Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 7138 del 20/03/2017

Cassazione civile, sez. VI, 20/03/2017, (ud. 17/11/2016, dep.20/03/2017),  n. 7138

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17208 2015 R.G. proposto da:

B.S., – c.f. (OMISSIS); D.E. – c.f. (OMISSIS)

– (in proprio e quale erede di D.G., deceduto in data

(OMISSIS), a sua volta quale erede di D.M., deceduta in data

(OMISSIS)), + ALTRI OMESSI

B.P. – c.f. (OMISSIS) – R.B. – c.f. (OMISSIS)

– (quale erede di B.C., nata il (OMISSIS)),

B.G. – c.f. (OMISSIS) – (in proprio e quale erede di

B.G.), B.F. -c.f. BNDENC45D12L331R – + ALTRI OMESSI

– ricorrenti –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, elettivamente

domicilia;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

Avverso il decreto dei 17.11.2014/28.1.2015 della corte d’appello di

Caltanissetta;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 17

novembre 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Giovanni Romano per i ricorrenti principali.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso alla corte d’appello di Caltanissetta depositato in data 31.7.2012 i principali ricorrenti si dolevano per l’eccessiva durata della procedura fallimentare della s.r.l. “(OMISSIS)”, al cui passivo avevano domandato ed ottenuto l’ammissione.

Deducevano in particolare che il fallimento era stato dichiarato dal tribunale di Trapani con sentenza del (OMISSIS) e non era stato ancora chiuso alla data della proposizione del ricorso ex lege n. 89 del 2001: che con ricorso proposto in data 17.12.2007 avevano già domandato l’indennizzo per l’irragionevole durata della procedura “presupposta”, quale protrattasi sino alla data di deposito della pregressa istanza.

Chiedevano che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrisponder loro a ristoro dei danni subiti per l’irragionevole durata del fallimento “presupposto” successiva al 17.12.2007, un equo indennizzo indicato, per ciascuno di essi, in misura pari ad Euro 5.000.00 ovvero nella diversa somma, maggiore o minore, ritenuta di giustizia; con il favore delle spese da attribuirsi ai difensori anticipatari.

Resisteva il Ministero della Giustizia.

Con decreto dei 17.11.2014/28.1.2015 la corte d’appello di Caltanissetta condannava il Ministero resistente a pagare a ciascuno dei ricorrenti, per l’ulteriore periodo di irragionevole durata, la somma di Euro 2.291,00; rigettava la domanda proposta da B.G.A.; rigettava la domanda proposta da V.B.T. in qualità di tutore di C.F.: condannava il Ministero a pagare ai ricorrenti non soccombenti la quota di 1/2 delle spese di lite, con distrazione in favore dei difensori anticipatari, disponendone la compensazione limitatamente alla residua metà; compensava integralmente le spese di lite tra il Ministero e i ricorrenti soccombenti.

Dava atto la corte che con proprio decreto n. 24/2015, pronunciato in sede di rinvio da questa Corte di legittimità, era stata accolta, eccezion fatta per B.G.A., la domanda di equa riparazione in precedenza esperita dai ricorrenti per l’irragionevole durata della procedura “presupposta” fino alla data del 31.12.2007.

Dava atto altresì che era stata accolta la domanda degli eredi di taluni degli originari creditori ammessi al passivo della procedura “presupposta” e nelle more deceduti.

Indi esplicitava che dovevasi “ritenere accertato il presupposto per la liquidazione dell’ulteriore periodo di irragionevole durata della procedura concorsuale decorrente dalla originaria domanda proposta nel giudizio definito in sede di rinvio, sino alla data di proposizione del presente ricorso” (così decreto, pagg. 15 – 16).

Esplicitava inoltre che l’ulteriore periodo di irragionevole durata si determinava in quattro anni e sette mesi e che l’indennizzo poteva quantificarsi in Euro 500.00 per ogni anno di ritardo.

Esplicitava infine che B.G.A. non aveva dato prova della proposizione della domanda di ammissione al passivo e che non era stato acquisito riscontro dell’autorizzazione ex art. 374 c.p.c., comma 1, n. 5 ad instaurare il giudizio limitatamente alla domanda proposta da V.T.B. in qualità di tutore di F.C..

Avverso tale decreto hanno proposto ricorso sulla scorta di tre motivi i ricorrenti principali indicati in epigrafe; hanno chiesto che questa Corte ne disponga la cassazione e decida nel merito con condanna del Ministero alle spese e del primo giudizio e del giudizio di legittimità, da distrarsi in favore dell’avvocato Giovanni Romano.

Il Ministero della Giustizia ha depositato controricorso contenente ricorso incidentale articolato in tre motivi; ha chiesto dichiararsi inammissibile ovvero rigettarsi l’avverso ricorso ed accogliersi il ricorso incidentale; in ogni caso con il favore delle spese.

I ricorrenti principali hanno depositato controricorso onde resistere all’avverso ricorso incidentale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e 2, nonchè dell’art. 6, par. 1, e art. 41 della C.E.D.U..

Deducono che “in via del tutto apodittica ed in violazione del giudicato esterno (certamente vincolante per la decisione da assumere sulla riproposizione della domanda di equa riparazione)” (così ricorso principale, pag. 31) la corte ha liquidato la somma di Euro 500,00 per ogni anno di irragionevole durata.

Deducono che comunque la quantificazione dell’indennizzo, quale operata dalla corte di merito, non si conforma nè ai parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità, che li ha indicati in Euro 750.00 per i primi tre anni di irragionevole durata ed in Euro 1.000,00 per gli anni successivi, nè ai parametri individuati dalla giurisprudenza della Corte E.D.U..

Il primo motivo del ricorso principale è destituito di fondamento.

Si rappresenta in primo luogo che non vi è violazione del giudicato esterno.

Ed invero questa Corte spiega che il giudicato sostanziale (art. 2909 c.c.) – che, quale riflesso di quello formale (art. 324 c.p.c.). fa stato ad ogni effetto tra le parti per l’accertamento di merito positivo o negativo del diritto controverso – si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti di fatto che rappresentano le premesse necessarie ed il fondamento logico e giuridico della pronuncia, con effetto preclusivo dell’esame degli stessi elementi in un successivo giudizio, che abbia identici elementi costitutivi della relativa azione e cioè i soggetti, la causa petendi ed il petitum Cass. sez. lav. 2.3.1998, n. 2217; Cass. sez. un. 14.6.1995, n. 6689; Cass. sez. lav. 17.6.2003, n. 9685).

E spiega ulteriormente che la riferita preclusione non sussiste con riguardo alla domanda risarcitoria che, pur fondata su causa petendi già dedotta in precedente giudizio fra le stesse parti (nella specie, illegittimità delle opere eseguite dal proprietario del piano sovrastante in edificio condominiale), sia rivolta a conseguire il ristoro di un danno autonomo e distinto (nella specie, in quanto afferente a locali diversi da quelli per il cui danneggiamento si era in precedenza agito) (cfr. Cass. 23.4.1977, n. 1529).

In questi termini è agevole argomentare che diversa è l’azione esperita dai ricorrenti principali in data 17.12.2007 rispetto all’azione esperita dagli stessi ricorrenti in data 31.7.2012, siccome differente è il petitum dell’una e dell’altra domanda.

Propriamente con l’azione dapprima esercitata si è invocato il ristoro (petitum) del paterna d’animo sofferto per l’irragionevole durata della procedura fallimentare “presupposta” quale protrattasi sino al 17.12.2007 (e si ottenuto l’indennizzo sino al 31.12.2007), con l’azione dipoi introdotta – da cui è scaturito il presente ricorso per cassazione – si è invocato il ristoro (petitum) del “danno da irragionevole durata a partire dalla data di proposizione della prima domanda ex L. n. 89 del 2001 (17.12.2007) fino alla data di presentazione del presente ricorso” (così ricorso principale, pag. 18).

Si rappresenta in secondo luogo che questa Corte ha chiarito che, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale. il quale può, tuttavia, apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli (cfr. Cass. 28.5.2012, n. 8471; Cass. 30.7.2010, n. 17922).

In tal guisa la liquidazione di un indennizzo in misura inferiore a quella ordinariamente applicata dalla Corte non costituisce, a rigore, violazione di legge ed, al più, può integrare vizio della motivazione (cfr. Gss. 7.11.2011, n. 23029).

Conseguentemente la denuncia al contempo veicolata dal primo motivo del ricorso principale riveste valenza in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ben vero nella formulazione applicabile ratione temporis, ossia in rapporto alla formulazione scaturita dal D.Lgs. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134.

Rileva dunque l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte di legittimità (il riferimento è a Cass. sez. un. 7.4.2014, n. 8053).

Ovvero l’insegnamento secondo cui. da un canto, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (disposta dal D.Lgs. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134) deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale – del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicchè, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; e secondo cui, propriamente, tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico” nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Ovvero l’insegnamento secondo cui, dall’altro, il riformulato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); con la conseguenza che. nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Su tale scorta si rappresenta ulteriormente quanto segue.

Per un verso, che è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla luce dell’indicazione nomofilattica a sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte di Caltanissetta ha ancorato il suo dictum.

In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito, pur individuando nel contenuto della sentenza gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento, non procede ad una loro approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) la corte distrettuale ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il percorso argomentativo seguito (“un indennizzo pari ad Euro 500.00 per ogni ulteriore anno di ritardo rispetto al periodo giù valutato (…) in considerazione del congruo ristoro intervenuto con riferimento al lasso di irragionevole durata precedente così decreto impugnato, pag. 16) con motivazione in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congrua e coerente sul piano logico – formale.

E ciò tanto più giacchè la corte d’appello ha da decidere con decreto, sicchè ben può la motivazione assumere caratteri di sommarietà a condizione che si riescano ad individuare – siccome nel caso in esame – almeno per grandi linee ed anche dall’insieme delle indicazioni espresse nel provvedimento, i fondamentali elementi di giudizio sui quali la decisione è basata (cfr. in tal senso Cass. 18.2.2013, n. 3934).

Per altro verso, che la corte territoriale ha sicuramente disaminato il fatto storico caratterizzante la res litigiosa (ovvero l’asserito sofferto patema d’animo correlato alla pretesa “irragionevole” durata del fallimento “presupposto” per il periodo decorrente dall’1.1.2008).

D’altra parte, questo Giudice del diritto ha chiarito che legittimamente il giudice di merito può discostarsi dai parametri indennitari C.E.D.U. qualora accerti la modestia della “posta in giocò sia per il valore della causa, sia per la natura collettiva del ricorso – siccome, appunto, nella fattispecie – che può indurre ad una minore personalizzazione della controversia e, di conseguenza, ad una minore sofferenza per il suo prolungarsi (cfr. Cass. 12.7.20112, n. 15268).

Con il secondo motivo i ricorrenti principali denunciano in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2967 c.c. – (così ricorso principale, pag. 39).

Deducono che V.T.B. ha allegato il provvedimento di nomina quale tutore di F.C.; che l’autorizzazione è necessaria per l’assunzione di un debito ma non per l’assunzione della posizione di creditore; che i giudizi di equa riparazione “sono disciplinati dal rito camerale e non comportano un elevato rischio economico per il ricorrente” (così ricorso, pag. 40); che “la funzione del ricorso per equa riparazione non comporta l’assunzione di un vero e proprio giudizio – (così ricorso, pag. 42): che dunque non era necessario che il V. ottenesse “la preventiva autorizzazione da parte del giudice tutelare al fine di instaurare un giudizio di equa riparazione – (così ricorso, pag. 44).

Il secondo motivo del ricorso principale è del pari destituito di fondamento.

Si evidenzia che ai sensi dell’art. 374 c.c., n. 4 il tutore non può senza l’autorizzazione del giudice tutelare “promuovere giudizi, salvo che si tratti di denunzie di nuova opera o di danno temuto, di azioni possessorie o di sfratto e di azioni per riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti conservativi”.

E’ innegabile che le ipotesi fatte salve dalla disposizione testè menzionata hanno carattere tassativo, siccome questa Corte ha già avuto cura di puntualizzare (cfr. Cass. 14.1.1971, n. 71, secondo cui l’elencazione degli atti che il tutore può compiere senza l’autorizzazione del giudice tutelare, contenuta nell’art. 374 c.c., ha carattere tassativo), sicchè, in quanto eccezionali, sono al più passibili di interpretazione estensiva, di certo non sono suscettibili di interpretazione analogica.

In questi termini si rappresenta quanto segue.

In primo luogo che la proposizione del ricorso ex lege n. 89 del 2001 espone l’interdetto al rischio di una menomazione economica correlata all’eventualità della soccombenza (cfr. Cass. 22.1.2010, n. 1101, secondo cui i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. n. 89 del 2001 non si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dagli artt. 91 c.p.c. e ss., trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano, secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito).

In secondo luogo che la proposizione del ricorso ex lege n. 89 del 2001 non solo non è espressamente ascrivibile a nessuna delle ipotesi fatte “salve” di cui al summenzionato n. 5, ma neppure vi è riconducibile in chiave di interpretazione estensiva, non avendo con le operate “salvezze” identità alcuna di ratio (cfr. Cass. 1.9.1999, n. 9205, secondo cui l’interpretazione estensiva di disposizioni “eccezionali” o “derogatorie”, rispetto ad una avente natura di “regola”, se pure in astratto non preclusa, deve ritenersi comunque circoscritta alle ipotesi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portala della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni, bensì si limiti ad individuare nel contenuto implicito della norma eccezionale o derogatoria già codificata altra fattispecie avente identità di rafia con quella espressamente contemplata). Del resto, nella circostanza in cui questa Corte ebbe a reputare tassativa l’elencazione delle “salvezze” – di cui all’art. 374 c.c., n. 4 (il riferimento è a Cass. 14.1.1971, n. 71), ebbe a puntualizzare che l’azione intesa ad ottenere il rilascio di un immobile per urgente ed improrogabile necessità del locatore interdetto. promossa dal tutore senza l’autorizzazione del giudice tutelare, deve ritenersi improcedibile, non potendo parificarsi all’azione per sfratto che in via eccezionale il tutore può esperire senza la predetta autorizzazione.

In terzo luogo, e ad ulteriore riscontro dell’imprescindibilità dell’autorizzazione del giudice tutelare, che in epoca recente questo Giudice del diritto ha chiarito che al tutore di persona interdetta, già costituito e soccombente in primo grado, non necessita l’autorizzazione del giudice tutelare per appellare la relativa sentenza, mancando, in tale ipotesi, diversamente da quella dell’inizio ex novo del giudizio da parte sua, agli effetti dell’art. 374 c.c., n. 5, la necessità di compiere la preventiva valutazione in ordine all’interesse ed al rischio economico per l’incapace (0-. Cass. v. 30.9.2015, n. 19499).

Con il terzo motivo i ricorrenti principali denunciano in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2909 e 2967 c.c. – (così ricorso principale, pag. 44).

Deducono, limitatamente al rigetto della domanda di equa riparazione proposta da B.G.A., che avverso il decreto n. 24/2015, con cui la medesima corte di appello di Caltanissetta, in sede di rinvio, ha parimenti respinto la domanda esperita dal B. con ricorso in data 17.12.2007, è stata spiegata domanda di revocazione.

Deducono in ogni caso che all’epoca della proposizione della domanda di ammissione al passivo del fallimento “presupposto” B.G.A. – era minorenne e pertanto la domanda avanzata dalla madre G.R. era presentata anche nel suo interesse” (così ricorso, pag. 45); che d’altronde la domanda di ammissione al passivo – riportava sia il nome di G.R. che quello di B.G.A.” (così ricorso, pag. 45).

Il terzo motivo del ricorso principale analogamente è infondato.

Si rimarca innanzitutto che non sussiste la denunciata violazione dell’art. 2909 c.c..

E difatti, relativamente al ricorso ex lege n. 89 del 2001 proposto in data 17.12.2007, questa Corte di legittimità con la statuizione n. 10654/2014 ha cassato tont court – siccome è da ritenere in difetto di risultanze di segno diverso – il decreto n. 509/2012 che la corte di Caltanissetta dapprima aveva pronunciato. Indi, col decreto n. 24/2015 pronunciato in sede di rinvio la corte siciliana ha parimenti disconosciuto ogni pretesa limitatamente a B.G.A..

Si rimarca altresì che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, quale positivamente sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ben avrebbero dovuto i ricorrenti principali, onde consentire a questa Corte il compiuto riscontro. il compiuto vaglio dei loro assunti, riprodurre più o meno testualmente nel corpo del ricorso – la domanda n. 233 dello stato passivo (OMISSIS)” (così ricorso, pag. 45).

E difatti l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo – è per certi versi il caso del motivo de quo agitur – presuppone che la parte, nel rispetto del principio di “autosufficienza”, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi processuale (cfr. Cass. 30.9.2015, n. 19410; Cass. 20.1.2006, n. 1113, secondo cui il ricorso per cassazione – in forza del principio di cosiddetta “autosufficienza” deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al progresso giudizio di merito).

Con il primo motivo il ricorrente incidentale denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e della L. n. 89 del 2001, art. 2.

Deduce che la corte di merito ha errato a non provvedere “con riguardo al segmento temporale considerato (dicembre 2007 – luglio 2012) (…) allo scomputo del periodo di durata ragionevole allo stesso riferibile” (così controricorso, pagg. 19 – 20); che in tal modo la corte ha attribuito “alla normativa de qua finalità di tipo sanzionatorio o peggio ancora risarcitorie” (così controricorso, pag. 21).

Con il secondo motivo il ricorrente incidentale denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2.

Deduce che in dipendenza della tutela indennitaria già precedentemente accordata e dunque dell’ “azzeramento di ogni paterna e/o stress da attesa” (così controricorso, pag. 23). decorre ex novo un ulteriore periodo di durata ragionevole; che pertanto nel periodo di durata ragionevole, da computare ex novo e pari, per una procedura di media complessità, a sei anni. restava ricompreso il periodo ulteriore di durata irragionevole – pari a quattro anni e sette mesi — ritenuto dalla corte distrettuale: che quindi la richiesta indennitaria andava senz’altro respinta.

Il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono strettamente connessi.

Se ne giustifica perciò l’esame simultaneo.

Ambedue i motivi comunque non sono meritevoli di seguito.

Si rappresenta al riguardo che, al di là del rilievo per cui i ricorrenti principali hanno legittimamente esperito due diverse domande di equa riparazione in relazione a frazioni cronologiche distinte della medesima procedura fallimentare “presupposta” (possibilità per nulla preclusa, giacchè la fattispecie, ratione temporis, non intercetta l’attuale disposto dell’art. 4 – “la domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva della L. n. 89 del 2001), il fallimento “presupposto” nondimeno non può che essere considerato unitariamente.

Cosicchè per nulla può esser condivisa la prospettazione del Ministero controricorrente di “un periodo di durata ragionevole ex novo decorrente dalla data della pregressa richiesta riparatoria” (così controricorso, pag. 24).

Con il terzo motivo il ricorrente incidentale denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 75 c.p.c. e della L. n. 89 del 2001, art. 2.

Deduce in primo luogo che, con riferimento ai ricorrenti istanti iure hereditario, la corte nissena ha errato a disporre “la liquidazione dello indennizzo per l’intero (…) anzichè “pro quota hereditaria” (così controricorso, pag. 28).

Deduce in secondo luogo che, con riferimento ai ricorrenti istanti iure hereditario, la corte nissena del pari ha errato ad attribuire l’indennizzo “pur nella mancata specificazione della data di decesso del dante causa (…) inerendo l’indennizzo alla persona del dante causa – (così controricorso, pag. 29); che propriamente per gli istanti iure hereditario il dies ad quem della pretesa coincide con la data di decesso del dante causa, qualora intervenuta nel corso del procedimento; che conseguentemente la corte nissena ha errato a liquidare “indistintamente l’indennizzo per ciascun ricorrente quantunque per diversi ricorrenti si segnalasse il decesso del dante causa nel segmento temporale oggetto della richiesta indennitaria (31/12/07 31/7/2012)- (così controricorso, pagg. 31 – 32).

Immeritevole di seguito è pur il terzo motivo del ricorso incidentale.

In relazione al profilo dapprima veicolato dal motivo in disamina è sufficiente reiterare l’insegnamento di questa Corte alla cui stregua, in tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 de4l 2001, l’avvenuta proposizione del ricorso per cassazione da parte di alcuni soltanto dei soggetti che, in qualità di eredi, avevano agito in sede di merito, non comporta la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, i quali nel giudizio di impugnazione non assumono la veste di litisconsorti necessari; invero, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria. essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta sia dal precedente art. 727 c.c., il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti. presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, sia dall’art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione; trova, pertanto, applicazione il principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune (cfr. Cass. 24.1.2012, n. 995; cfr. altresì Cass. sez. un. 28.11.2007, n. 24657, secondo cui, i crediti del de cuius, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 c.c. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i credili risulta dal precedente art. 727 c.c., il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere fermate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonchè dal successivo art. 757 c.c., il quale, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnali tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760 c.c., che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; ed alla cui stregua, altresì, non può, in contrario, argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 c.c., concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il de cuius ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale; ed alla cui stregua, conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per, far valere l’intero credito comune o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito).

In relazione al profilo dipoi veicolato dal motivo in disamina, è indubitabile, in rapporto alle pretese azionate iure hereditario, che il paterna d’animo del dante causa, eventualmente connesso alla pendenza della procedura fallimentare “presupposta”, non può proiettarsi oltre il dì del suo decesso; cosicchè il dì della morte del de cuius (in rapporto appunto alle pretese azionate iure l’ereditario) costituisce il termine temporale cui, per un verso, correlare il riscontro della ragionevole ovvero della irragionevole protrazione del fallimento “presupposto”, cui, per altro verso, circoscrivere (dies ad quem) la durata irragionevole se del caso riscontrata.

Ciò nonostante non può non darsi atto di quanto segue.

In primo luogo che, in ossequio al canone dell'”autosufficienza”, il ricorrente incidentale avrebbe dovuto dar ragione della mancata formulazione di contestuale richiesta iure proprio da parte degli stessi ricorrenti, istanti iure hereditario. E ciò tanto più che i ricorrenti principali hanno sostanzialmente replicato di aver “sofferto” anche “in proprio” l’irragionevole durata del fallimento “presupposto”, allorchè hanno in particolare controdedotto che, ai fini della prosecuzione della procedura fallimentare, “non vi è la necessità di una formale costituzione da parte degli credi, i quali in ogni caso, hanno interesse ad una rapida definizione della procedura stessa” (così controricorso al ricorso incidentale, pag. 33). Evidentemente, ben ha fatto la corte di Caltanissetta a proiettare il riconoscimento dell’indennizzo oltre il dì del decesso dei danti causa, qualora i ricorrenti istanti iure hereditario abbiano ritualmente invocato il ristoro del pregiudizio anche iure proprio. D’altronde, il dì della morte del dante causa non assurge a dies ad quem, ma, al più e al più presto, a dies a quo della pretesa azionata iure proprio.

In secondo luogo che, in ossequio analogamente al canone dell'”autosufficienza”, il ricorrente incidentale avrebbe dovuto dar ragione specificamente e nominativamente delle richieste formulate iure hereditario nel ricorso alla corte d’appello di Caltanissetta depositato in data 31.7.2012 e non limitarsi a rinviare “alla stessa intestazione del ricorso per cassazione” (così ricorso incidentale, pag. 30). Ciò tanto più, si badi, che il vizio, in parte qua, di “autosufficienza” è stato espressamente stigmatizzato dai ricorrenti principali (cfr. controricorso al ricorso incidentale, pag. 26).

Si giustifica in dipendenza del rigetto e del ricorso principale e del rigetto del ricorso incidentale e dunque in dipendenza della reciproca soccombenza l’integrale compensazione delle spese di lite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013) (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. sesta civ. – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2017

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