Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7156 del 21/03/2017


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Cassazione civile, sez. un., 21/03/2017, (ud. 21/02/2017, dep.21/03/2017),  n. 7156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Presidente di Sez. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di Sez. –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di Sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22721/2015 proposto da:

B.G., R.C., BE.FR.,

T.O., C.D., P.R., TO.NI., t.e.,

A.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE PARIOLI 180,

presso lo studio dell’avvocato MARIO SANINO, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato RICCARDO MONTANARO;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

BANCA D’ITALIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE 91 presso

l’Avvocatura della Banca stessa, rappresentata e difesa dagli

avvocati MONICA MARCUCCI e GIUSEPPE NAPOLETANO;

– controricorrenti –

e contro

BENE BANCA CREDITO COOPERATIVO DI BENE VAGIENNA – SOCIETA’

COOPERATIVA, D.G., O.G., COMITATO

INTERMINISTERIALE PER IL CREDITO ED IL RISPARMIO;

– intimati –

avverso la sentenza del CONSIGLIO DI STATO depositata in data

19/02/2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/02/2017 dal Presidente Dott. ANTONIO DIDONE;

uditi gli Avvocati Mario Sanino, Fabio Tortora per l’Avvocatura

Generale dello Stato e Monica Marcucci;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1.- I ricorrenti indicati in epigrafe, già Presidente e membri del Consiglio di Amministrazione della Bene Banca Credito Cooperativo di Bene Vagienna, hanno impugnato la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio ha respinto il ricorso dagli stessi proposto avverso gli atti con cui, ai sensi del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 70, comma 1, lett. a), il Ministero dell’Economia e delle Finanze, su conforme proposta della Banca d’Italia, ha decretato lo scioglimento degli organi del predetto Istituto di credito e nominato in loro sostituzione un Commissario Straordinario.

Con la sentenza impugnata il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello, confermando la decisione del TAR.

Contro la sentenza resa in grado di appello i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., affidato a due motivi. Resistono con controricorso il Ministero intimato e la Banca d’Italia. Non hanno svolto difese gli altri intimati.

Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., i ricorrenti e la Banca d’Italia hanno depositato memoria.

2.1.- Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “errore della sentenza di secondo grado, sul 5^ e 6^ motivo del ricorso introduttivo per motivi attinenti alla giurisdizione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1) – Violazione ed errata applicazione di norme di diritto fondamentali: art. 111 Cost., u.c.; art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)”.

Vi sarebbe stato indebito rifiuto da parte del Consiglio di Stato di erogare e garantire la dovuta tutela giurisdizionale, essendosi il giudice di appello limitato a controllare i profili formali degli atti impugnati trincerandosi per taluni aspetti nella tesi secondo cui il suo controllo di legittimità sarebbe limitato a profili di manifesta irragionevolezza o palese erroneità, prescindendo dalla doverosa verifica della sussistenza dei presupposti di fatto che sono alla base di ogni giudizio di legittimità.

Deducono che “la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dell’Autorità Garante implica, certo, che il giudice non possa sostituire con un proprio provvedimento quello adottato da detta Autorità, ma non che il sindacato sia limitato ai profili giuridico-formali dell’atto amministrativo, restandone esclusa ogni eventuale verifica dei presupposti di fatto. La pienezza della tutela giurisdizionale necessariamente comporta che anche le eventuali contestazioni in punto di fatto debbano esser risolte dal giudice, quando da tali contestazioni dipenda la legittimità del provvedimento amministrativo” (Sez. U., n. 1013 del 2014, in motivazione).

Invocano la giurisprudenza CEDU che, proprio in materia di procedure di insolvenza di banche, ha affermato che il giudice amministrativo deve esaminare le ragioni sostanziali alla base del provvedimento amministrativo.

2.2.- Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ancora, “errore della sentenza di secondo grado, sul 5^ e 6^ motivo del ricorso introduttivo per motivi attinenti alla giurisdizione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1)”.

Censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto inutilizzabili i documenti depositati dagli appellanti, valutando insussistenti le speciali ragioni che, a mente dell’art. 104 cod. proc. amm., comma 2 possono legittimare la deroga al divieto di nuove prove in appello.

3.- Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Appare opportuno – preliminarmente – riassumere il “fondo” della controversia definita con la sentenza impugnata.

A) Dalla sentenza del TAR – per quanto ancora rileva – emerge che: “dalla lettura della proposta della Banca d’Italia vengono in evidenza nei confronti della Bene Banca una serie di anomalie riguardanti aspetti fondamentali dell’organizzazione e dell’operatività dell’intermediario, in particolare riconducibili a: comportamenti degli organi societari, disfunzioni nell’organizzazione e nei controlli interni, rischiose prassi applicative nella gestione delle diverse fasi del processo del credito; specifiche operazioni incaute, tra l’altro in presenza di interessi personali di singoli esponenti (ad esempio quelle a favore di soggetti collegati al Presidente). A tali aspetti vanno poi aggiunti quelli, certamente non meno gravi, riguardanti la violazione della normativa antiriciclaggio, nonchè la violazione dei criteri in tema di classificazione e segnalazione delle posizioni di rischio. Di tutti tali elementi, descritti in modo analitico e circostanziato, anche attraverso il richiamo a singoli casi concreti, la proposta della Banca d’Italia pone in luce e doverosamente valuta anche le possibili ricadute sui profili tecnici della banca.

L’impianto motivazionale utilizzato risulta, pertanto, articolato ed esaustivo, oltre che del tutto congruo in relazione ai presupposti e le finalità della procedura in questione, i quali hanno riguardo alla oggettiva conduzione dell’attività aziendale e all’impossibilità di garantirne l’ordinata prosecuzione in capo agli esponenti aziendali in carica, e che dunque assumono rilievo a prescindere dalla eventuale individuazione di specifici illeciti in relazione ad altrettanto specifiche disposizioni normative.

B) Dalla sentenza del Consiglio di Stato impugnata si evince che gli istanti:

a) da un lato, non contestavano la sussistenza dei fatti accertati in sede ispettiva nè ne assumevano l’erronea definizione o descrizione, limitandosi piuttosto a non concordare con il giudizio di loro “gravità”, sulla base di considerazioni tendenti o a ridimensionare quelle circostanze di fatto o a considerarle addirittura “fisiologiche”;

b) per altro verso, rappresentavano ulteriori circostanze di fatto (in particolare, il contesto di crisi economica e finanziaria in cui l’attività dell’Istituto si inseriva, la risalenza nel tempo di molti dei fatti accertati e la accertata solidità patrimoniale dell’Istituto medesimo), a loro dire non prese in considerazione dalla Banca d’Italia e che avrebbero imposto un esito diverso.

4.- Le sezioni unite della Corte di cassazione, dinanzi alle quali siano impugnate decisioni di un giudice speciale per motivi attinenti alla giurisdizione, possono rilevare unicamente l’eventuale superamento dei limiti esterni della giurisdizione medesima, non essendo loro consentito di estendere il proprio sindacato anche al modo in cui la giurisdizione è stata esercitata, in rapporto a quanto denunciato dalle parti; sicchè rientrano nei limiti interni della giurisdizione e restano perciò estranei al sindacato di questa corte eventuali errori in iudicando o in procedendo che il ricorrente imputi al giudice amministrativo o al giudice contabile (cfr. di recente, ex multis, Sez. un. n. 9687 del 2013, n. 24149 del 2013, n. 1518 del 2014, n. 8993 del 2014).

Le censure che nel caso in esame i ricorrenti formulano nei confronti dell’impugnata sentenza del Consiglio di Stato – indipendentemente da ogni valutazione in ordine alla fondatezza o infondatezza delle argomentazioni su cui riposano – non attengono in realtà al superamento dei limiti esterni della giurisdizione di detto giudice.

Quella giurisdizione si è esplicata nella pronuncia di rigetto della domanda di annullamento di atti amministrativi – scioglimento degli organi dell’istituto di credito e nomina del Commissario Straordinario – in ordine alla legittimità dei quali il sindacato giurisdizionale incontestabilmente competeva al giudice amministrativo, che lo ha in concreto esercitato.

Va ribadito, invero, che l’eccesso di potere giurisdizionale, denunziabile ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 3, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito, è configurabile solo quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione. Il che vuol dire che il giudice, procedendo ad un sindacato di merito, emette una pronunzia autoesecutiva, intendendosi come tale quella che abbia il contenuto sostanziale e l’esecutorietà stessa del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (v. per tutte Sez. U, n. 774 del 2014).

I ricorrenti contestano la legittimità del concreto esercizio delle funzioni giurisdizionali attribuite al giudice amministrativo, e quindi finiscono in realtà per sollecitare, al di là della prospettazione formale, un sindacato per violazione di legge.

Le doglianze articolate non attengono alla corretta individuazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma investono un vizio del giudizio concernente il singolo e specifico caso.

I motivi di ricorso scambiano per diniego di giurisdizione o per ineffettività della tutela quello che invece è stato, con tutta evidenza, un esercizio della giurisdizione, sebbene in modo non conforme alle aspettative ed alle attese dei ricorrenti.

L’evoluzione del concetto di giurisdizione nel senso di strumento per la tutela effettiva delle parti non giustifica il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 111 Cost., u.c., quando, come nella specie, non si verta in ipotesi di aprioristico diniego di giurisdizione, ma la tutela la si assuma negata dal giudice speciale in conseguenza di errori di giudizio che si prospettino dal medesimo commessi in relazione allo specifico caso sottoposto al suo esame (Sez. Un., n. 771 del 2014).

E’ costante orientamento di queste Sezioni unite che il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, con il quale si deduca l’erronea decisione del medesimo in quanto contrastante con gli orientamenti precedentemente assunti dal medesimo giudice, è inammissibile prospettando un “error in iudicando”, estraneo al sindacato consentito alle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice speciale (Sez. U., n. 26812 del 2009). Principio senza dubbio valido in relazione alla censura (secondo motivo) relativa alla dichiarazione di inutilizzabilità dei documenti depositati dagli appellanti.

Infine, del tutto irrilevante è il richiamo all’art. 6 CEDU, considerato che i ricorrenti – pur volendo prescindere dalla non deducibilità come violazione dei limiti esterni della giurisdizione – pretendono sia applicabile il previo contraddittorio ad un provvedimento urgente, di natura cautelare e assolutamente riservato, come quello disciplinato dall’art. 70 T.U.B..

Inoltre, gli accertamenti in fatto riportati sub p. 3 rendono da soli evidente la manifesta infondatezza della censura relativa alla garanzia di effettività della tutela giurisdizionale sotto il profilo dell’accertamento dei fatti, anche tenuto conto di ciò, che è plausibile che di fronte ad accertamenti intrisi di tecnicismo il sindacato giurisdizionale si limiti al controllo di ragionevolezza (cfr. S.u. n. 1013/14).

Le spese del giudizio di legittimità – liquidate in dispositivo – seguono la soccombenza.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura di Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, in favore della Banca d’Italia e nella misura di Euro 5.000,00, oltre le spese prenotate a debito in favore del Ministero controricorrente.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2017

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