento ai singoli criteri legali d’ermeneutica contrattuale, e solo successivamente, una volta idoneamente dimostrato l’errore nel quale fosse eventualmente incorso al riguardo il detto giudice, avrebbero potuto procedere ad un’utile prospettazione delle ulteriori questioni d’erronea od inesatta applicazione d’altre norme ed istituti, dacche’ la disamina di tali questioni presuppone l’intervenuto accertamento dell’errore sull’interpretazione della volonta’ negoziale delle plurime parti alle quali e’ fatto riferimento in ricorso, e non puo’, pertanto, aver luogo ove manchi siffatto previo accertamento d’un vizio che inficerebbe, sul punto, ab origine l’impugnata pronunzia, costituendo tale interpretazione il presupposto logico – giuridico delle conclusioni alle quali il giudice del merito e’ pervenuto poi sulla base di essa (Cass. 21.7.03 n. 11343, 30.5.03 n. 8809, 28.8.02 n. 12596).

E’ ben vero che i ricorrenti hanno inteso in qualche modo censurare la valutazione degli atti de quibus effettuata dal giudice a qua ed hanno, all’uopo, svolto argomenti in senso contrario, tuttavia, quand’anche vi si volesse ravvisare una. se pure irrituale, denunzia d’errore interpretativo, questa sarebbe, comunque, inidoneamente formulata ed insuscettibile d’accoglimento.

L’opera dell’interprete, infatti, mirando a determinare una realta’ storica ed obiettiva, qual e’ la volonta’ delle parti espressa ne contratto, e’ tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimita’ soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c. e segg., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solo, come gia’ visto, fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma e’ tenuto, altresi’, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilita’ del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non puo’ essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non e’ consentito in sede di legittimita’ (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).

Ne’ puo’ utilmente invocarsi, come sembra dai ricorrenti, la mancata considerazione del comportamento delle parti.

Ad ulteriore specificazione del posto principio generale d’ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, il legislatore ha, inoltre, attribuito, nell’ambito della stessa prima categoria, assorbente rilevanza al criterio indicato nell’art. 1362 c.c., comma 1 – eventualmente integrato da quello posto dal successivo art. 1363 c.c. per il caso di concorrenza d’una pluralita’ di clausole nella determinazione del pattuito – onde, qualora il giudice del merito abbia ritenuto il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti, eventualmente confrontato con la ratio complessiva d’una pluralita’ di clausole, idoneo a rivelare con chiarezza ed univocita’ la comune volonta’ degli stessi, cosicche’ non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti – cio’ che e’ stato fatto nella specie dalla corte territoriale, con considerazioni sintetiche ma esaustive – detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2 che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione (Cass. 4.8.00 n. 10250, 18.7.00 n. 9438, 19.5.00 n. 6482, 11.8.99 n. 8590, 23.11.98 n. 11878, 23.2.98 n. 1940, 26.6.97 n. 5715, 16.6.97 n. 5389); non senza considerare, altresi’, come detto comportamento, ove trattisi d’interpretare, come nella specie, atti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non possa, in ogni caso, evidenziare una formazione del consenso a di fuori dell’atto scritto medesimo (Cass. 20.6.00 n. 7416, 21.6.99 n. 6214, 20.6.95 n. 6201, 11.4.92 n. 4474).

E’, inoltre, necessario rilevare, sia pur solo ad abundantiam, come nel motivo in esame, con il quale s’imputa di fatto alla corte territoriale l’erronea interpretazione di piu’ interconnesse convenzioni intervenute tra le parti, non siano ritualmente riportati i testi delle stesse, la correttezza o meno della cui interpretazione si richiede a questa Corte di valutare, cio’ che costituisce un’ulteriore ragione d’inammissibilita’ del motivo, giacche’, in violazione dell’espresso disposto dell’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, non vi si riportano proprio quegli elementi di fatto in considerazione dei quali la richiesta valutazione, sia della conformita’ a diritto dell’interpretazione operatane dalla corte territoriale, sia della coerenza e sufficienza delle argomentazioni motivazionali sviluppate a sostegno della detta interpretazione, avrebbe dovuto essere effettuata, in tal guisa non ponendosi il giudice di legittimita’ in condizione di svolgere il suo compito istituzionale (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.2.04 n. 2394, 5.9.03 n. 13012, 6.6.03 n. 9079, 24.7.01 n. 10041, 19.3.01 n. 3912. 30.8.00 n. 11408, 13.9.99 n. 9734, 29.1.99 n. 802); non senza considerare, altresi’, come l’impossibilita’ di rapportare le svolte censure in tema d’interpretazione della volonta’ negoziale delle parti all’esatto dato testuale nel quale quella volonta’ si e’ tradotta, ovviamente non surrogabile dalla lettura soggettiva datane dalla parte, comporti anche una violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4 sotto il diverso profilo del difetto di specificita’ del motivo. In mancanza, dunque, d’un’adeguata impugnazione, nei sensi indicati, dei giudizi espressi dalla corte territoriale in ordine agli atti ed ai rapporti con gli stessi regolati, resta ineccepibile il consequenziale riconoscimento da parte dello stesso giudice della ricorrenza nella specie del presupposto di fatto legittimante la riforma della prima decisione, giudizio operato in conformita’ ai fondamentali criteri legali d’interpretazione dettati dall’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, e nell’ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito, a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune da censure ipotizzabili in forza dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente e’ inidonea a determinare le conseguenze previste dalle norme stesse.

Quanto, poi, al vizio di motivazione, denunziato in tutti i motivi, devesi considerare come la censura con la quale alla sentenza impugnata s’imputino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 debba essere intesa a far valere, a pena d’inammissibilita’ comminata dall’art. 366 c.p.c., n. 4 in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicita’ nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilita’ razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non puo’, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non si puo’ con essa proporre un preteso migliore e piu’ appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalita’ di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa;

diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’e’, appunto, per quello in esame – in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalita’ del giudizio di legittimita’.

Ne’ puo’ imputarsi al detto giudice d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacche’ ne’ l’una ne’ l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti – come e’ dato, appunto, rilevare nel caso di specie – da un esame logico e coerente di quelle.

Tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per se’ sole idonee e sufficienti a giustificarlo; in altri termini, perche’ sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.

Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, ne’ nel loro complesso ne’ nelle singole considerazioni, a censurare le rationes decidendi dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensi’ a supportare una generica contestazione con una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a quo e piu’ rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, cio’ che non soddisfa affatto alla prescrizione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto si traduce nella prospettazione d’un’istanza di revisione il cui oggetto e’ estraneo all’ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimita’, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni, traducendosi, peraltro, nella mera preferenza per la decisione di primo grado.

Donde il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese, liquidate in Euro 1700,00 di cui 1500,00 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2011

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