Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7217 del 15/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 15/03/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 15/03/2021), n.7217

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7023/2017 proposto da:

A.C.I.S.M.O.M. – ASSOCIAZIONE DEI CAVALIERI ITALIANI DEL SOVRANO

MILITARE ORDINE DI MALTA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE

21/23, presso lo studio degli avvocati CARLO BOURSIER NIUTTA,

PATRIZIO MARIA RAIMONDI, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente principale-

C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOEZIO 16,

presso lo studio dell’avvocato DARIO IMPARATO, rappresentata e

difesa dagli avvocati BRUNO ARENA, STEFANIA ARMIERO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

S.I.A.R. SERVIZI INTEGRATI ASSISTENZIALI E RESIDENZIALI, SOCIETA’

COOP. SOCIALE A R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA UGO BARTOLOMEI 23,

presso lo studio degli avvocati ENRICO IVELLA, FRANCESCO SAVERIO

IVELLA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente al ricorso principale e incidentale –

e contro

(OMISSIS); H.A.I. – COOPERATIVA A R.L. IN LIQUIDAZIONE, – O.S. –

OPERATION SMILE SOCIETA’ COOPERATIVA;

– intimate –

avverso la sentenza n. 7738/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 14/09/2016 R.G.N. 9735/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’

Stefano, ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. la Corte di Appello di Napoli, con sentenza pubblicata il 14 settembre 2016, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato “l’intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato tra C.G. e A.C.I.S.M.O.N. (recte: A.C.I.S.M.O.M.) fin dal 28.12.1998 con inquadramento della stessa al livello D del CCNL Sanità Pubblica” quale biologa, condannando l’Associazione al pagamento di differenze retributive pari ad Euro 38.212,35, oltre accessori, per il periodo sino al 30.4.2009; ha altresì dichiarato l’inefficacia del recesso dal rapporto di lavoro con la C. in quanto intimato dalla S.I.A.R. soc. coop. sociale a r.l. la quale “non rivestiva la qualità di effettivo datore di lavoro”;

2. la Corte ha ritenuto che “un attento esame della prova testimoniale espletata in primo grado come anche delle stesse risultanze della documentazione prodotta in atti” non potesse che condurre all’accoglimento della domanda attorea, dimostrandosi “con evidenza che il rapporto di lavoro si è sempre di fatto svolto con l’A.C.I.S.M.O.M., la quale, tramite il Direttore Sanitario Dott. G., impartiva direttive sul lavoro alla C. e che aveva comunque la disponibilità sia dei locali presso i quali si svolgeva la prestazione lavorativa che dei macchinari in uso presso il laboratorio, limitandosi le varie cooperative nell’ambito delle quali l’istante era formalmente inquadrata quale socia lavoratrice a intervenire con riferimento ai soli aspetti formali del rapporto lavorativo senza di fatto intervenire, per il resto, in relazione agli aspetti sostanziali del predetto”;

pertanto, richiamati precedenti di legittimità in materia di violazione del divieto di intermediazione ed interposizione di manodopera negli appalti “endoaziendali”, la Corte territoriale ha dichiarato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra l’Associazione e la C. sin dal 28.12.1998, quantificando le spettanze retributive dovute sino al 30.4.2009, epoca del licenziamento dichiarato inefficace;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso in via principale l’Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta con 7 motivi; hanno resistito con distinti controricorsi S.I.A.R. – Servizi Integrati Assitenziali e Residenziali e C.G., quest’ultima formulando ricorso incidentale affidato ad un motivo; nessuna attività difensiva hanno svolto la Cooperativa H.A.I. a r.l. in liquidazione, il Fallimento (OMISSIS);

4. in vista dell’adunanza camerale del 19 marzo 2020, poi rinviata, l’Associazione ha depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., nuovamente ribadita con atto dell’11 settembre 2020; anche S.I.A.R. e la C. hanno comunicato memorie;

5. il Pubblico Ministero ha rassegnato conclusioni con cui ha richiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento di quello incidentale.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. il primo motivo di ricorso principale dell’Associazione denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 414,420 e 421 c.p.c., degli artt. 345 e 437 c.p.c., nonchè degli artt. 2719, 2712 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, per avere la Corte napoletana utilizzato a fondamento della decisione documentazione in copia, tardivamente ed irritualmente esibita dalla controparte nel corso del giudizio di primo grado, non acquisita dal primo giudice e nuovamente depositata in grado di appello, senza, invece, acquisire la documentazione, pure essa in copia, prodotta dall’ACISMOM in appello, onerandola di produrla in originale a fronte di un generico disconoscimento del procuratore della C.;

il motivo non è meritevole di accoglimento;

il preteso errore di attività compiuto dal giudice di merito nella conduzione del processo costituisce un error in procedendo che va denunciato nelle forme previste dell’art. 360 c.p.c., n. 4, evidenziando il vizio che determina la nullità della sentenza o del procedimento; tuttavia, secondo questa Corte, la nullità (e men che meno l’illegittimità) di un atto riguardante acquisizioni probatorie – sia che il giudice le ammetta, sia che le escluda – non incide sulla sentenza che non si fondi su di esse e non comporta, in ogni caso, la nullità (derivata) della stessa, atteso che i rapporti tra atto istruttorio nullo e sentenza non possono definirsi in termini di eventuale nullità derivata di quest’ultima, quanto, piuttosto, in termini di giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della sentenza stessa, la quale, cioè, in quanto fondata sulla prova nulla (che quindi non può essere utilizzata) o sulla esclusione di una prova con provvedimento nullo, è priva di (valida) motivazione, non già nulla a sua volta: infatti l’atto istruttorio, puramente eventuale, non fa parte della indefettibile serie procedimentale che conduce alla sentenza e il cui vizio determina la nullità, ma incide soltanto sul merito delle valutazioni in fatto compiute dal giudice, sindacabili in sede di legittimità esclusivamente nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass. n. 17247 del 2006, Cass. n. 19072 del 2004, Cass. n. 18857 del 2014, in motivazione);

anche trascurando l’errore di prospettazione, parte ricorrente neanche indica adeguatamente e specificamente – in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – il contenuto, quanto meno nelle trascrizioni essenziali, dei documenti dei quali lamenta l’erronea acquisizione ovvero la mancata valutazione; ancora di recente le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. SS.UU. n. 34469 del 2019); il ricorrente impedisce così al Collegio di verificare, in limine litis, la decisività dei documenti ai fini degli apprezzamenti di fatto compiuti dai giudici del merito (tra le recenti v. Cass. n. 13625 del 2019; Cass. n. 29093 del 2018; Cass. n. 5478 del 2018), decisività peraltro da escludersi sulla base del tenore della sentenza impugnata che ha fondato i suoi assunti soprattutto sulle prove testimoniali;

2. il secondo motivo del ricorso principale denuncia omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, lamentando che la Corte di Appello, avuto riguardo all’ammissibilità della documentazione in copia prodotta dall’Associazione, avrebbe del tutto omesso ogni valutazione, senza fornire alcuna motivazione;

esso è inammissibile, atteso che i fatti decisivi di cui al n. 5 novellato dell’art. 360 c.p.c., riguardano le circostanze storiche che hanno dato origine alla controversia e non certo i fatti processuali relativi ai provvedimenti del giudice in materia istruttoria;

vale ribadire che il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011), ma nella specie parte ricorrente – come già detto – neanche trascrive i contenuti dei documenti per i quali si duole dell’omessa valutazione, precludendo ogni possibile sindacato in ordine alla loro decisività;

3. parimenti inammissibile il terzo mezzo, con cui ancora si invoca la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che la Corte avrebbe trascurato una “serie di circostanze” che, invece, se esaminate, avrebbero dovuto portare alla conclusione del rigetto del ricorso;

è noto che le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno espresso sulla disposizione invocata i seguenti principi di diritto (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici): a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso;

il motivo in esame risulta irrispettoso di tali enunciati, traducendosi, nella sostanza, in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito nella valutazione dei fatti e, anzi, proprio il rilievo della parte ricorrente secondo cui sarebbe stata trascurata una “serie di circostanze” esclude il necessario carattere della decisività, nel senso inteso da questa Corte secondo cui è fatto decisivo quello che, se fosse stato esaminato, avrebbe portato ad una soluzione diversa della vertenza con un giudizio di certezza e non di mera probabilità (v., tra molte, Cass. SS.UU. n. 3670 del 2015 e n. 14477 del 2015); si è così sancita l’inammissibilità di censure innanzi a questa Corte che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte del giudice cui compete il merito, ma in realtà sollecitando un esame o una valutazione diversa da parte della Cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato, il vario insieme dei materiali di causa (Cass. n. 21439 del 2015);

ancora di recente le Sezioni unite hanno ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perchè pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 33476 del 2019 e n. 33373 del 2019);

4. per la stessa ragione deve essere dichiarato inammissibile anche il quinto motivo del ricorso principale – esaminabile per connessione – con cui si denuncia ancora omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, sempre a mente dell’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte napoletana avrebbe “omesso di considerare: la circostanza incontroversa che il Dottor G. (cioè la persona che, a dire di alcuni testi, impartiva le direttive alla lavoratrice) non era più direttore sanitario e non svolgeva più alcun compito in ACISMOM già nel 2007; la circostanza che sicuramente per un periodo il comodato d’uso da parte delle varie società proprietarie delle attrezzature del laboratorio non era a favore dell’ACISMOM, in quanto comodataria, era la Cooperativa H.A.I.; la circostanza che l’acquisto dei reagenti era effettuato direttamente da parte della cooperativa”;

il riferimento ad una pluralità di circostanze, oltre a privare ciascuna di esse di autonoma valenza decisiva, conclama come il motivo invochi un diverso apprezzamento dei fatti, anche attraverso il riferimento ai documenti che li comproverebbero, sollecitando così un sindacato chiaramente precluso in questa sede di legittimità;

5. il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nonchè della L. n. 1369 del 1990, art. 4, per non avere la Corte di Appello rilevato “l’intervenuta decadenza della lavoratrice che – stante la cesura rappresentata dalla risoluzione di tale primo rapporto di lavoro con la società (OMISSIS), risoluzione definitiva e mai impugnata – avrebbe dovuto azionare i propri diritti e far valere le proprie pretese entro il relativo termine”, e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27, comma 2 e art. 29, comma 3 bis, laddove la sentenza impugnata avrebbe “omesso di considerare come riferibili all’ACISMOM le risoluzioni dei tre successivi rapporti con le Cooperative”;

in disparte l’improprio riferimento all’art. 115 c.p.c., visto che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di nuovo conio (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017), le due censure articolate nel motivo non meritano condivisione;

per quanto riguarda la prima, oltre a non specificare adeguatamente quando e come la decadenza sia stata sottoposta al vaglio dei giudici di merito, risulta inconferente rispetto al decisum che non riguarda una ipotesi di appalto genuino, bensì una ipotesi di interposizione fittizia e, comunque, questa Corte insegna che, ai fini della decadenza prescritta dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369, art. 4, per l’esercizio dell’azione intentata dai lavoratori – ai sensi del precedente art. 3 della stessa legge – nei confronti degli appaltanti coobbligati solidali con l’appaltatore-datore di lavoro, il termine di un anno dalla cessazione dell’appalto va riferito alla durata di ogni singolo rapporto contrattuale tra appaltante e appaltatore, al qual fine peraltro rileva non tanto il termine di scadenza previsto nel contratto quanto piuttosto l’effettiva cessazione dei rapporti fra le parti (v. Cass. n. 34190 del 1998);

circa la seconda doglianza essa pure risulta inammissibile perchè non viene illustrato nel corpo del motivo il come ed il quando la questione sia stata introdotta nel giudizio di merito ed è noto che, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004).;

6. con il sesto motivo l’Associazione denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 1369 del 1960, art. 1 e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, “in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, lamentando che la Corte territoriale “ha negato rilievo logico e giuridico alle circostanze fondamentali che il Dott. G. non fosse un dipendente del committente e che in ogni caso non era più direttore sanitario e non svolgeva più alcun compito in ACISMOM già dal 2007 ma, soprattutto, ha valorizzato elementi palesemente neutri ai fini della configurabilità dell’ipotesi vietata”;

la censura è inammissibilmente formulata;

infatti, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (tra le recenti: Cass. n. 3340 del 2019);

il riferimento della ricorrente principale alla pretesa erronea valutazione di circostanze fattuali evidenzia che solo formalmente si denuncia un error in iudicando, mentre nella sostanza si duole di come i giudici del merito abbiano apprezzato i fatti, invocando, ancora una volta, un sindacato precluso a questa Corte di legittimità;

7. il settimo motivo del ricorso principale denuncia “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2099 e dell’art. 2120 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, circa la quantificazione del dovuto operata dalla Corte territoriale sulla scorta di una c.t.u. senza tenere conto delle eccedenze di retribuzione pagate dai formali datore di lavoro – in base alla contrattazione collettiva dagli stessi applicata – e che avrebbero dovuto essere “detratte in compensazione dal complessivo trattamento spettante alle dipendenze del reale datore di lavoro”; ne conseguirebbe “che dette eccedenze non sono computabili ai fini del TFR e non rientrano nella base retributiva imponibile a detti fini”;

anche tale motivo è inammissibile perchè non individua l’error iuris in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale;

esso è infatti privo di specificità considerato che, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);

invero il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto ricorre o non ricorre, a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra molte: Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicchè, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata, mentre nella specie parte ricorrente lamenta una errata quantificazione del suo debito, introducendo elementi fattuali ulteriori rispetto a quelli valutati dal giudice del merito nella sua stima e che non possono essere riesaminati innanzi a questa Corte;

8. con l’unico motivo di ricorso incidentale la C. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, stante l’omissione di pronuncia della Corte territoriale sul capo di domanda, già formulato in primo grado e reiterato in appello, con cui chiedeva condannarsi l’ACISMOM “alla riammissione in servizio ovvero alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro in precedenza occupato senza alcuna soluzione di continuità dalla data del sopra richiamato licenziamento e al risarcimento dei danni pari alle retribuzioni maturate da allora in poi, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme rivalutate”;

si lamenta che la Corte napoletana, pur dichiarando l’inefficacia del recesso del 30 aprile 2009, non abbia provveduto sulla richiesta di risarcimento del danno per il periodo successivo, nonostante vi fosse anche la messa a disposizione delle energie lavorative con missiva della lavoratrice dell’11 maggio 2009;

la censura è fondata;

nonostante nella stessa ricostruzione delle vicende processuali contenuta nella sentenza impugnata venga dato atto che, nelle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, la C. aveva richiesto quanto riproposto poi in appello, secondo ciò che è trascritto nel motivo in esame, la Corte di Appello di Napoli non si è poi pronunciata su detto capo di domanda, neanche implicitamente;

pertanto si è consumata la violazione dell’art. 112 c.p.c., rubricato “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” e che governa il rapporto tra le istanze delle parti e la pronuncia del giudice, generando un vulnus al principio della domanda e del contraddittorio ed un vizio che, prodottosi nel corso del processo, non può poi non contagiarne l’intero sviluppo successivo, concretando un error in procedendo rilevante a mente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, come correttamente evidenziato dalla ricorrente in via incidentale;

9. conclusivamente il ricorso principale deve essere respinto, mentre deve essere accolto quello incidentale della C., con cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio al giudice indicato in dispositivo il quale provvederà nel merito sul capo di domanda su cui è stata omessa la pronuncia (v. Cass. n. 13892 del 2005; Cass. n. 19274 del 2004), liquidando anche le spese del giudizio di legittimità;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della sola ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a, norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale e, in relazione ad esso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2021

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