Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7185 del 25/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 25/03/2010, (ud. 10/02/2010, dep. 25/03/2010), n.7185

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

FONDAZIONE ENASARCO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA PAMPHILI

59, presso lo studio dell’avvocato SALAFIA ANTONIO, che la

rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.T.U., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. MARCORA

18/20, presso UFFICIO DEL SERVIZIO LEGALE CENTRALE DEL PATRONATO

A.C.L.I., rappresentato e difeso dall’avvocato FAGGIANI GUIDO, giusta

mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 110/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 10/02/2006 R.G.N. 1854/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/02/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato SALAFIA GUIDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Torino, depositato in data 3.3.2004, D.T.U., premesso di aver conseguito la pensione di vecchiaia con decorrenza dal 17.4.1991 e premesso di aver richiesto in via giudiziale all’Enasarco il ricalcolo della pensione L. 2 febbraio 1973, n. 12, ex art. 11, comprensiva dell’importo contributivo di L. 3.433.322, esponeva che, avendo l’Istituto predetto riconosciuto il suo diritto alla chiesta riliquidazione, il Tribunale adito, con sentenza n. 2420/02 successivamente passata in giudicato, aveva dichiarato cessata la materia del contendere.

Rilevava peraltro che la riliquidazione operata dall’Enasarco non aveva comportato alcun aumento della pensione dallo stesso già goduta. Chiedeva pertanto, invocando la sentenza predetta, la condanna dell’Istituto alla corresponsione delle differenze dovutegli.

Istauratosi il contraddittorio, l’Enasarco eccepiva l’inammissibilità del ricorso per l’intervenuto giudicato, e deduceva in subordine l’infondatezza della domanda della quale chiedeva comunque il rigetto.

Con sentenza in data 1.6.2004 il Tribunale di Torino accoglieva la domanda, condannando l’Enasarco alla riliquidazione della pensione ed alla corresponsione degli arretrati.

Avverso tale sentenza proponeva appello l’Enasarco lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza in data 25.1.2006, rigettava il gravame.

Avverso questa sentenza propone ricorso per Cassazione l’Istituto in questione con quattro motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso il lavoratore intimato.

Diritto

Col primo motivo di gravame l’Istituto ricorrente lamenta nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.; omessa pronuncia (art. 360 c.p.c., n. 4). In subordine, omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360 c.p.c., n. 5). Violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c (art. 360 c.p.c., n. 3).

Rileva in particolare il ricorrente che con l’atto di appello aveva chiesto, in via preliminare, che venisse accertata la formazione del giudicato sulla pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere, con conseguente declaratoria di improponibilità o inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Su tale richiesta la Corte d’appello aveva omesso totalmente di pronunciarsi, procedendo alla trattazione del merito della causa.

Rileva altresì che la decisione impugnata era censurabile anche qualora si volesse ritenere la questione implicitamente disattesa dalla Corte d’appello, avendo la stessa violato le norme sulla formazione del giudicato affermando che lo stesso si era formato sull’an debeatur e non sul quantum. Ed invero, contrariamente all’assunto della Corte suddetta, la domanda proposta dinanzi al giudice con ricorso conclusosi con la sentenza n. 2420/02 era identica a quella proposta nel presente giudizio.

Col secondo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360 c.p.c., n. 5).

In particolare rileva, in via subordinata, che la sentenza impugnata appariva meritevole di cassazione per aver violato e comunque falsamente applicato le norme in tema di giudicato sostanziale e formale, laddove aveva ritenuto che, nel precedente giudizio conclusosi con la sentenza dichiarativa della cessazione della materia del contendere, si fosse formato il giudicato sull’an della pretesa fatta valere dal lavoratore; per contro la sentenza dichiarativa della cessazione della materia del contendere non è idonea ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere.

Col terzo motivo di gravame il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c., sotto il profilo della errata interpretazione del giudicato esterno (art. 360 c.p.c., n. 3). Violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti (art. 360 c.p.c., n. 5).

Con tale motivo l’Istituto ricorrente rileva, in via ancor più subordinata, la erroneità della interpretazione fornita dalla Corte d’appello al giudicato formatosi nel precedente giudizio, laddove aveva affermato che con quest’ultima sentenza i giudici avevano ritenuto la fondatezza della domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio.

Col quarto motivo di gravame lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 416 c.p.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e omessa motivazione su punti decisivi della controversia prospettati dalle parti (art. 360 c.p.c., n. 5).

Rileva in particolare che la Corte territoriale, argomentando dall’erroneo presupposto della intervenuta formazione del giudicato, aveva ritenuto inammissibili le censure di merito svolte dall’appellante, assumendo altresì la fondatezza della domanda del lavoratore anche in relazione al quantum, sulla base di una ritenuta non contestazione specifica da parte dell’Enasarco dei conteggi depositati.

Ritiene il Collegio di dover procedere ad una trattazione unitaria dei suddetti motivi di gravame, essendo gli stessi fra loro strettamente connessi.

Osserva il Collegio che la questione concernente la efficacia della pronuncia declaratoria della cessazione della materia del contendere è stata oggetto di specifica attenzione da parte delle Sezioni Unite di questa Corte, chiamate a comporre un contrasto fra due diverse pronunce della stessa Corte a sezioni semplici.

Secondo la prima di tali decisioni (Cass. sez. lav., 11.3.1997 n. 2161), la pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere deciderebbe sul merito della controversia, essendo equivalente ad una decisione di rigetto della domanda dedotta in giudizio, con la conseguenza che, ove il giudizio proposto – come nella fattispecie in esame – dal lavoratore per ottenere il computo di un determinato emolumento nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto si sia concluso con una dichiarazione di cessazione della materia del contendere per avere, nelle more del giudizio, il datore di lavoro aderito alla prospettazione attorea, si determinerebbe un giudicato sul merito preclusivo per lo stesso lavoratore di un ulteriore giudizio.

Con altra decisione (Cass. sez. lav., 6.5.1998 n. 4583), invece, si è affermato che la pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere non è idonea a formare un giudicato di merito in ordine alla pretesa sostanziale azionata e quindi non opera il principio secondo cui il giudicato (sostanziale) copre non solo le ragioni giuridiche fatte valere in giudizio, ma anche tutte quelle altre, se pur non dedotte specificamente, proponibili tuttavia sia in via di azione che di eccezione, con la conseguenza che, ove il giudizio proposto dal lavoratore per ottenere il computo di un determinato emolumento nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto si sia concluso con una dichiarazione di cessazione della materia del contendere, per avere il datore di lavoro aderito, nelle more del giudizio, alla prospettazione attorea, non si determinerebbe alcun giudicato sostanziale preclusivo, per lo stesso lavoratore, della proposizione di un secondo giudizio avente ad oggetto il riconoscimento della computabilità di ulteriori emolumenti.

A sostegno della prima delle soluzioni enunciate, la Corte aveva fatto riferimento alla tesi dottrinale che – nel distinguere fra rinuncia agli atti del giudizio e rinuncia all’azione – ravvisava la cessazione della materia del contendere nella seconda di tali rinunce, che diveniva oggetto di una pronuncia dichiarativa, da assumere nella forma della sentenza, e che incideva sul merito della controversia, essendo equivalente ad una decisione di rigetto della domanda dedotta in giudizio, con la conseguenza che tale sentenza, in quanto conclusiva del procedimento, era idonea a generare, nel caso di riproposizione della domanda rinunciata, un’exceptio rei iudicatae. E questa situazione si verificava sia nel caso di rinuncia all’azione, per ritenuta infondatezza della pretesa, sia nel caso di intervenuta transazione qualora tale negozio avesse costituito l’esplicito motivo della rinuncia, sia in caso di riconoscimento della pretesa dell’attore da parte del convenuto.

A sostegno della seconda pronuncia si è invece osservato che la pronuncia dichiarativa della cessazione della materia del contendere – di chiara elaborazione giurisprudenziale anche se espressamente prevista nel processo amministrativo (L. 6. dicembre 1971, n. 1034, art. 23) e nel nuovo processo tributario (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 46) – starebbe a significare la sopravvenuta carenza d’interesse ad agire dell’attore per un fatto nuovo (incontroverso fra le parti), che importa per il giudice l’astensione da una decisione di merito; con la conseguenza che la relativa pronuncia, avente natura di sentenza, non sarebbe dissimile da quella meramente processuale dichiarativa dell’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio o per inattività delle parti (pur non essendo a quest’ultima del tutto equiparabile), in quanto non porterebbe alla attribuzione del bene della vita posto a fondamento della pretesa, ma avrebbe natura processuale, attenendo alle vicende dell’interesse ad agire e, quindi, ai presupposti processuali che condizionano la possibilità, o meno, della delibazione di merito della fondatezza dell’azione.

Le Sezioni Unite di questa Corte, premesso che le due diverse conclusioni trovavano – per come detto – il loro fondamento, la prima, su una ritenuta assimilazione della cessazione della materia del contendere alla rinuncia all’azione, e la seconda alla rinuncia agli atti del giudizio ovvero all’estinzione del giudizio per inattività delle parti, e rilevato che le dette pronunce facevano derivare da tali premesse, rispettivamente, la portata sostanziale o meramente processuale della relativa sentenza, con la conseguenza che nel primo caso si affermava il formarsi di un giudicato avente portata sostanziale, mentre, nel secondo, si negava siffatto giudicato, hanno ritenuto che il contrasto andasse composto privilegiando quest’ultimo indirizzo. A tal fine hanno ritenuto di prendere le mosse dalle varie pronunce che della cessazione della materia del contendere avevano fatto applicazione, individuandone l’elemento unificante in una molteplicità di situazioni fra loro non comparabili se non per un unico elemento costituito dal fatto che era venuto meno l’interesse delle parti ad una decisione sulla domanda giudiziale, come proposta o come venuta ad evolversi nel corso del giudizio, sulla base di attività, dalle parti stesse poste in essere nelle varie fasi processuali, per le più diverse ragioni, o di eventi incidenti sulle parti, stante la natura personalissima e intrasmissibile della posizione soggettiva dedotta; con la conseguenza che non veniva chiesto al giudice alcun accertamento, diverso da quello del venire meno dell’interesse alla pronuncia.

Hanno pertanto evidenziato che, in conclusione, “si deve quindi ritenere che, nel rito contenzioso ordinano, la cessazione della materia del contendere costituisce una ipotesi di estinzione del processo – creata dalla prassi giurisprudenziale ed applicata in ogni fase e grado del giudizio – da pronunciare con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta non si può fare luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o per rinuncia alla pretesa sostanziale, per il venire meno dell’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio, che determina il venire meno delle pronunce emesse nei precedenti gradi e non passate in giudicato e che proprio perchè accerta solo il venire meno dell’interesse non ha alcuna idoneità ad acquistare efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, ma solo sul venire meno dell’interesse e con l’ulteriore conseguenza che il giudicato si forma solo su quest’ultima circostanza, ove la relativa pronuncia non sia impugnata con i mezzi propri del grado in cui è emessa” (Cass. SS.UU., 28.9.2000 n. 1048).

Siffatti principi, ribaditi dalla costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez, lav., 3.3.2003 n. 3122; Cass. sez. lav., 22.3.2005 n. 6113; Cass. sez. 3^, 4.6.2009 n. 12887), non sono stati in realtà tenuti presenti dai giudici della Corte territoriale nell’impugnata sentenza. Gli stessi invero, dopo aver correttamente rilevato che la pronuncia di cessazione della materia del contendere non era idonea ad acquisire efficacia di giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, sono pervenuti alla conclusione, decisamente incongrua e contraddittoria rispetto alle premesse, che tuttavia nella fattispecie in esame, basandosi la pronuncia di cessazione della materia del contendere sull’avvenuto riconoscimento del diritto del ricorrente, si era parimenti formato il giudicato sulla pretesa di riliquidazione del trattamento pensionistico.

Siffatta motivazione si appalesa pertanto decisamente erronea.

Tuttavia la erroneità di dette argomentazioni non determina l’annullamento della sentenza impugnata, essendo il dispositivo conforme a diritto ancorchè la motivazione della sentenza abbisogni di alcune rettifiche, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Ed invero, se pur in presenza di una inidoneità – alla stregua delle considerazioni in precedenza espresse – del riconoscimento della pretesa azionata dal ricorrente ad acquisire valore di cosa giudicata, siffatto riconoscimento del diritto alla liquidazione della pensione ben può essere utilizzato dal decidente ai fini della formazione del suo convincimento sulla pretesa dedotta in giudizio.

E sul punto la Corte territoriale ha correttamente rilevato che “il riconoscimento in allora fatto dallo stesso Ente riguardava non già e non soltanto il principio giuirisprudenziale richiamato nella memoria costitutiva ed il diritto del D.T. alla generica riliquidazione della pensione con i contributi versati quale agente monomandatario pur in assenza di formale comunicazione all’Ente, bensì il diritto alla riliquidazione con il conteggio, nel trattamento pensionistico, della somma di L. 3.433.322″. E correttamente la Corte territoriale ha rilevato che, ” a fronte della specifica e documentata richiesta del D.T. …, l’Enasarco avrebbe ben potuto, essendo in possesso di tutti i dati necessari per determinare il nuovo ammontare della pensione e gli arretrati maturati a favore del ricorrente, indicare un diverso quantum:

l’Ente, invece, costituendosi in giudizio, si è limitato, con una formula “di stile”, a contestare, “recisamente ed integralmente i conteggi versati in atti dal ricorrente in quanto ritenuti del tutto erronei, infondati e inammissibili” …, senza in alcun modo evidenziare le ragioni dell’asserita erroneità, così in definitiva venendo meno all’onere di puntuale contestazione del conteggio avversario”.

Alla stregua di quanto sopra il ricorso non può trovare accoglimento e la sentenza gravata, ancorchè erroneamente motivata in diritto, va confermata trovando applicazione il disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 4, in base al quale, qualora il dispositivo dell’impugnata sentenza sia conforme a diritto, la Corte di legittimità si limita a correggere la motivazione.

Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla peculiarità della fattispecie e considerata la erroneità della motivazione adottata dalla Corte territoriale, per dichiarare compensate tra le parti le spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 25 marzo 2010

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