Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7222 del 15/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 15/03/2021, (ud. 03/12/2020, dep. 15/03/2021), n.7222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22646/2018 proposto da:

TABU S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA, 22, presso lo

studio degli avvocati LEONARDO VESCI, e GIOVANNI SIMONE, che la

rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

G.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato ROBERTA PALOTTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1256/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 29/06/2018 R.G.N. 367/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/12/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito l’Avvocato LEONARDO VESCI per delega verbale Avvocati GIOVANNI

SIMONE e GERARDO VESCI;

udito l’Avvocato SILVIA ASSENNATO per delega Avvocato ROBERTA

PALOTTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Milano, con sentenza resa pubblica in data 29/6/2018; in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato in data 22/6/2016 dalla Tabu s.p.a. nei confronti di G.A., e condannava la società alla reintegra di quest’ultimo nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno dal di del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra.

La Corte perveniva a tale convincimento dopo avere rimarcato la genericità che connotava la contestazione disciplinare formulata dalla società in violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7: era mancata, infatti, “la indicazione dell’istruzione del datore di lavoro che il lavoratore si sarebbe rifiutato di eseguire”, come pure era “del tutto assente l’indicazione delle parole irriguardose che lo stesso avrebbe indirizzato al datore di lavoro”; tali carenze si erano tradotte in una chiara violazione del diritto di difesa del lavoratore incolpato.

Il giudice del gravame non trascurava, peraltro, di considerare, che in ogni caso, anche a non volere accedere alla tesi prospettata dal ricorrente, il fatto oggetto di contestazione non poteva ritenersi dimostrato alla stregua della attività istruttoria espletata, non essendo emerso che il G. avesse rivolto parole irriguardose all’indirizzo del proprio datore di lavoro.

La cassazione di tale pronuncia è domandata dalla società Tabu sulla base di due motivi ai quali oppone difese la parte intimata con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Ci si duole che la Corte di merito abbia reputato generica la contestazione disciplinare del 15/6/2016, omettendo di esaminare il fatto decisivo del giudizio oggetto di discussione fra le parti, costituito dalla comunicazione del 17/6/2016 con la quale il lavoratore aveva reso puntuali giustificazioni in risposta alla lettera di contestazioni inviatagli da parte datoriale, consentendo di ritenere pertanto, specifico, il tenore della predetta missiva.

2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 e dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si critica la statuizione di condanna alla reintegra nel posto di lavoro disposta a fronte di un vizio procedurale, ritenuta sanzionabile con la mera tutela indennitaria.

3. Il ricorso è inammissibile.

Come fatto cenno nello storico di lite, la sentenza impugnata ha ritenuto, come alternativa ragione del decidere rispetto a quella concernente la comprovata genericità del tenore della lettera di contestazione L. n. 300 del 1970, ex art. 7, la carenza di prova relativa alla effettiva sussistenza del fatto contestato al lavoratore.

Non era risultato, alla stregua della espletata attività istruttoria, che il lavoratore avesse rivolto al T., suo datore di lavoro, espressioni irriguardose e, sotto altro versante, era emersa la circostanza che entrambe le parti avessero elevato il tono della voce, dopo che il T. lo aveva per primo verbalmente aggredito.

Nel presente ricorso, tuttavia, questa affermazione – che costituisce una ratio decidendi idonea da sola a sorreggere la sentenza nei punti qui contestati – non viene attinta dalle censure formulate, le quali si indirizzano in ogni caso su altri argomenti, che risultano privi di specifica attinenza con tale statuizione centrale nella sentenza di appello impugnata.

Ciò Costituisce ragione di inammissibilità del ricorso.

4. Deve infatti richiamarsi il principio affermato da questa Corte, che va qui ribadito, in base al quale il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, èò inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali “rationes decidendi”, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (vedi Cass. 4/3/2016 n. 4293).

Tale omessa impugnazione rende inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso, essendo la statuizione non censurata divenuta definitiva e quindi non potendosi più produrre in nessun caso il relativo annullamento (vedi, al riguardo: Cass. 7/11/2005, n. 21490; Cass. 26/3/2010 n. 7375; Cass. 7/9/2017, n. 20910; Cass. 3/5/2019 n. 11706).

Alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Il governo delle spese del presente giudizio segue il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della “corrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2021

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