Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7217 del 13/03/2020

Cassazione civile sez. un., 13/03/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 13/03/2020), n.7217

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29406-2019 proposto da:

D.V.G.M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

R.R. PEREIRA 208, presso lo studio dell’avvocato OTTAVIANO NUZZO,

che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 94/2019 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 01/08/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/02/2020 dal Consigliere ADRIANA DORONZO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale

SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Ottaviano Nuzzo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Con sentenza pubblicata il 19/7/2019, depositata in segreteria il 1/8/2019, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato il dottor D.V.G.M.F. responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, lett. a) e gli ha irrogato la sanzione della rimozione.

1.2.- Il fatto addebitato al magistrato è consistito nell’aver egli tenuto una condotta, idonea a lederne l’immagine, costituente il reato di cui agli artt. 110,56 e 323 c.p., per il quale era stato condannato, con sentenza del Tribunale di Brescia del 3/3/2016 (divenuta irrevocabile il 27/9/2018), alla pena di mesi otto di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per lo stesso tempo, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.

1.3.- In particolare, il D.V. – nello svolgimento delle sue funzioni di giudice tutelare presso il Tribunale di Lecco e in concorso con l’amministratrice di sostegno in un procedimento di volontaria giurisdizione – in violazione degli artt. 408 e 410 c.c., aveva autorizzato l’acquisto, da parte dell’amministrato, di un immobile di proprietà del coniuge dell’amministratrice, gravato da ipoteca a garanzia di un mutuo di cui era mutuataria quest’ultima, per un importo di gran lunga superiore ai prezzi di mercato e stimato da una perizia giurata redatta da un architetto, socio paritario del fratello dell’amministratrice.

2.- La Sezione disciplinare ha ritenuto sussistente l’illecito descritto dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, lett. a), in presenza di tutti i suoi elementi costitutivi, rappresentati dalla pronuncia di una sentenza penale di condanna irrevocabile per delitto doloso sanzionato con pena detentiva.

2.1.- Ha poi ritenuto di dover applicare la sanzione della rimozione a norma del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, sul presupposto della sua obbligatorietà in conseguenza della inflizione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, senza che potesse assumere rilievo la concessione della sospensione condizionale della pena.

2.2.- In ogni caso, ha aggiunto il Giudice disciplinare, anche a voler sostenere la diversa tesi, propugnata dal Procuratore generale, della non obbligatorietà della rimozione, il fatto accertato era di gravità tale da imporre comunque questa sanzione.

Al riguardo ha qualificato la condotta come di “gravità massima per un magistrato e del tutto incompatibile con la permanenza nell’ordine giudiziario”, trattandosi di un fatto commesso nell’esercizio delle funzioni e con deviazione dalle stesse, all’unico scopo di favorire intenzionalmente un soggetto diverso da quello debole, oggetto di tutela da parte dell’ordinamento. Per contro, l’incolpato non aveva fornito alcuna versione difensiva volta a mitigare il giudizio sulla gravità del fatto, scegliendo di non comparire nelle diverse fasi del procedimento.

La Sezione disciplinare ha dunque concluso ritenendo superfluo, a fronte di un quadro così grave, ogni ulteriore accertamento in merito alla condotta tenuta dall’incolpato nel periodo successivo al fatto.

3.- Contro la sentenza il D.V. ha proposto ricorso per cassazione articolando un unico motivo; il Ministero della Giustizia non ha svolto attività difensiva. In prossimità dell’udienza, il ricorrente ha depositato memoria. Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Il motivo di ricorso è prospettato in questi termini: “In riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b, erronea applicazione del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 12, comma 5, in relazione all’art. 166 c.p., comma 1, nonchè mancanza e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)”.

1.1. – Il ricorrente contesta l’interpretazione che del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, ha dato la Sezione disciplinare, ritenendo obbligatoria la rimozione anche nel caso in cui l’esecuzione della pena principale sia stata sospesa, senza considerare che l’art. 166 c.p., comma 1, estende alle pene accessorie la sospensione condizionale della pena.

Solo nel caso di condanna per alcuni delitti (e specificamente quelli previsti dall’art. 314, comma 1, artt. 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, art. 319 quater, comma 1 e artt. 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis) il giudice può disporre che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie, ma tra questi non è compreso l’art. 323 c.p..

1.2.- Secondo il ricorrente, la rimozione deve essere obbligatoriamente disposta soltanto nel caso in cui l’interdizione, perpetua o temporanea dai pubblici uffici, sia in concreto eseguita, non anche in caso di sua sospensione.

Tale interpretazione sarebbe confortata dalla Corte costituzionale, che, con una sentenza additiva (la n. 197/2018), avrebbe esplicitato che il collegamento automatico tra rimozione e interdizione dai pubblici uffici è espressione della volontà del legislatore di ritenere incompatibile lo svolgimento della funzione giudiziaria “per tutto il tempo in cui essa (ossia l’interdizione: n. d.e.) opera”, e, quindi, solo nel caso in cui debba essere concretamente eseguita.

1.3.- In forza di tale interpretazione, poichè nella specie la sospensione condizionale della pena aveva riguardato anche quella accessoria della interdizione, la sanzione disciplinare avrebbe dovuto essere applicata non già in via automatica bensì solo in seguito ad un giudizio di effettiva gravità dell’infrazione commessa.

2. il ricorso è inammissibile.

La decisione della sezione disciplinare è fondata su una duplice ratio decidendi.

2.1.- La prima è data dalla interpretazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, a tenore del quale “Si applica la sanzione della rimozione al magistrato che sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. e), che incorre nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p. o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’art. 168 c.p.”.

2.2.- La Sezione disciplinare ha ritenuto che la rimozione è obbligatoria in ogni caso in cui alla condanna acceda la interdizione perpetua o temporanea dei pubblici uffici, “indipendentemente dalla entità della pena inflitta e dalla natura del reato. E anche se la pena principale e la pena accessoria siano state condizionatamente sospese”.

2.3.- Secondo la Sezione disciplinare, tale interpretazione è fondata sul dato letterale della norma, che collega la sospensione condizionale, escludendo l’obbligatorietà della rimozione, alla sola pena detentiva per delitto non colposo non inferiore ad un anno, non anche alla pena accessoria della interdizione, temporanea o perpetua, dai pubblici uffici, la quale pertanto comporta la rimozione per il sol fatto che sia inflitta, a prescindere dalla sua effettiva esecuzione. Si tratta, per l’Organo disciplinare, di una chiara ed esplicita scelta del legislatore, che ha evidentemente ravvisato una oggettiva e insuperabile incompatibilità tra l’appartenenza all’ordine giudiziario e la commissione di un reato per il quale la legge prevede la pena accessoria della interdizione, e generalmente costituito da un delitto contro la pubblica amministrazione.

3.- La seconda ratio è invece contenuta nelle pagine 5 (dal penultimo periodo) e 6 della sentenza, nella parte in cui la Sezione disciplinare ha affermato che, anche a voler accedere alla tesi della Procura generale circa la non obbligatorietà della rimozione, il fatto accertato era di gravità tale da giustificare la sua inflizione.

Ha poi espresso, nei termini su riassunti, le ragioni per le quali ha ritenuto incompatibile la permanenza del D.V. nell’ordine giudiziario, argomentando dalla gravità della condotta commessa nell’esercizio delle funzioni e con deviazione dalle stesse, al solo fine di favorire l’amministratrice di sostegno, recando così danno alla parte che invece avrebbe dovuto essere tutelata.

4.- Il motivo del ricorso investe solo la prima delle due ratio, mentre nulla si obietta su quest’ultima valutazione, da sola idonea a sorreggere la decisione. Al riguardo va ricordato che, nel caso in cui la sentenza risulti sorretta da due diverse rationes decidendi, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, è onere del ricorrente per cassazione censurarle entrambe, a pena di inammissibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse (Cass. pen. ord. 14/7/2011, dep. il 27/7/2011, n. 30021; Cass. pen. 6/12/2017, dep. il 23/1/2018, n. 2754).

La mancata impugnazione, infatti, di una di esse la consolida sicchè l’eventuale accoglimento del motivo inerente all’altra ratio non potrebbe in nessun caso produrre l’annullamento della sentenza.

5.- Nè può ritenersi sufficiente ad introdurre una valida censura il mero richiamo, nella rubrica dell’unico motivo proposto, alla “mancanza e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e)”, in difetto di una qualsivoglia deduzione in ordine alla congruità, completezza e correttezza della sentenza sotto il profilo dell’iter logico seguito.

5.1.- Tutti gli argomenti svolti nell’atto di impugnazione sono, infatti, volti a criticare l’interpretazione che la Sezione disciplinare ha dato del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, mentre nessuna specifica censura è rivolta al percorso motivazionale che ha condotto la Sezione disciplinare a ritenere applicabile la rimozione al di fuori di ogni automatismo ed in base ad una valutazione di gravità del fatto e proporzionalità della sanzione.

5.2.- Per contro, per essere validamente proposto, il motivo avrebbe dovuto specificare quale profilo della motivazione fosse mancante, in

quali parti fosse contraddittoria o in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione.

5.3. -In tali sensi si è più volte espressa questa Corte, chiarendo che il ricorrente che intende denunciare contestualmente i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ovvero la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, ha l’onere sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di argomentare anche la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa (in tal senso, da ultimo, Cass. 24/05/2019, dep. 19/09/2019, n. 38676; v. pure Cass. 16/07/2010, dep. il 23/8/2010, n. 32227).

5.4.- I motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, posto che la motivazione, se manca, non può essere al tempo stesso nè contraddittoria, nè manifestamente illogica e, per converso, la motivazione viziata non è motivazione mancante (così ancora Cass. n. 38676/2019).

5.5.- Neppure possono valere ad superare la mancanza originaria del motivo le osservazioni contenute nella memoria difensiva depositata dal D.V. in prossimità della pubblica udienza, per l’assorbente rilievo che esse sono affette dagli stessi limiti di aspecificità riscontrati nel ricorso, mirando a sollecitare una revisione della motivazione sul presupposto, solo enunciato, della sua inadeguatezza, senza peraltro che risultino indicate quali specifiche circostanze giustificative non sarebbero state esaminate dalla Sezione disciplinare (cfr. Cass. Sez.Un. 23/1/2015, n. 1241) – la quale, al contrario, come si è su rilevato, ha dato atto dell’assenza di ogni giustificazione da parte del ricorrente.

5.6.- Va peraltro ricordato che l’art. 606 c.p.p., lett. e), anche dopo la riforma introdotta dalla L. n. 46 del 2006, consente il ricorso per cassazione per “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati”, il che implica la necessità di una puntuale allegazione di elementi o circostanze di fatto che siano stati trascurati o disattesi e che abbiano anche carattere di decisività (Cass. Pen. 25/11/2015, dep. il 27/1/2016, n. 3724; Cass. pen. 26/09/2012, dep. il 28/09/2012, n. 37709).

6.- Le considerazioni su svolte assorbono per evidente difetto di rilevanza la questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 12, comma 5, prospettata dal ricorrente nella memoria difensiva.

7.- In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Nessun provvedimento sulle spese deve essere adottato in mancanza di svolgimento di attività difensiva da parte del Ministero della Giustizia e stante la natura di parte meramente formale della Procura generale presso questa Corte di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2020

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