Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7224 del 04/03/2022

Cassazione civile sez. VI, 04/03/2022, (ud. 03/12/2021, dep. 04/03/2022), n.7224

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9474-2021 proposto da:

ENTE ASSISTENZIALE EDUCATIVO “MADRE DI DIO”, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato RENATO MACRO,

rappresentato e difeso dagli avvocati GIOVANNI FRANZESE, GIUSEPPE

MURGESE;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI SAN FERDINANDO DI PUGLIA, in persona del Sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CICERONE 28 SCALA C.

INT 3, presso lo studio dell’avvocato PIETRO DI BENEDETTO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1420/2020 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 30/07/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 03/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE

GRASSO.

 

Fatto

CONSIDERATO

che il Collegio condivide i rilievi di cui appresso, formulati dal relatore in seno alla proposta:

“ritenuto che la vicenda qui al vaglio può riassumersi nei termini seguenti:

– l’Ente Assistenziale educativo “Madre di Dio” agì in giudizio nei confronti del Comune di San Ferdinando di Puglia per essere dichiarata proprietaria per usucapione di un complesso immobiliare;

– il Tribunale disattese la domanda, nel mentre la Corte d’appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, l’accolse;

– la Cassazione, con l’ordinanza n. 27921 /2018, accolse entrambi i motivi del ricorso proposto dal Comune, il quale aveva, con la prima censura, lamentato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1140,1141 e 2697 c.c., erroneità della sentenza per illogicità ed inadeguatezza della motivazione. Omesso ed insufficiente esame della questione riguardante l’assenza delle condizioni dell’interversio possessionis. Contraddittorietà della motivazione” e con la seconda, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Motivazione contraddittoria”;

– questi i passaggi salienti e di rilievo della decisione:

(a) “l’art. 1141 c.c., non consente al detentore di trasformarsi in possessore mediante una sua interna determinazione di volontà, ma richiede, per il mutamento del titolo, o l’intervento di ‘una causa proveniente da un terzo, per tale dovendosi intendere qualsiasi atto di tra ferimento del diritto idoneo a legittimare il possesso, indipendentemente dalla perfezione, validità, efficacia dell’atto medesimo (compresa l’ipotesi di acquisto da parte del titolare solo apparente), oppure l’opposizione del detentore contro il possessore, opposizione che può aver luogo sia giudizialmente che extragiudizialmente (…) Tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e, quindi, tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua (Cass. 15-3-2010 n. 6237; Cass. 29-1-2009 n. 2392; Cass. 1-7-2004 n. 12007; Cass. 17-4-2002 n. 5487; 12-5-1999 n. 4701; Cass. 29-10-1999 n. 12149).

(b) Nel caso in esame, la Corte di Appello, ha disatteso questi principi. Intanto (la Corte distrettuale) non ha tenuto conto che il protrarsi, anche a lungo, del godimento del bene, nonostante la scadenza del termine di durata del rapporto contrattuale attributivo della detenzione stessa, l’inerzia del proprietario nel richiedere la restituzione della cosa, la mera esternazione – fatta a persone diverse dal possessore del considerarsi proprietario del bene, sono circostanze inidonee, tanto ad escludere l’operatività della norma dell’art. 1141 c.c., comma 2 (in base alla quale, come già si è detto, chi ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso, finché il titolo non sia mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore), quanto a configurare un’opposizione al possessore.

(c) La Corte distrettuale, a sua volta, ha erroneamente riconosciuto valenza di atto di interversione all’attività di edificazione posta in essere dall’Ente sull’immobile di cui è causa, non tenendo conto che l’attività di cui si dice, era stata autorizzata e concessa dal Comune di San Ferdinando di Puglia, cioè, dal proprietario del bene di cui si dice.

L’interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di sole attività materiali, se esse manifestano in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (Cass. n. 5419 del 2011; Cass. n. 1296 del 2010). Non par dubbio, pertanto, che, in via generale ed astratta, l’edificazione di un fabbricato su un terreno ricevuto in detenzione possa manifestare la volontà di comportarsi come proprietario, costituendo l’estrinsecazione di una facoltà tipica del diritto dominicale. Tuttavia, perché l’attività edificatoria possa valere come atto di interversio è necessario che sia attività autonoma e autonomamente decisa dal detentore e non risulti sia stata autorizzata dal proprietario, neppure, in modo tacito. (…)

(d) Ne’ può assurgere a prova dell’asserita interversione, la circostanza che, nella ricevuta di pagamento dell’imposta di consumo rilasciata dal soggetto concessionario del servizio di riscossione l’Ente veniva indicato come proprietario dovendo considerare che ai sensi del TUFL n. 1175 del 1931, tenuto al pagamento dell’imposta di consumo (sui materiali di costruzioni) è il soggetto che utilizza materiali e, comunque, che l’interversio non può essere considerata la conseguenza di una intestazione e/o del pagamento di una qualunque bolletta (..)

(e) è l’Ente appellante a dover dimostrare l’esistenza dei presupposti per l’usucapione. Il Comune ha esercitato le proprie prerogative domenicali destinando l’immobile (parte di esso) a scuola e anche a centro per la riabilitazione motoria, senza alcuna opposizione o contestazione da parte dell’Ente detentore.

Come ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (Cass. n. 14593 del 2011): la presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto, a norma dell’art. 1141 c.c., non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario d’apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario possessore. In tal caso, per la trasformazione della detenzione in possesso occorre un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario possessore, quale, ad esempio, l’arbitrario rifiuto della restituzione del bene; non sono, pertanto, sufficienti atti corrispondenti all’esercizio del possesso, che di per sé denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene”;

– la Corte d’appello di Bari in sede di rinvio ha rigettato l’impugnazione e confermato la sentenza di primo grado, esponendo, in sintesi, che il bene era stato concesso in custodia all’appellante dal Comune, con delib. consiliare del 1953; la controparte non aveva dimostrato di aver tramutato la detenzione in possesso, tanto che il concedente aveva nel tempo, adibito varie parti dell’edificio a scuole e centro di riabilitazione, senza che l’appellante fosse insorta adducendo il proprio possesso sul complesso immobiliare in sua custodia; il contratto di comodato stipulato dalle suore con un terzo non poteva assumere rilievo poiché non portato a conoscenza del Comune; il pagamento dell’imposta di consumo, per le ragioni spiccicate dalla Cassazione, era irrilevante; la manutenzione e parziale riedificazione erano state assentite dal Comune;

– l’insoddisfatto appellante ricorre sulla base di due correlate censure /ulteriormente illustrate da memoria) e l’intimato resiste con controricorso.

Diritto

OSSERVA

1. Il ricorrente denuncia:

– con il primo motivo, violazione degli artt. 115,116,132 c.p.c., dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 384,392 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5; violazione dell’art. 1362 e ss. c.c., degli artt. 1141,1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5;

– con il secondo, osmotico motivo, violazione dell’art. 1141 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, degli artt. 115, 116, 132 c.p.c., e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5; violazione e falsa applicazione degli artt. 384,392 e 394 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5;

– lamenta, in sintesi, che la decisione resa in sede di rinvio era incorsa nel vi zio di omessa motivazione sul “concetto di custodia”, avendo reso motivazione solo apparente; non aveva fatto corretta applicazione delle norme regolanti il giudizio di rinvio, che avrebbe richiesto, in ragione del “decisum” in sede di legittimità, “nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quelli la cui acquisizione si renda necessaria in virtù delle direttive espresse dalla Corte di cassazione”, avendo la determinazione di legittimità portata vincolante esclusivamente in relazione all’enunciazione riguardante la interpretazione della legge; non aveva considerato che con la comparsa di costituzione e risposta, a seguito della riassunzione, il ricorrente aveva dedotto che la custodia era stata affidata alle Suore missionarie e non all’ente Assistenziale, né che le suore svolgevano attività assistenziale e non di custodia; più in generale, non aveva considerato che tutta la documentazione prodotta in causa dimostrava il pieno possesso dell’esponente del complesso immobiliare, che aveva ampiamente ristrutturato, senza che nel verbale di consegna da parte dell’impresa appaltatrice si fosse fatta menzione del Comune, bensì solo dell’Ente ricorrente, così come nelle note di acquisto dei materiali e nelle comunicazioni al Genio Civile, il Comune non era mai intervenuto per vietare le opere di parjale demolizione e ricostruzione; non aveva tenuto conto del comportamento complessivo delle parti negli accordi intercorsi, né che il custode non è possessore, né detentore; non aveva applicato l’art. 1158 c.c., che avrebbe imposto valorizzare il fatto che il Comune mai aveva manifestato la volontà di esercitare i diritti del proprietario e che in presenza dell’elemento possessorio era onere della controparte dimostrare il contrario; non aveva considerato che il fabbricato non avrebbe potuto essere considerato omogeneo, bensì scindibile e quindi non rilevava l’utilizzo di alcune parti di esso da parte del Comune; non erano stati valutati tutti gli atti d’interversione (comunicazione dei progetti approvati all’ufficio tecnico comunale, atto dell’ufficio delle imposte di consumo comunale, la licenza di abitabilità, l’attestazione di conformità dell’impiantistica per la sicurezza, rilasciata dal responsabile comunale), né il fatto che il Comune dal giorno dell’atto di donazione, con il quale era divenuto proprietario dello stabile, non era mai entrato nel possesso del bene e, non avendo adempiuto alla condizione di destinazione ad ospedale, non poteva vantare diritti per la parte occupata dall’ente ricorrente.

1.1. La doglianza non supera lo scrutinio d’ammissibilità per il concorrere di più ragioni.

1.2. In primo luogo deve ricordarsi che il giudizio di rinvio a seguito di cassazione è a perimetro chiuso, venendo demandato al giudice di esso la definizione della causa attenendosi al principio di diritto enunciato, esplicitamente o implicitamente, dalla Corte di legittimità, restando, inoltre, definitivamente non più censurabili gli ambiti decisori che trovino soluzione (assorbimento improprio) nella pronuncia di cassazione; conseguendo da ciò che i limiti e l’oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio, neppure in caso di violazione di norme di diritto sostanziale o processuale o per errore del principio di diritto affermato, la cui giuridica correttezza non è sindacabile dal giudice del rinvio neanche alla stregua di arresti giurisprudenziali successivi della corte di legittimità (Sez. 2, n. 27343, 29/10/ 2018, Rv. 651022; conf. Cass. n. 8225/2013).

1.3. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e circoscritto dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito; ne consegue che il motivo (o i motivi, il che è lo stesso) del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., (ex multis, Se. 5, n. 19959, 22/9/2014); il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi; pertanto, pur non essendo decisivo il testuale e corretto riferimento a una delle cinque previsioni di legge, è tuttavia indispensabile che il motivo individui con chiarezza il vizio prospettato nel rispetto della tassativa griglia normativa (cfr., da ultimo Sez. 2, n. 17470/2018).

b) Da quanto sopra deriva che il ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Sez. 6, n. 11603, 14/5/2018, Rv. 648533).

c) Nel caso in esame il prolisso (34 pagine) e, in parte ripetitivo, ricorso presenta una struttura atipica, promiscua e confusa, essendo diretto a censurare, piuttosto che gli specifici vizi di cui s’e’ detto, i singoli passaggi decisionali della statuizione impugnata, sul modello dell’atto d’appello, mostrando in intreccio inestricabile di pretese, nonché di prospettate violazioni, indissolubilmente compenetrate con il fatto; critica che, in ogni caso, si risolve in un’inammissibile istanza di riesame della motivazione, ben al di fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 5, vigente, e in un alternativo accertamento fattuale.

d) La narrazione impugnatoria, a prescindere dalla sua pertinenza, presuppone fatti, documenti e vicende in questa sede inconoscibili, in palese violazione del dovere di specificità del ricorso.

1.4. Il ricorso, nel suo complesso, invoca, in definitiva, un inammissibile riesame di merito delle valutazioni della Corte locale, rese in relazione ai punti sottopostole dalla decisione cassatoria della precedente pronuncia d’appello.

1.5. Infine, non si riscontra affatto l’ipotesi della motivazione apparente prospettata. La giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi meramente apparente; apparenza che ricorre, come di recente ha ribadito questa Corte, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (Sez. 6, n. 13977, 23/5/ 2019, Rv. 654145; ma già S. U. n. 22232/2016);

– a tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo aprimi, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto;

– siccome ha già avuto modo questa Corte di più volte chiarire, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivane, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (S. U., n. 8053, 7 / 412014, Rv. 629830; S. U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Seti. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914).

E’ evidente che, nonostante gli sforzi del ricorrente, non si versa qui in alcuna delle ipotesi residuali di cui sopra: gli argomenti utilizzati dal Giudice sono puntualmente ripercorribili, collegati al caso esaminato e alle risultanze di causa.

2. Di conseguenza, siccome affermato dalle S. U. (sent. n. 7133, 21/3/2017, Rv. 643349), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c., e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”.”

Il soccombente ricorrente va condannato a rimborsare le spese in favore del controricorrente, tenuto conto del valore, della qualità della causa e delle attività svolte, siccome in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 3.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2022

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