Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7210 del 15/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 15/03/2021, (ud. 27/01/2021, dep. 15/03/2021), n.7210

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIOTTI Lucio – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8715/2019 R.G., proposto da:

la “SANTI CAMUNA di P.B. e C. S.n.c.”, con sede in

(OMISSIS) (BS), in persona del socio amministratore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Francesco Bresciani, con studio in

Mantova, elettivamente domiciliata presso l’Avv. Eleonora Appolloni,

con studio in Roma, giusta procura in calce al ricorso introduttivo

del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

l’Agenzia delle Entrate, con sede in (OMISSIS), in persona del

Direttore Generale pro tempore, rappresentata e difesa

dall’Avvocatura Generale dello Stato, con sede in Roma, ove per

legge domiciliata;

– controricorrente –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

della Lombardia – Sezione Staccata di Brescia il 24 settembre 2018

n. 3988/23/2018, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata (mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28

ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 9, convertito nella L. 18

dicembre 2020, n. 176, con le modalità stabilite dal decreto reso

dal Direttore Generale dei Servizi Informativi ed Automatizzati del

Ministero della Giustizia il 2 novembre 2020) del 27 gennaio 2021

dal Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La “SANTI CAMUNA di P.B. e C. S.n.c.” ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia – Sezione Staccata di Brescia il 24 settembre 2018 n. 3988/23/2018, non notificata, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di classamento e attribuzione di rendita catastale a seguito di procedura “DOCFA” su un fabbricato, ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della medesima avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Brescia col n. 672/05/2016, con compensazione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure sul presupposto dell’impossibilità di accertare i requisiti necessari per il riconoscimento della ruralità. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso. Ritenuta la sussistenza delle condizioni per definire il ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., la proposta formulata dal relatore è stata notificata ai difensori delle parti con il decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. In vista dell’odierna adunanza la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, per non aver tenuto conto che l’eccezione relativa alla incompleta compilazione del modulo per la rettifica catastale era stata proposta dall’amministrazione finanziaria soltanto nel giudizio di appello.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto conto che l’avviso di accertamento era sprovvisto di adeguata motivazione.

3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, dell’art. 2135 c.c., e del D.M. 26 luglio 2012, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver adeguatamente valutato gli elementi indicativi della ruralità del fabbricato classato.

RITENUTO CHE:

1. Il primo motivo è infondato.

1.1 Preliminarmente, si rileva che la censura riguarda una norma di carattere processuale a presidio dell’integrità del contraddittorio (del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57), la cui inosservanza – secondo la prospettazione della ricorrente – determinerebbe la nullità della sentenza impugnata. Il che induce a riclassificare il mezzo nei corretti termini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Invero, è pacifico che il mezzo, quale esplicitato in concreto, deve essere riqualificato, secondo il principio di diritto che l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla riqualificazione della sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Cass., Sez. 6, 20 febbraio 2014, n. 4036; Cass., Sez. 6, 27 ottobre 2017, n. 25557; Cass., Sez. 6, 7 novembre 2017, n. 26310).

1.2 Ciò posto, il carattere impugnatorio del processo tributario è logicamente incompatibile con la proponibilità da parte dell’ufficio di eccezioni nuove in appello (come tali inammissibili), poichè le eccezioni in senso tecnico costituendo lo strumento processuale attraverso il quale si fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa od estintiva della pretesa, su cui il giudice non può pronunciarsi in mancanza dell’allegazione ad opera di una delle parti, nel processo tributario riguarderebbero la pretesa fiscale, avanzata dalla stessa amministrazione finanziaria (tra le altre: Cass., Sez. 5, 13 ottobre 2006, n. 22010).

Ciò non di meno, la parità di posizione processuale tra contribuente ed amministrazione finanziaria (sul piano dell’esercizio del diritto di difesa: art. 24 Cost.), non può prescindere dalla peculiarità del giudizio tributario, il quale non si connota come un giudizio di “impugnazione-annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo del contribuente (tra le altre: Cass., Sez. 5, 11 maggio 2007, n. 10779; Cass. Sez. 5, 20 ottobre 2011, n. 21759).

Per cui, l’osservanza del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, da parte dell’amministrazione finanziaria si risolve nella preclusione a mutare i termini della contestazione, deducendo motivi e circostanze diversi da quelli contenuti nell’atto di accertamento o, comunque, avanzando pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo e, dunque, sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo (Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2008, n. 25909; Cass., Sez. 5, 10 maggio 2019, n. 12467).

Così, in tema di contenzioso tributario, il divieto di domande nuove previsto al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 1, trova applicazione anche nei confronti dell’ufficio finanziario, al quale non è consentito, innanzi al giudice di appello, avanzare pretese diverse, sotto il profilo del fondamento giustificativo, e dunque sul piano della causa petendi, da quelle recepite nell’atto impositivo, altrimenti ledendosi la concreta possibilità per il contribuente di esercitare il diritto di difesa attraverso l’esternazione dei motivi di ricorso, i quali, necessariamente, vanno rapportati a ciò che nell’atto stesso risulta esposto (Cass., Sez. 5, 11 dicembre 2012, n. 22553; Cass., Sez. 5, 7 maggio 2014, n. 9810; Cass., Sez. 5, 27 giugno 2019, n. 17231; Cass., Sez. 5, 26 febbraio 2020, n. 5160).

Parimenti, il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto sempre dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, riguarda le eccezioni in senso tecnico, ossia lo strumento processuale con cui il contribuente, in qualità di convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale. Pertanto, esso non limita affatto la possibilità dell’amministrazione finanziaria di difendersi in tale giudizio, nè quella d’impugnare la sentenza che lo conclude, qualora la stessa abbia accolto una domanda avversaria per ragioni diverse da quelle poste dal giudice di primo grado a fondamento della propria decisione ovvero che siano sostanzialmente comprese nel thema decidendum (Cass., Sez. 5, 25 maggio 2012, n. 8316; Cass., Sez. 6, 31 maggio 2016, n. 11223; Cass., Sez. 6, 20 settembre 2017, n. 21889; Cass., Sez. 6, 29 dicembre 2017, n. 3124; Cass., Sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27562).

In definitiva, il divieto in questione concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., Sez. 5, 29 dicembre 2017, n. 31224).

Dunque, l’amministrazione finanziaria ha facoltà di integrare, completare ed ampliare le proprie difese ed eccezioni (improprie) con la costituzione nel giudizio di appello, fermo restando il limite invalicabile delle ragioni (di fatto e di diritto) poste a fondamento dell’atto impositivo.

Per cui, nel processo tributario, la parte resistente, la quale, in primo grado, si sia limitata ad una contestazione generica del ricorso, può rendere specifica la stessa in sede di gravame poichè il divieto di proporre nuove eccezioni in appello, posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguarda solo le eccezioni in senso stretto e non anche le mere difese, che non introducono nuovi temi di indagine (in termini: Cass., Sez. 6″, 23 maggio 2018, n. 12651).

1.3 Su tali premesse, quindi, non si può ritenere che, con l’atto di appello, l’amministrazione finanziaria abbia ampliato il thema decidendum mediante la proposizione di una domanda o di un’eccezione nuova (in senso tecnico), essendosi limitata soltanto a precisare ed arricchire le argomentazioni dedotte nel giudizio di prime cure a difesa del proprio operato, con la semplice specificazione che l’incompletezza del modello “DOCFA” (per l’omessa compilazione dell’allegato “C” al D.M. 26 luglio 2012, relativo ai fabbricati rurali e strumentali ad uso non abitativo) non aveva consentito di valutare i requisiti necessari per il riconoscimento della ruralità del fabbricato.

1.4 Pertanto, non si può ravvisare alcun mutamento della causa petendi, nè alcun ampliamento del thema decidendum, essendo stata ristretta la cognizione del giudice di appello alla valutazione della fondatezza della pretesa tributaria nei limiti delle circostanze e delle deduzioni poste a fondamento dell’atto impositivo.

2. Il secondo motivo è infondato.

2.1 In relazione alla motivazione degli atti di classamento, costituisce giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio secondo cui, in tema di classamento di immobili, qualora l’attribuzione della rendita catastale avvenga a seguito della procedura disciplinata dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, convertito in L. 24 marzo 1993, n. 75, e dal D.M. 19 aprile 1994, n. 701 (c.d. procedura “DOCFA”), l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento può ritenersi soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’amministrazione finanziaria e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati, mentre, in caso contrario, cioè nell’ipotesi in cui la discrasia non derivi dalla stima del bene ma dalla divergente valutazione degli elementi di fatto indicati dal contribuente, la motivazione dovrà essere più approfondita e specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente, sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso (Cass., Sez. 5, 31 ottobre 2014, n. 23237; Cass., Sez. 5, 16 giugno 2016, n. 12497; Cass., Sez. 6, 7 dicembre 2018, n. 31809; Cass., Sez. 6, 7 ottobre 2019, n. 25006; Cass., Sez. 5, 13 agosto 2020, n. 17016).

2.2 Ora, la fattispecie in disanima è chiaramente riconducibile alla prima ipotesi. Difatti, i dati forniti dalla contribuente non sono stati disattesi, ma soltanto rivalutati dall’amministrazione finanziaria con riferimento all’attribuzione della categoria e con riferimento alla determinazione della rendita catastale, essendo stata omessa l’indicazione degli elementi necessari per la verifica della ruralità. Sicchè, non si possono imputare all’amministrazione finanziaria omissioni o errori nell’accertamento e nella valutazione dei dati forniti dal contribuente.

2.3 Tale rilievo assorbe anche la doglianza relativa al richiamo dell’avviso di accertamento alla inosservanza del requisito della prevalenza, che, sebbene non strettamente coerente con la carenza dedotta dall’amministrazione finanziaria in grado di appello con riguardo all’incompletezza del modulo per la “DOCFA”, è stato censurato dalla contribuente sotto il profilo della difettosa motivazione.

3. Da ultimo, il terzo motivo è inammissibile.

3.1 La ricorrente lamenta che “che il Giudice dell’appello ha completamente omesso di svolgere idoneo accertamento finalizzato a verificare se l’immobile utilizzato da Santi Camuna per la lavorazione del legno è in possesso dei requisiti, di cui alla normativa di riferimento, per ottenere il riconoscimento di ruralità ai fini catastali”, deducendo, in particolare, che “(…) avrebbe dovuto accertare se, nel fabbricato in discussione, viene svolta attività strumentale all’esercizio dell’attività agricola di selvicoltura e se, tale attività, come prescritto dall’art. 2135 c.c., comma 3, rappresentata dalla lavorazione e trasformazione del legno, viene effettuata con i prodotti ottenuti in via prevalente dalla coltivazione del bosco”.

3.2 E’ evidente, quindi, che il motivo si risolve nella sollecitazione di una revisione del giudizio di fatto, che è precluso al giudice di legittimità.

4. In definitiva, valutandosi l’infondatezza del primo motivo e del secondo motivo, nonchè l’inammissibilità del terzo motivo, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore della controricorrente, liquidandole nella somma complessiva di Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; dà atto dell’obbligo, a carico della ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale effettuata da remoto, il 27 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2021

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